Si riproduce per gentile concessione di Ipsoa
Wolters Kluwer l’articolo già apparso in Danno e
responsabilità, 2010
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La recentissima delibera Consob n. 17130/2010 ha
dato attuazione agli artt. 18-bis e 18-ter
T.u.f. in materia di consulenti finanziari. Di
particolare interesse è l’art. 12 di tale
regolamento che disciplina le norme di
comportamento. Il rapporto fra il consulente
finanziario e i suoi clienti si deve caratterizzare
per l’osservanza delle regole di condotta. Laddove
tali norme non vengano rispettate, il consulente può
essere chiamato a risponderne civilmente. Così come
gli intermediari finanziari sono stati
frequentemente citati in giudizio dagli investitori
negli ultimi anni, non si può escludere che ciò
avverrà nei prossimi anni anche con riferimento ai
consulenti finanziari. Di qui l’esigenza di una
precisa conoscenza e di una rigorosa osservanza
delle disposizioni che regolano il loro
comportamento, norme che si vanno a esaminare nel
presente articolo.
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Introduzione
L’art.
18-bis T.u.f. disciplina la neo-istituita
figura dei consulenti finanziari.
In particolare la legge prevede che “la riserva di
attività di cui all’articolo 18 non pregiudica la
possibilità per le persone fisiche, in possesso dei
requisiti di professionalità, onorabilità,
indipendenza e patrimoniali stabiliti con
regolamento adottato dal Ministro dell’economia e
delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la
Consob, ed iscritte nell’albo di cui al comma 2, di
prestare la consulenza in materia d’investimenti,
senza detenere somme di denaro o strumenti
finanziari di pertinenza dei clienti” (art. 18-bis
comma 1 T.u.f.). Inoltre il testo legislativo
stabilisce che la Consob determina, con regolamento,
i principi e i criteri relativi a una serie di
circostanze, fra cui le “regole di condotta che gli
iscritti nell’albo devono rispettare nel rapporto
con i clienti, avuto riguardo alla disciplina cui
sono sottoposti i soggetti abilitati” (art. 18-bis
comma 7 T.u.f.).
L’art.
18-bis T.u.f. omette dunque di occuparsi
direttamente delle norme di comportamento dei
consulenti finanziari e rinvia a un apposito
regolamento attuativo. La Consob, dopo aver fatto
circolare due documenti di consultazione (uno del
giugno 2008
e uno del novembre 2009),
ha approvato molto recentemente il reg. n.
17130/2010.
In questo articolo ci si vuole soffermare sulle
norme di comportamento dei consulenti finanziari
così come risultanti dal reg. n. 17130/2010. Al fine
di sottolineare il rilievo pratico di questa
materia, va ricordato che buona parte del
contenzioso sorto negli ultimi anni fra investitori
e intermediari finanziari è fondato sull’asserita
violazione di norme di comportamento, che si
sarebbero - invece - dovute osservare nella
formazione e nell’esecuzione del contratto.
Non si può escludere che, in futuro, anche la
categoria dei consulenti finanziari venga chiamata a
fronteggiare contestazioni di vario genere da parte
dei risparmiatori. Il modo migliore per prevenire
tali reclami e possibili azioni in giudizio è
l’instaurazione di un corretto rapporto contrattuale,
rispettoso – sia nella sua fase formativa sia in
quella esecutiva - delle diverse norme di
comportamento prescritte dall’ordinamento.
In via
introduttiva è utile ricordare che i consulenti
finanziari sono soggetti chiamati a prestare uno dei
possibili servizi d’investimento:
il “servizio di consulenza in materia di
investimenti”. Secondo la definizione legislativa,
per consulenza in materia d’investimenti si intende
“la prestazione di raccomandazioni personalizzate a
un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa
del prestatore del servizio, riguardo a una o più
operazioni relative a un determinato strumento
finanziario. La raccomandazione è personalizzata
quando è presentata come adatta al cliente o è
basata sulla considerazione delle caratteristiche
del cliente. Una raccomandazione non è
personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante
canali di distribuzione” (art. 1 comma 5-septies
T.u.f.).
Le norme di comportamento dei consulenti finanziari
sono contenute nell’art. 12 reg. n. 17130/2010,
rubricato “regole generali di comportamento”. Le
regole di condotta degli intermediari finanziari
sono invece regolate nell’art. 21 T.u.f. Le norme di
comportamento dei consulenti finanziari vengono
disciplinate in un apposito regolamento della
Consob, in quanto l’art. 21 T.u.f. non è loro
applicabile. L’art. 21 T.u.f. fissa le regole di
condotta dei “soggetti abilitati”. Lo stesso testo
normativo determina, all’art. 1 comma 1 lett. r,
cosa si debba intendere per “soggetti abilitati”:
“le SIM, le imprese di investimento comunitarie con
succursale in Italia, le imprese di investimento
extracomunitarie, le SGR, le società di gestione
armonizzate, le SICAV nonché gli intermediari
finanziari iscritti nell’elenco previsto
dall’articolo 107 del testo unico bancario e le
banche italiane, le banche comunitarie con
succursale in Italia e le banche extracomunitarie,
autorizzate all’esercizio dei servizi o delle
attività di investimento”. In questo elenco non
rientrano i consulenti finanziari, il cui operato
non è pertanto assoggettato a specifiche norme di
comportamento in forza di tale disposizione di
legge.
La legge demanda invece alla Consob di determinare,
con regolamento, fra le altre cose le “regole di
condotta che gli iscritti nell’albo devono
rispettare nel rapporto con i clienti, avuto
riguardo alla disciplina cui sono sottoposti i
soggetti abilitati” (art. 18-bis comma 7
lett. d T.u.f.). In altre parole, secondo la
legge, l’art. 21 T.u.f. doveva servire da punto di
riferimento per il lavoro di attuazione della
Consob. Come si avrà modo di verificare, le norme di
comportamento dei consulenti finanziari fissate dal
regolamento n. 17130/2010 si avvicinano molto alle
regole di condotta stabilite per i soggetti
abilitati dalla legge.
Diligenza, correttezza e trasparenza quali
principi-cardine dell’agire dei consulenti
finanziari
Il regolamento contiene anzitutto il principio
secondo cui “nella prestazione del servizio di
consulenza in materia di investimenti, i consulenti
finanziari si comportano con diligenza, correttezza
e trasparenza” (art. 12 comma 1 reg. n. 17130/2010).
Questa disposizione si riferisce alla “prestazione”
del servizio di consulenza. Con tale termine la
Consob intende riferirsi alla intera durata del
rapporto, dal momento dei primi contatti fra il
consulente finanziario e il cliente (che è ancora
“potenziale”, finché non è concluso il contratto)
fino alla cessazione della relazione. Si tratta di
una scelta dei regolatori mirante a tutelare il più
possibile, anche dal punto di vista dell’estensione
temporale, il fruitore dei servizi. Se si pone
attenzione all’art. 21 T.u.f. (sulle norme di
comportamento dei soggetti abilitati), non si trova
nulla di diverso, specificandosi in tale sede che le
norme di comportamento vanno rispettate “nella
prestazione” dei servizi e delle attività
d’investimento. L’ambito temporale di applicazione
delle regole di condotta, vuoi per i consulenti
finanziari vuoi per i soggetti abilitati, è dunque
molto ampio.
L’art. 12 comma 1 reg. n. 17310/2010 richiama
“diligenza”, “correttezza” e “trasparenza”, al fine
di determinare quale debba essere il buon
comportamento dei consulenti finanziari. Nel diritto
civile la “diligenza” viene menzionata in materia di
adempimento, laddove si prevede che “nell’adempiere
l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza
del buon padre di famiglia” (art. 1176 comma 1
c.c.). Lo stesso articolo specifica che
“nell’adempimento delle obbligazioni inerenti
all’esercizio di un’attività professionale, la
diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura
dell’attività esercitata” (art. 1176 comma 2 c.c.).
Il consulente finanziario svolge un’attività
professionale e, dunque, la diligenza che gli è
richiesta deve essere commisurata alla natura
dell’attività esercitata. La “correttezza” è un
termine usato nell’art. 1175 c.c.: “il debitore e il
creditore devono comportarsi secondo le regole della
correttezza”. La “trasparenza” non costituisce
invece una nozione classica del diritto civile; essa
ricorre nelle leggi speciali preposte a disciplinare
i mercati assicurativo, bancario e finanziario.
Diligenza, correttezza e trasparenza sono menzionate
espressamente nella disposizione-cardine in materia
di norme di comportamento dei soggetti abilitati,
ossia nell’art. 21 T.u.f., dove si afferma che nella
prestazione dei servizi e delle attività di
investimento e accessori, i soggetti abilitati
devono “comportarsi con diligenza, correttezza e
trasparenza, per servire al meglio l’interesse dei
clienti e per l’integrità dei mercati” (art. 21
comma 1 lett. a T.u.f.).
In materie così tecniche come l’intermediazione
finanziaria e la consulenza finanziaria non è
possibile lasciare a mere clausole generali la
funzione di determinare quali siano i “giusti”
comportamenti degli operatori del settore. Ecco
allora che intervengono normative, di rango sia
legislativo sia regolamentare, a dettare norme più
dettagliate. Qui di seguito esamineremo le
principali regole di condotta dei consulenti
finanziari risultanti dal reg. n. 17130/2010.
L’acquisizione e la dazione d’informazioni
Il
regolamento sui consulenti finanziari si occupa di
dazione d’informazioni agli investitori, prevedendo
che i consulenti finanziari “forniscono al cliente o
potenziale cliente informazioni corrette, chiare,
non fuorvianti e sufficientemente dettagliate
affinché il cliente o potenziale cliente possa
ragionevolmente comprendere la natura e le
caratteristiche del servizio di consulenza in
materia di investimenti e dello specifico strumento
finanziario raccomandato e possa adottare decisioni
di investimento informate” (art. 12 comma 1 lett.
a reg. n. 17130/2010).
Il flusso informativo non va però solo dal
consulente finanziario al cliente, ma anche in senso
opposto, ossia dal cliente al consulente. In questo
senso dispone la previsione secondo cui i consulenti
finanziari “acquisiscono dai clienti o potenziali
clienti le informazioni necessarie al fine della
loro classificazione come clienti o potenziali
clienti al dettaglio o professionali ed al fine di
raccomandare gli strumenti finanziari adatti al
cliente o potenziale cliente” (art. 12 comma 1 lett.
b reg. n. 17130/2010). L’ordine temporale del
flusso informativo è dunque: 1) prima informazioni
dal cliente al consulente finanziario (almeno al
fine della classificazione); 2) poi informazioni dal
consulente al cliente.
Iniziamo allora l’analisi del regolamento con la
disposizione che impone al consulente finanziario di
raccogliere informazioni dal cliente. A questa norma
di comportamento ci si riferisce con l’espressione
inglese, largamente diffusa, di “know your
customer” (“conosci il tuo cliente”). Al
riguardo la disposizione in esame distingue fra
“clienti” e “potenziali clienti”. Il cliente può
essere già stato acquisito, e allora si parla
semplicemente di “cliente”, oppure può essere in
fase di acquisizione, e allora si parla di
“potenziale cliente”. La differenza è che nei
confronti del “cliente” sussiste già un rapporto
contrattuale, mentre nei confronti del “potenziale
cliente” non sussiste un rapporto contrattuale
(giocando con le parole, si può affermare che esiste
un mero “contatto”, che può poi divenire “contratto”).
L’acquisizione d’informazioni da parte del
consulente finanziario è finalizzata, in un primo
momento, alla classificazione del cliente e, in un
secondo momento, alla raccomandazione di strumenti
finanziari adatti allo stesso.
In
merito alla classificazione dei clienti giova
osservare che il nostro ordinamento ha ora
introdotto la distinzione fra “cliente al dettaglio”
e “cliente professionale”. La definizione di cliente
professionale è contenuta nel regolamento Consob n.
16190 del 2007
e, in particolare, nel suo allegato n. 3 (rubricato
“clienti professionali privati”). La nozione è
alquanto complessa e non pare opportuno riprodurla o
descriverla in dettaglio in questa sede. Ai fini che
qui interessano basta rilevare che, secondo detto
allegato, “un cliente professionale è un cliente che
possiede l’esperienza, le conoscenze e la competenza
necessarie per prendere consapevolmente le proprie
decisioni in materia di investimenti e per valutare
correttamente i rischi che assume”. Tali clienti
vengono poi distinti in “clienti professionali di
diritto” e “clienti professionali su richiesta”. Il
regolatore ritiene non opportuno che i clienti al
dettaglio e quelli professionali vengano trattati
allo stesso modo, dal momento che i primi hanno
bisogno di un livello di protezione maggiore di
quello di cui necessitano i secondi. Al fine di
garantire a ciascuno la tutela adatta, il primo
passo che deve compiere il consulente finanziario è
quello di accertarsi di quali siano le
caratteristiche del soggetto con cui sta per
instaurare un rapporto professionale. Tramite la
raccolta d’informazioni, il consulente ricostruisce
la natura del cliente con cui ha a che fare; a
seconda degli esiti dell’indagine, il cliente viene
classificato come al dettaglio piuttosto che come
professionale e riceve il corrispondente
trattamento.
Una
volta raccolte informazioni dal cliente, il
consulente finanziario deve – a sua volta -
informare il cliente. Il regolamento stabilisce al
riguardo che le informazioni devono essere
“corrette”, “chiare”, “non fuorvianti” e
“sufficientemente dettagliate”. “Correttezza”
dell’informazione significa che l’informazione non
può essere contraria a verità (anche se bisogna
rilevare che l’aggettivo più appropriato per
esprimere questa nozione sarebbe: “vera”). La
chiarezza è il secondo requisito dell’informazione
prescritto dal regolamento. Una delle funzioni della
dazione d’informazioni è trasmettere conoscenza,
risultato che si può realizzare solo quando i dati e
le notizie sono trasparenti. Secondo il regolamento,
inoltre, l’informazione non può essere fuorviante.
Un dato è fuorviante quando è in grado di
determinare un errore in capo al cliente. Si tratta
di un’informazione che in sé può anche corrispondere
alla realtà delle cose, ma che – ciò nonostante –
può indurre in errore. Questo risultato può
realizzarsi in particolare nel caso si combini una
serie di dati. Si deve difatti riflettere sulla
circostanza che non tutte le informazioni hanno la
stessa rilevanza. La sopravalutazione di dati di
poca importanza unita a una sottovalutazione
d’informazioni importanti può creare una
rappresentazione in capo al cliente fuorviante
rispetto alla realtà delle cose. L’informazione deve
infine, dice il regolamento, essere sufficientemente
dettagliata. Non basta dunque una descrizione
sommaria, ma occorre un certo livello di
specificità. Dall’altro lato non è tuttavia
consentito eccedere nella dazione d’informazioni: a
ciò osta il requisito del “sufficiente” dettaglio.
Nelle materie tecniche capita non di rado che
l’interlocutore del professionista debba
confrontarsi con informazioni particolarmente
analitiche, rispetto alle quali è talvolta difficile
operare una sintesi.
Complessivamente si deve ritenere che il consulente
finanziario che informa “in modo perfetto” è quello
che fornisce relativamente poche informazioni al
cliente: quelle che sono effettivamente rilevanti
per la decisione d’investimento, omettendo di
soffermarsi su dettagli.
Il regolamento esige che le informazioni fornite dal
consulente siano atte a far sì che il cliente “possa
ragionevolmente comprendere” la natura e le
caratteristiche del servizio di consulenza e dello
specifico strumento finanziario raccomandato. Il
livello di comprensione dipende sì, da un lato,
dalle caratteristiche sopra indicate delle
informazioni (corrette, chiare, non fuorvianti e
sufficientemente dettagliate), ma dipende anche –
inevitabilmente – dalla capacità di “decifrazione”
del singolo destinatario. Con il termine
“ragionevole” il regolatore vuole impedire che, a
fronte d’informazioni che soddisfano nella sostanza
i requisiti sopra esaminati, il cliente possa
richiamarsi a una propria incapacità di
comprensione.
L’oggetto dell’informazione che il consulente deve
rendere è duplice: la natura e le caratteristiche 1)
del servizio di consulenza in materia di
investimenti e 2) dello specifico strumento
finanziario raccomandato. Il consulente deve dunque,
in un primo momento, spiegare in cosa consiste il
suo lavoro. In un secondo momento occorre
tratteggiare la natura e le caratteristiche dello
strumento finanziario che intende proporre al
cliente. Se vengono raccomandati più strumenti
finanziari in un unico contesto, la disposizione in
esame va interpretata nel senso che il consulente
deve illustrare la natura e le caratteristiche di
ogni singolo strumento.
La valutazione di adeguatezza
Uno dei
principali doveri che fanno capo ai consulenti
finanziari è la c.d. “valutazione di adeguatezza”.
Il regolamento dispone difatti che i consulenti
finanziari “valutano, sulla base delle informazioni
acquisite dai clienti, la adeguatezza delle
operazioni raccomandate” (art. 12 comma 1 lett. c
reg. n. 17130/2010).
Cosa si intende con l’espressione di “adeguatezza”,
un termine – a dire il vero - non particolarmente
ricorrente nella terminologia giuridica? Il vocabolo
“adeguatezza” richiama un giudizio di
proporzionalità. Adeguato è qualcosa rispetto a
qualcosa d’altro. Nel caso di specie si tratta,
nella sostanza, di rapportare l’operazione proposta
alle caratteristiche del cliente cui viene
raccomandata. La corrispondente espressione inglese,
di ampia diffusione, è “suitability rule”
(appunto: regola dell’adeguatezza).
Il regolamento dice che l’adeguatezza delle
operazioni raccomandate va valutata “sulla base
delle informazioni acquisite dai clienti”. Questa
disposizione pare quasi offrire una scappatoia ai
consulenti finanziari rispetto a ipotesi di loro
possibile responsabilità civile. A leggere questa
norma al di fuori del contesto in cui essa si
colloca, sembrerebbe che l’unico parametro di
riferimento per i consulenti debbano essere le
informazioni fornite dal cliente. Questa soluzione
non pare invero accettabile e non trova conforto
nella giurisprudenza che, seppure in vigore della
normativa previgente e in relazione ai soggetti
abilitati, è giunta a esiti diversi. Finora
l’orientamento giurisprudenziale è nel senso che
l’intermediario finanziario non può determinare la
sua proposta d’investimento esclusivamente sulla
base delle informazioni ricevute dal cliente. Sulla
banca incombe invece un obbligo d’indagare che va al
di là del flusso informativo proveniente
dall’investitore. In altre parole l’intermediario
non può andare esente da responsabilità limitandosi
ad affermare di avere investito “fidandosi” di
quanto rappresentato dal cliente. La dovuta
diligenza professionale impone al consulente
finanziario (e non solo al soggetto abilitato) di
accertare, almeno sommariamente, se le affermazioni
dell’investitore corrispondono a verità.
La valutazione di adeguatezza è oggetto di un’altra,
apposita, disposizione del regolamento: “sulla base
delle informazioni ricevute dal cliente, e tenuto
conto della natura e delle caratteristiche del
servizio di consulenza in materia di investimenti, i
consulenti finanziari valutano che la specifica
operazione consigliata soddisfi i seguenti
requisiti: a) corrisponda agli obiettivi di
investimento del cliente; b) sia di natura
tale che il cliente sia finanziariamente in grado di
sopportare qualsiasi rischio connesso
all’investimento compatibilmente con i suoi
obiettivi di investimento; c) sia di natura
tale per cui il cliente possieda la necessaria
esperienza e conoscenza per comprendere i rischi
inerenti all’operazione” (art. 19 comma 1 reg. n.
17130/2010).
In via preliminare bisogna notare che la valutazione
di adeguatezza deve intervenire in riferimento a
ogni singolo d’investimento raccomandato: il
regolamento parla di “specifica” operazione
consigliata. Non si tratta di un’attività che può
essere svolta una tantum all’inizio del
rapporto fra il consulente finanziario e il cliente,
bensì di un adempimento che deve essere ripetuto
ogni volta che viene consigliata un’operazione.
Per il
resto al consulente finanziario viene chiesto di
operare più verifiche. In un primo momento il
consulente deve accertare che la specifica
operazione corrisponda agli obiettivi d’investimento
del cliente. Il consulente deve avere pertanto prima
accertato quali siano tali obiettivi: se
l’operazione si colloca all’interno degli obiettivi,
essa è adeguata; se invece l’operazione non rispetta
tali obiettivi, essa è inadeguata. In secondo luogo
il consulente deve verificare che il cliente sia in
grado di sopportare qualsiasi rischio connesso
all’investimento. Se, ad esempio, la somma da
investirsi è eccessivamente elevata per il cliente,
non potrà essere consigliata l’operazione. In terzo
luogo occorre che il cliente sia in grado, per
esperienza e conoscenza, di comprendere i rischi
inerenti all’operazione. Nel caso di prodotti
finanziari complessi, ciò tende a succedere
raramente.
L’ingegneria finanziaria degli ultimi anni ha creato
prodotti di una tale complessità da essere
comprensibili solo agli addetti ai lavori. Rispetto
a tali strumenti è lecito assumere che siano poche
le persone in grado di apprezzarne tutti i rischi.
Non è un caso che, in diversi processi cui si è
assistito negli ultimi anni, il giudice e le parti
siano dovuti ricorrere all’aiuto di consulenti
tecnici per comprendere le reali caratteristiche
delle operazioni effettuate. Un’interpretazione
stringente della disposizione in esame depone dunque
nel senso che i consulenti finanziari non possano
consigliare prodotti complessi, salvo nei rari casi
in cui abbiano a che fare con persone con reale
“esperienza” e “conoscenza” (probabilmente, però,
questi soggetti non hanno bisogno di un consulente e
sono in grado di gestire autonomamente il proprio
portafoglio).
Il regolamento specifica poi che “una serie di
operazioni, ciascuna delle quali è adeguata se
considerata isolatamente, può non essere adeguata se
avvenga con una frequenza che non è nel migliore
interesse del cliente” (art. 19 comma 2 reg. n.
17130/2010). Questa disposizione del regolamento
impone al consulente finanziario di “coordinare” i
propri suggerimenti (se, ad esempio, il consulente
dà tre indicazioni di investimento, deve specificare
se esse sono cumulative o alternative). Sotto un
altro profilo la norma impone al consulente di non
suggerire di compiere un numero di operazioni che,
rispetto all’interesse del cliente, risulta
eccessivo. Una disposizione del genere è peraltro
ragionevole quando vi è un conflitto d’interessi (si
tratta del caso dell’intermediario finanziario, il
quale potrebbe avere interesse a movimentare in
continuazione il portafoglio del cliente, al fine di
lucrare commissioni). Questo rischio non sussiste
invece (o è comunque minore) nell’ipotesi del
consulente finanziario, in quanto non può detenere
somme di pertinenza del cliente.
Le procedure interne
Sui consulenti finanziari incombono anche obblighi
di natura organizzativa. Il regolamento prevede
difatti che essi “istituiscono e mantengono
procedure interne e registrazioni idonee” (art. 12
comma 1 lett. d reg. n. 17130/2010).
Al fine di svolgere “diligentemente” una determinata
attività professionale è necessaria non solo una
certa competenza in materia, ma anche la creazione
di strutture organizzative idonee. La disposizione
in commento deve essere letta congiuntamente
all’art. 24 reg. n. 17130/2010, secondo cui “i
consulenti finanziari adottano, applicano e
mantengono: a) procedure adeguate alla
natura, alla dimensione e alla complessità
dell’attività svolta che siano idonee a garantire
l’adempimento degli obblighi di diligenza,
correttezza e trasparenza nella prestazione del
servizio di consulenza in materia di investimenti;
b) procedure che consentono di ricostruire i
comportamenti posti in essere nella prestazione del
servizio di consulenza in materia di investimenti”
(art. 24 comma 1 reg. n. 17130/2010).
La
disposizione in commento impone inoltre
l’istituzione e il mantenimento di “registrazioni
idonee”, materia disciplinata analiticamente
nell’art. 26 reg. n. 17130/2010.
Il conflitto d’interessi
In
materia di conflitto d’interessi, il regolamento
prevede che i consulenti finanziari “agiscono
nell’interesse dei clienti e, ogni volta in cui le
misure organizzative adottate per la gestione dei
conflitti di interesse non siano sufficienti ad
assicurare che il rischio di nuocere agli interessi
dei clienti stessi sia evitato, li informano
chiaramente, prima di agire per loro conto, della
natura e/o delle fonti dei conflitti affinché essi
possano assumere una decisione informata sul
servizio prestato, tenuto conto del contesto in cui
le situazioni di conflitto si manifestano” (art. 12
comma 1 lett. e reg. n. 17130/2010).
Il presupposto della disposizione è l’esistenza di
più interessi. Rispetto al tenore letterale della
norma, che parla di “interesse” al singolare,
parrebbe pertanto più corretto l’uso del plurale
“interessi”. Occorrono cioè due o più interessi
contrapposti, che possono spingere il consulente
finanziario a operare a danno del cliente. Il
regolatore crea allora un meccanismo di
bilanciamento.
Nell’area dell’intermediazione finanziaria il
problema del conflitto d’interessi ricorre, in
particolare, quando le banche che svolgono attività
d’intermediazione sono - allo stesso tempo -
finanziatrici (e dunque creditrici) del soggetto
emittente. Alcune vicende degli ultimi anni hanno
evidenziato la rilevanza di questa problematica
(paradigmatico al riguardo è il caso delle società
emittenti facenti parte del gruppo Cirio). La banca
esposta con un emittente, al fine di rientrare dalla
propria esposizione debitoria, può spingere
l’emittente a emettere obbligazioni che vengono poi
collocate presso il pubblico.
L’intermediario collocatore si trova in una
situazione di conflitto rispetto ai compratori
finali delle obbligazioni. Il contrasto sussiste in
quanto la banca, mediante il collocamento delle
obbligazioni, consente all’emittente di ottenere
quelle risorse che gli permettono di ripianare i
debiti esistenti nei confronti della medesima banca.
Questo meccanismo è stato ben descritto in una
sentenza del Tribunale di Milano del 2006.
Il conflitto d’interessi, lampante nel caso appena
esposto, è certamente più sfumato nell’ipotesi dei
consulenti finanziari. La legge dice difatti
espressamente che i consulenti finanziari operano
“senza detenere somme di denaro o strumenti
finanziari di pertinenza dei clienti” (art. 18-bis
comma 1 T.u.f.). I consulenti inoltre non agiscono
come finanziatori dei propri clienti. Ciò nonostante
la Consob vuole evitare qualsiasi possibile
situazione di conflitto e statuisce la disposizione
che si sta esaminando.
In materia di conflitto d’interessi, le regole che
fanno capo ai consulenti finanziari sono di
carattere organizzativo e informativo: in primo
luogo i consulenti devono dotarsi di misure
organizzative per la gestione dei conflitti; se ciò
non basta, in secondo luogo devono informare
chiaramente su natura e fonti dei conflitti. L’art.
12 comma 1 lett. e reg. n. 17130/2010 non
arriva invece a fissare un dovere di astenersi dal
prestare il servizio di consulenza in materia
d’investimenti in presenza di un conflitto
d’interessi non risolto. La scelta che è stata
dunque effettuata dal regolatore non giunge a
tutelare il cliente ad ogni costo, impedendo il
compimento dell’operazione in presenza di un
conflitto d’interessi non risolto.
Bisogna
chiedersi quali siano le conseguenze di un
comportamento dei consulenti finanziari in
violazione delle norme di comportamento
(organizzative e informative) in merito al conflitto
d’interessi. Il rimedio più appropriato appare
essere il risarcimento del danno (e non la richiesta
di nullità dell’operazione). Anche in questo
contesto dovrebbe risultare applicabile quanto
statuito dalle sentenze nn. 26724 e 26725 del 2007
della Corte di cassazione.
Tali pronunce hanno affermato il principio di
diritto secondo cui la violazione dei doveri
d’informazione del cliente può dar luogo a
responsabilità precontrattuale,
con conseguente obbligo di risarcimento dei danni,
ove tale violazione avvenga nella fase precedente o
coincidente con la stipulazione del contratto
d’intermediazione destinato a regolare i successivi
rapporti fra le parti; può invece dar luogo a
responsabilità contrattuale, ed eventualmente
condurre alla risoluzione del predetto contratto,
ove si tratti di violazione riguardante le
operazioni d’investimento o disinvestimento compiute
in esecuzione del contratto d’intermediazione
finanziaria. In nessun caso, in difetto di
previsione normativa in tal senso, la violazione dei
doveri di comportamento può determinare la nullità
del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti
negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418 comma
1 c.c.
L’osservanza di leggi, regolamenti e codici di
autodisciplina
Merita di essere menzionata anche la clausola di
chiusura dell’elencazione delle norme generali di
comportamento dei consulenti finanziari. Ci si
riferisce alla regola per cui i consulenti
“osservano le disposizioni legislative,
regolamentari e i codici di autodisciplina relativi
alla loro attività” (art. 12 comma 1 lett. f
reg. n. 17130/2010).
In primo luogo, secondo l’art. 12 comma 1 lett. f
reg. n. 17130/2010, i consulenti finanziari devono
rispettare tutte le leggi che li riguardano. Questa
disposizione è inutile. Non si capisce difatti come
possa un regolamento “ordinare” a certi soggetti di
rispettare la legge. Attesa una precisa gerarchia
delle fonti - nel nostro ordinamento - che fa
prevalere le leggi rispetto ai regolamenti (l’art. 4
comma 1 delle preleggi recita: “i regolamenti non
possono contenere norme contrarie alle disposizioni
delle leggi”), il regolamento non può derogare alla
legge ed è dunque inutile affermare in un
regolamento che un certo soggetto deve rispettare la
legge. Tuttavia la disposizione, per quanto forse
non particolarmente riuscita dal punto di vista
formale, non nuoce e ha una duplice funzione:
“mnemonica” (ricordare che è necessario osservare la
legge) e “pedagogica” (invitare al rispetto della
legge). Nulla cambierebbe nell’ordinamento se non vi
fosse il richiamo all’osservanza delle leggi;
tuttavia nulla nemmeno cambia se si ripete ad
abundantiam che non si possono violare le leggi.
In secondo luogo la norma in commento esige il
rispetto delle disposizioni regolamentari. La regola
si riferisce ad altri regolamenti che dovessero
risultare applicabili ai consulenti finanziari.
In terzo
luogo la disposizione del regolamento si riferisce
ai “codici di autodisciplina”. In sede di prima
consultazione sulla bozza di regolamento era stato
proposto d’inserire l’obbligo del consulente
finanziario di consegnare al cliente una copia di
tali codici.
La proposta rischiava tuttavia di aggravare
eccessivamente gli adempimenti cui è assoggettato il
consulente e non è stata accolta. Ciò non significa
ovviamente che il consulente non possa aderire a un
codice di autodisciplina. Nel caso in cui lo faccia,
il consulente è tenuto (indipendentemente dalla
consegna di una copia del codice) a osservare quanto
previsto nel codice. L’inosservanza delle
disposizioni del codice di autodisciplina può
determinare responsabilità civile.
Il dovere di riservatezza
L’art. 12 comma 2 reg. n. 17130/2010 statuisce un
dovere di riservatezza. Si prevede difatti che “i
consulenti finanziari sono tenuti a mantenere la
riservatezza sulle informazioni acquisite dai
clienti o dai potenziali clienti o di cui comunque
dispongano in ragione della loro attività, salvo che
nei casi previsti dall’articolo 18-bis, comma
6, lettere e) ed f), del Testo Unico
ed in ogni altro caso in cui l’ordinamento ne
consenta o ne imponga la rivelazione. È comunque
vietato l’uso delle suddette informazioni per
interessi diversi da quelli strettamente
professionali” (art. 12 comma 2 reg. n. 17130/2010).
Anzitutto giova rilevare che il dovere di
riservatezza del consulente finanziario opera non
solo nei confronti dei clienti attuali (rispetto ai
quali è già venuto a esistenza un rapporto
contrattuale), ma anche nei confronti dei clienti
potenziali. Può cioè capitare che un consulente
intrattenga trattative con un determinato soggetto,
ricevendo dallo stesso informazioni, e che poi il
rapporto contrattuale non si perfezioni, in quanto –
ad esempio - il cliente alla fine preferisca non
avvalersi di tale consulente. Il consulente non può
comunque fare uso delle informazioni ricevute.
Il regolamento fa un’eccezione in riferimento
all’art. 18-bis, comma 6, lettere e)
ed f) T.u.f. Tali disposizioni prevedono che
l’organismo “può richiedere agli iscritti nell’albo
la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione
di atti e documenti , secondo le modalità e nei
termini dallo stesso determinati” (lett. e);
inoltre “può effettuare nei confronti degli iscritti
ispezioni e richiedere l’esibizione dei documenti e
il compimento degli atti necessari, nonché procedere
ad audizione personale” (lett. f). Il divieto
di dare informazioni relative ai clienti non opera
dunque nei confronti dell’organismo e l’eccezione è
ben comprensibile, in quanto - altrimenti -
l’organismo avrebbe considerevoli difficoltà
nell’esercitare la sua funzione di controllo.
Un’ulteriore eccezione viene fatta dal regolamento
per i casi in cui l’ordinamento “consente” oppure
“impone” la rivelazione di certi dati. La
disposizione è vaga, facendo riferimento
all’”ordinamento”. L’ordinamento opera attraverso
delle regole, che possono avere fonte diversa. Se si
tratta della legge, è evidente che il regolamento
non può a essa derogare (e la disposizione è dunque
sostanzialmente inutile). La norma in commento può
invece risultare di utilità pratica nei casi in cui
siano altre disposizioni regolamentari a consentire
o imporre la rivelazione di certi dati: la regola
chiarisce, a scanso di equivoci, che la rivelazione
d’informazioni è consentita o – addirittura -
imposta.
La materia del conflitto d’interessi è
disciplinata più in dettaglio nell’art. 25
del regolamento. Qui viene statuito, fra
l’altro, che “i consulenti finanziari
adottano ogni misura ragionevole, adeguata
alla natura, alla dimensione ed alla
complessità dell’attività svolta, per
identificare i conflitti di interesse che
potrebbero sorgere con il cliente o tra i
clienti, al momento della prestazione del
servizio di consulenza in materia di
investimenti” (art. 25 comma 1 reg. n.
17130/2010). Inoltre si prevede che “i
consulenti finanziari gestiscono i conflitti
di interesse anche adottando idonee misure
organizzative, adeguate alla natura, alla
dimensione ed alla complessità dell’attività
svolta, e assicurando che l’affidamento di
una pluralità di funzioni ai soggetti
rilevanti impegnati in attività che
implicano un conflitto di interesse non
impedisca loro di agire in modo
indipendente, così da evitare che tali
conflitti incidano negativamente sugli
interessi dei clienti” (art. 25 comma 2 reg.
n. 17130/2010). Infine si stabilisce che
“quando le misure adottate ai sensi del
comma 2 non sono sufficienti per assicurare,
con ragionevole certezza, che il rischio di
nuocere agli interessi dei clienti sia
evitato, i consulenti finanziari li
informano chiaramente, prima di agire per
loro conto, della natura e/o delle fonti dei
conflitti affinché essi possano assumere una
decisione informata sul servizio prestato,
tenuto conto del contesto in cui le
situazioni di conflitto si manifestano”
(art. 25 comma 4 reg. n. 17130/2010).
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