3 dicembre 2012
Si riproduce per gentile concessione dell’autore
Valerio Sangiovanni e dell’editore Utet Giuridica la
nota a sentenza già apparsa in Obbligazioni e
Contratti, 2012, pp. 595-602
Tribunale di Palermo, sez. III, 14 febbraio 2012,
n. 684
G.U. Monfredi
Obbligazioni pecuniarie – Anatocismo – Usi contrari
– Natura di usi normativi – Diritto alla ripetizione
- Prescrizione – Termine di decorrenza
Per i contratti
bancari stipulati prima dell’entrata in vigore della
delibera CICR del 9 febbraio 2000 deve escludersi
l’esistenza di un uso normativo idoneo a derogare al
precetto dell’art. 1283 c.c., con la conseguenza che
è nulla - anche se oggetto di espressa pattuizione -
la clausola di capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi, con diritto per il cliente di
ripetere i pagamenti già effettuati ovvero di
rifiutare legittimamente la prestazione degli
interessi che, in virtù della previsione
contrattuale contraria all’art. 1283 c.c., sarebbero
ancora dovuti e risultano computati dalla banca.
SINTESI
a) L’anatocismo bancario
La sentenza in commento
si occupa dell’annoso problema dell’anatocismo
bancario. Le banche sono solite prevedere nei
contratti il diritto di capitalizzare a determinate
scadenze gli interessi. Il problema che si è posto
nel corso degli anni è se la relativa clausola sia
legittima.
b) La nullità della
clausola
La soluzione fatta
propria dai più recenti orientamenti
giurisprudenziali è nel senso che la clausola di
capitalizzazione sia nulla. L’art. 1283 c.c.,
difatti, consente l’apposizione di una clausola che
preveda l’anatocismo in presenza di un uso. L’uso
d’inserire una pattuizione del genere nei contratti
(in particolare nelle norme uniformi bancarie) è
stato però reputato dalla Corte di cassazione come
un mero uso negoziale, e non come un uso normativo.
Gli usi negoziali non sono in grado di derogare al
divieto dell’art. 1283 c.c.
c) La prescrizione del
diritto alla ripetizione
Affermata la nullità
della clausola di capitalizzazione, il cliente
bancario può pretendere – secondo la regola generale
(art. 2033 c.c.) - la restituzione degli interessi
anatocistici che sono stati illegittimamente
addebitati. La sentenza in esame si sofferma su tale
aspetto, pervenendo al risultato che il termine di
prescrizione (decennale) decorre non tanto dai
singoli addebiti in conto corrente quanto piuttosto
dal momento in cui il conto corrente viene chiuso.
SOMMARIO:
1. Introduzione – 2.
L’art. 1283 c.c. – 3. Usi negoziali e usi normativi
– 4. La nullità della clausola sulla
capitalizzazione degli interessi – 5. La
prescrizione della pretesa del cliente bancario.
1. Introduzione
Le evoluzioni
giurisprudenziali e normative, che si susseguono
ormai da decenni, dimostrano l’estrema sensibilità
del tema “anatocismo” per il mondo bancario .
Risultando, come ormai afferma la giurisprudenza,
l’illegittimità delle clausole di capitalizzazione
degli interessi inserite nei contratti prima della
riforma del 1999, le banche convenute in giudizio
sono costrette a restituire le somme ingiustamente
addebitate. Se inoltre, come statuiscono i più
recenti orientamenti giurisprudenziali, la
prescrizione opera solo a far tempo dalla chiusura
del conto, ancora oggi è possibile – in diversi casi
- ottenere la condanna alla restituzione degli
interessi anatocistici. Gli istituti di credito
temono pertanto di vedersi esposti a un elevato
numero di citazioni in giudizio. Generalmente le
somme per le quali le banche vengono condannate non
sono particolarmente elevate; tuttavia l’estrema
diffusione dell’anatocismo implica che
frequentemente le controparti degli istituti di
credito possono ancor’oggi aspirare alla
restituzione di quanto illegittimamente addebitato.
Non è allora un caso che la sentenza del Tribunale
di Palermo in commento torni sul tema
dell’anatocismo nei contratti bancari, occupandosi –
sotto un primo profilo - dell’invalidità della
clausola di capitalizzazione nonché – sotto un
secondo profilo – dell’identificazione del momento
di decorrenza del termine di prescrizione del
diritto alla ripetizione di quanto ingiustamente
addebitato al cliente.
In via d’introduzione è
utile rammentare che per anatocismo si intende la
previsione contrattuale in base alla quale gli
interessi che la controparte della banca è tenuta a
pagare in forza di un determinato rapporto vengono a
un certo punto “capitalizzati” (cioè considerati non
più come interessi, ma come capitale), con la
conseguenza che anche su di essi possono essere
addebitati interessi. Tale meccanismo di
capitalizzazione può operare a diverse scadenze,
dovendosi distinguere fra capitalizzazione
trimestrale, semestrale o annuale. Articolate sono
le ragioni per cui la legge tende a ostacolare la
previsione di interessi anatocistici, e su di esse
non potremo soffermarci in questa nota. Basterà
accennare a un certo sfavore del legislatore per la
c.d. “fecondità” del danaro, che può creare un
eccessivo onere finanziario in capo al debitore e
che – talvolta – sfocia in fenomeni che si
avvicinano all’usura.
La materia
dell’anatocismo è attualmente disciplinata in tre
testi: il codice civile in via generale, il t.u.b.
per i profili bancari e una deliberazione CICR
attuativa delle disposizioni di legge. L’anatocismo
è regolato anzitutto nell’art. 1283 c.c., secondo
cui, in mancanza di usi contrari, gli interessi
scaduti possono produrre interessi solo dal giorno
della domanda giudiziale o per effetto di
convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre
che si tratti di interessi dovuti per almeno sei
mesi. Nel t.u.b. vi è una delega al CICR, il quale
viene incaricato di stabilire modalità e criteri per
la produzione di interessi sugli interessi maturati
nelle operazioni poste in essere nell’esercizio
dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che
nelle operazioni in conto corrente sia assicurata
nei confronti della clientela la stessa periodicità
nel conteggio degli interessi sia debitori sia
creditori (art. 120, 2° co., t.u.b.) . La normativa
CICR di riferimento è la delibera 9 febbraio 2000,
recante “modalità e criteri per la produzione di
interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni
poste in essere nell’esercizio dell’attività
bancaria e finanziaria”.
Per un’appropriata
comprensione delle problematiche attinenti
all’anatocismo, bisogna operare una distinzione di
fondo fra i contratti conclusi fino al 30.6.2000 e i
contratti conclusi successivamente a tale data.
Mentre per un lungo periodo di tempo (anni ottanta e
novanta) l’anatocismo era stato sostanzialmente
accettato dalla giurisprudenza, la quale non aveva
sindacato il fatto che la clausola fosse inserita
nelle norme bancarie uniformi e quindi in tutti i
moduli predisposti dagli istituti di credito, nel
corso del 1999 si sono succedute alcune sentenze, le
quali – innovando il precedente indirizzo
giurisprudenziale – hanno affermato la nullità della
clausola di capitalizzazione.
Nel medesimo anno è
intervenuto il legislatore: il d.lgs. n. 342/1999 ha
espressamente dichiarato legittime le clausole di
capitalizzazione, demandando a una deliberazione
CICR l’attuazione degli aspetti di dettaglio. Vi è
però stato un successivo intervento della Corte
costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità
dell’art. 25, 3° co., d.lgs. n. 342/1999 ,
disposizione che prevedeva che le clausole relative
alla produzione di interessi sugli interessi
maturati, contenute nei contratti stipulati
anteriormente alla data di entrata in vigore della
delibera CICR 9.2.2000, fossero valide ed efficaci
fino a tale data . Si è pertanto tentata una
sanatoria ex lege delle clausole contrattuali di
capitalizzazione. La Corte costituzionale ha
tuttavia dichiarato l’illegittimità costituzionale
di detta comma (anche se solo per eccesso di delega,
senza entrare nel merito della questione), lasciando
aperte le porte alla contestazione di nullità delle
clausole di capitalizzazione contenute nei vecchi
contratti.
Il contenzioso ancora in
corso davanti ai giudici italiani, come del resto
dimostra la sentenza in commento, concerne i
contratti anteriori al 30.6.2000. Come si può
immaginare, il fatto che la magistratura si trovi ad
affrontare questioni così risalenti nel tempo
determina alcuni problemi particolari, sia di
carattere operativo sia di carattere giuridico.
Dal punto di vista
operativo, nella prassi può capitare che le società
che hanno subito addebiti anatocistici non siano più
in possesso della relativa documentazione (o ne
posseggano solo una parte), circostanza che può
rendere difficile la prova degli addebiti e del loro
ammontare. Se solo si pone attenzione alla sentenza
in esame, si può notare come si sia dovuto
ricostruire gli addebiti di interessi anatocistici
dal 1980 (!) al 2000. Poiché nei primi anni ottanta
gli strumenti informatici non erano diffusi, il
recupero della documentazione può risultare
difficile anche per questa ragione.
Oltre che per la
complessa produzione di documenti in giudizio, le
azioni intentate dai clienti contro le banche in
materia di anatocismo possono risultare difficoltose
nel calcolo degli interessi ingiustamente
addebitati. Tali addebiti sono avvenuti talvolta per
un lungo arco di tempo, e molto addietro nel
passato. La complessità tecnica fa sorgere quasi
inevitabilmente l’esigenza di rivolgersi a un c.t.u.
per l’esperimento delle necessarie verifiche. I
quesiti devono essere ben formulati dal giudice per
consentire al c.t.u. di operare in modo efficace. Se
i quesiti non sono particolarmente circostanziati,
gli stessi c.t.u. possono trovare difficoltà
nell’interpretare il pensiero della Corte di
cassazione e nel dare corretta applicazione ai
principi enunciati dalla Suprema corte. La
complessità nel calcolo degli interessi (e la
discrezionalità nei criteri utilizzabili dai
consulenti tecnici) fa sì che talvolta gli esiti
delle consulenze tecniche mostrino significative
divergenze fra il c.t.u. e i c.t.p. A ciò si
aggiunga che l’intervento del c.t.u., e talvolta di
c.t.p., fa lievitare i costi del processo.
Sotto un profilo più
strettamente giuridico, considerato che -
dall’entrata in vigore della nuova normativa è
passata una dozzina d’anni - spesso i tribunali si
trovano ad affrontare la questione della
prescrizione delle pretese avanzate dai clienti
bancari. Anche la sentenza in commento si occupa di
simili problematiche, negando peraltro che essa si
sia verificata.
Nel nostro commento ci occuperemo della situazione
vigente prima del 30.6.2000 (ma ancora attuale),
considerato che il Tribunale di Palermo si è
occupato di un contratto concluso prima di tale
data.
2. L’art. 1283 c.c.
L’art. 1283 c.c. pone
alcuni limiti alla possibilità che gli interessi
producano a loro volta interessi. La prima
condizione è che gli interessi siano scaduti. La
Corte di cassazione ha riaffermato il principio di
legge, statuendo che il giudice può condannare al
pagamento di interessi su interessi solo se si sia
accertato che alla data della scadenza giudiziale
erano già scaduti gli interessi principali (sui
quali calcolare gli interessi secondari) e cioè che
il debito era esigibile e che il creditore era in
mora . Ai fini della determinazione del momento in
cui gli interessi scadono, la situazione può
complicarsi nei casi in cui ogni rata con la quale
si paga un debito contiene sia una parte di capitale
sia una parte d’interessi. In queste fattispecie il
mancato pagamento di una rata alla scadenza
convenuta comporta che viene a scadenza anche la
quota d’interessi inserita in tale rata. A questo
riguardo la Corte di cassazione ha affermato, in
tema di credito fondiario , che il mancato pagamento
di una rata di mutuo comporta l’obbligo di
corrispondere gli interessi di mora sull’intera
rata, compresa la parte che rappresenta gli
interessi di ammortamento.
La legge specifica
altresì che la produzione di interessi può avvenire
solo dal giorno della domanda giudiziale. In linea
di principio la banca si trova pertanto costretta ad
agire in giudizio per ottenere gli interessi
anatocistici. Inoltre il momento del decorso di tali
interessi è, appunto, quello della domanda
giudiziale (e non un momento precedente). Agli
interessi anatocistici fatti valere in giudizio, e
dopo la presentazione di apposita domanda, ci si
riferisce talvolta con l’espressione di “anatocismo
giudiziale”.
In alternativa rispetto
al caso appena esaminato (interessi scaduti a
partire dalla domanda giudiziale), la legge prevede
che gli interessi su interessi possono essere
pretesi anche per effetto di convenzione posteriore
alla loro scadenza (c.d. “anatocismo
convenzionale”). Anche in questa ipotesi rimane
ferma la necessità della intervenuta scadenza degli
interessi, ma vi è un accordo fra le parti che
legittima l’addebito. La legge, nella specificare
che la convenzione deve essere posteriore alla
scadenza, mira a salvaguardare la libertà di
determinazione del debitore, al quale non può essere
imposta fin dall’inizio una clausola così gravosa.
Al riguardo la Corte di cassazione ha affermato che
non si sottrae al divieto dell’anatocismo dettato
dall’art. 1283 c.c. l’apposita convenzione che,
stipulata successivamente a un contratto di garanzia
e relativa alle obbligazioni derivanti da quel
rapporto, preveda l’obbligo per la parte debitrice
di corrispondere anche gli interessi sugli interessi
che matureranno in futuro, in quanto è idonea a
sottrarsi a tale divieto solo la convenzione che sia
stata stipulata successivamente alla scadenza degli
interessi.
La legge specifica
infine che, in ambedue i casi (interessi scaduti
dalla domanda giudiziale oppure per effetto di
convenzione posteriore), si deve trattare di
interessi dovuti per almeno sei mesi.
3. Usi negoziali e usi normativi
La particolarità
dell’art. 1283 c.c., sulla quale si concentra il
contenzioso, è che vengono fatti salvi gli “usi
contrari”: in presenza di usi contrari non operano i
limiti all’anatocismo che abbiamo appena analizzato
. La giurisprudenza degli ultimi anni mostra che al
centro delle controversie in materia di anatocismo
vi è frequentemente l’eccezione delle banche di
sussistenza di un uso contrario, che legittimerebbe
gli interessi su interessi . Gli interventi
giurisprudenziali si sono concentrati sulla natura
degli usi di cui discorre l’art. 1283 c.c.
La distinzione da
operarsi in generale è quella fra uso negoziale e
uso normativo. L’uso negoziale è la fattispecie
indicata nell’art. 1340 c.c., secondo cui le
clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto,
se non risulta che non sono state volute dalle
parti. L’uso normativo è invece la diversa ipotesi
di cui si trova traccia nelle preleggi. In questa
sede, dopo l’affermazione che gli usi sono fonti del
diritto (art. 1 preleggi), si stabilisce che nelle
materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli
usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi
richiamati (art. 8, 1° co., preleggi); inoltre viene
statuito che gli usi pubblicati nelle raccolte
ufficiali degli enti e degli organi a ciò
autorizzati si presumono esistenti fino a prova
contraria (art. 9 preleggi). A differenza degli usi
negoziali, gli usi normativi sono vere e proprie
norme. Secondo le indicazioni della giurisprudenza,
gli elementi dell’uso normativo sono due: l’uno,
esteriore, costituito da un mero fatto consistente
nella ripetizione uniforme e costante di un dato
comportamento; l’altro, psicologico, consistente
nella convinzione di osservare, così operando, una
norma giuridica . L’uso normativo opera
automaticamente, mentre l’uso negoziale, in quanto
operante sullo stesso piano delle clausole
contrattuali, non può considerarsi inserito nel
contratto se non in virtù di un’espressa o implicita
manifestazione di volontà.
La questione della
natura degli usi concernenti l’anatocismo è stata da
sempre dibattuta, come dimostra la presenza di
sentenze contrastanti sul punto. Un primo indirizzo
giurisprudenziale, maggioritario fino al 1999, li ha
qualificati come usi normativi. A titolo di esempio
secondo una sentenza della Corte di cassazione del
1988 gli usi che consentono l’anatocismo, richiamati
dall’art. 1283 c.c., sono usi normativi, in quanto
operano sullo stesso piano di tale norma come
espressa eccezione al principio generale ivi
affermato, onde essi hanno l’identica natura delle
regole dettate dal legislatore e il giudice può
applicarli attingendone comunque la conoscenza (iura
novit curia), con la conseguenza che anche in sede
di legittimità è ammessa un’indagine diretta sugli
usi in questione e, una volta accertata l’esistenza,
una decisione sulla base dei medesimi,
indipendentemente dalle allegazioni delle parti e
dalle considerazioni svolte in proposito dai giudici
di merito . Al contrario: un secondo orientamento
giurisprudenziale, minoritario fino al 1999, ha
qualificato gli usi in materia anatocistica come
negoziali. In questa direzione si può citare –
sempre a titolo esemplificativo - una sentenza della
Corte di cassazione del 1999 : secondo questo
intervento dei giudici la clausola di un contratto
bancario, che preveda la capitalizzazione degli
interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla,
in quanto si basa su un uso negoziale e non su un
uso normativo come esige l’art. 1283 c.c.
L’inserimento della clausola nel contratto, in
conformità alle norme bancarie uniformi predisposte
dall’ABI, non esclude la suddetta nullità, poiché a
tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere
di usi negoziali e non quello di usi normativi.
Al fine di porre termine
ai contrasti giurisprudenziali, si è pronunciata –
nel 2004 - la Corte di cassazione a Sezioni Unite ,
con una decisione di grande rilievo per lo
svilupparsi di tutta la successiva giurisprudenza e
non a caso citata nella sentenza in commento. Le
Sezioni Unite affermano che gli “usi contrari”
suscettibili di derogare al precetto dell’art. 1283
c.c. sono veri e propri “usi normativi”, consistenti
nella ripetizione generale, uniforme, costante e
pubblica di un determinato comportamento (usus),
accompagnato dalla convinzione che si tratta di
comportamento (non dipendente da un mero arbitrio
soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in
quanto conforme a una norma che già esiste o che si
ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio).
Secondo la Cassazione, dalla comune esperienza
emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati
all’inserimento della clausola anatocistica non in
quanto ritenuta conforme a norme di diritto
oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile
fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto
comprese nei moduli predisposti dagli istituti di
credito, in conformità con le direttive
dell’associazione di categoria, insuscettibili di
negoziazione individuale e la cui sottoscrizione
costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile
per accedere ai servizi bancari.
Si tratta di un
atteggiamento psicologico lontano dalla spontanea
adesione a un precetto giuridico, se non altro per
l’evidente disparità di trattamento che la clausola
stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e
interessi dovuti dal cliente. Secondo le Sezioni
Unite, l’accertamento della qualità di uso negoziale
della prassi bancaria di capitalizzazione
trimestrale degli interessi, e quindi della nullità
delle clausole contrattuali relative, vale anche per
il passato, non potendosi ritenere che, alla luce di
precedenti indirizzi giurisprudenziali, essa avesse
la natura, diversa, di uso normativo idoneo a
costituire valida deroga alla regola codicistica
della capitalizzazione semestrale.
4. La nullità della clausola sulla
capitalizzazione degli interessi
Sulla scorta della
decisione delle Sezioni Unite, l’affermazione più
significativa contenuta nella sentenza del Tribunale
di Palermo è che, anteriormente alla riforma del
2000, le clausole contrattuali che prevedevano la
capitalizzazione degli interessi erano contrarie a
legge e, come tali, nulle. Il principio può ormai
considerarsi consolidato, essendo stato ripetuto in
più occasioni dalla Corte di cassazione.
A ben vedere l’art. 1283
c.c. non specifica la sanzione da applicarsi alla
clausola che prevede interessi anatocistici.
Letteralmente la disposizione si esprime nel senso
che gli interessi scaduti “possono” produrre
interessi solo a certe condizioni. Tale espressione
implica che, in assenza dei relativi presupposti di
legge, gli interessi scaduti “non possono” produrre
interessi. Si tratta di un divieto fissato dalla
legge e il contratto che contiene una clausola in
contrasto con tale divieto si pone contro la legge.
Non ricorre però una
fattispecie di nullità testuale (art. 1418, 3° co.,
c.c.), in quanto la legge non enuncia espressamente
la sanzione della nullità quale conseguenza della
violazione della disposizione.
Va allora valutato se la
clausola che prevede interessi anatocistici non
configuri un’ipotesi di nullità virtuale, per
contrarietà a disposizione imperativa (art. 1418, 1°
co., c.c.) . Secondo la Corte di cassazione
l’ipotesi di nullità del contratto per contrarietà a
norme imperative si verifica, salvo che la legge
disponga altrimenti, indipendentemente da
un’espressa comminatoria della sanzione di nullità
dei singoli casi. Infatti, la norma dell’art. 1418,
1° co., c.c. esprime un principio generale, rivolta
a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui
alla violazione di precetti imperativi non si
accompagna una specifica previsione di nullità . In
tali casi, continua la Cassazione, compito del
giudice, ai fini della declaratoria di nullità, è
solo quello di stabilire se la norma o le norme
contraddette dall’autonomia privata abbiano
carattere imperativo, siano, cioè, dettate a tutela
dell’interesse pubblico. Nel caso degli interessi
anatocistici, bisogna rilevare che le sentenze che
hanno affrontato la questione della possibile
nullità della relativa clausola contrattuale non si
sono generalmente occupate di accertare
l’imperatività del disposto dell’art. 1283 c.c.,
dandola per scontata.
Il rinvio agli usi,
nella tecnica legislativa del codice civile, è
piuttosto frequente. Tuttavia, pur esistendo
numerose disposizioni che richiamano gli usi, in
diversi casi – oltre agli usi – vengono
espressamente fatti salvi i patti contrari. A titolo
di esempio si prenda il caso del termine essenziale:
è possibile chiedere l’esecuzione oltre il termine
dandone notizia all’altra parte, “salvo patto o uso
contrario” (art. 1457, 1° co., c.c.). Oppure si
pensi alla disposizione sul luogo di consegna della
cosa mobile nella vendita, identificato nel luogo
dove la cosa si trovava al tempo della vendita, se
le parti ne erano a conoscenza, “in mancanza di
patto o di uso contrario” (art. 1510, 1° co., c.c.).
Quando il legislatore fa salvo sia il patto sia
l’uso contrario, la deroga alla disposizione di
legge può avvenire anche sulla base di un accordo
fra le parti. Viceversa, nel caso dell’anatocismo,
solo gli usi possono derogare al relativo divieto.
Questa circostanza pare confermare l’inderogabilità
del divieto di anatocismo.
Bisogna poi accennare
agli effetti della nullità. Al riguardo va subito
osservato che la nullità della singola clausola non
determina nullità dell’intero contratto. Secondo la
disposizione generale la nullità di singole clausole
importa la nullità dell’intero contratto se risulta
che i contraenti non lo avrebbero concluso senza
quella parte del suo contenuto che è colpita dalla
nullità (art. 1419, 1° co., c.c.). Si potrebbe forse
argomentare nel senso che le banche, se avessero
saputo di non poter ottenere gli interessi
anatocistici, non avrebbero concluso il contratto,
che sarebbe risultato per esse eccessivamente
sfavorevole dal punto di vista economico. È tuttavia
difficile che un’argomentazione del genere riesca a
fare breccia, in considerazione del fatto che la
motivazione (economica) principale per cui le banche
concedono credito è il conseguimento degli interessi
semplici, rispetto ai quali gli interessi
anatocistici si pongono solo come un elemento
addizionale, economicamente non irrilevante, ma
verosimilmente non decisivo ai fini della
conclusione del contratto.
Escluso che si possa
produrre la nullità dell’intero contratto per
effetto della previsione anatocistica, la clausola
nulla (quella sulla capitalizzazione degli
interessi) si considera come non apposta, con la
conseguenza che è improduttiva di effetti. Le
prestazioni che sono già state effettuate sulla base
della pattuizione nulla vanno restituite. Di
conseguenza le azioni in giudizio in materia di
anatocismo terminano tipicamente con la condanna
della banca alla restituzione degli interessi
indebitamente percepiti. Più precisamente si
verifica un indebito oggettivo: secondo la
previsione di legge, chi ha eseguito un pagamento
non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato
(art. 2033 c.c.).
Recentemente le Sezioni
Unite della Corte di cassazione hanno specificato
che qualora, nell’ambito del contratto di conto
corrente bancario, venga dichiarata la nullità della
previsione di capitalizzazione trimestrale degli
interessi, per contrasto con il divieto di
anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., gli
interessi a debito del correntista debbono essere
calcolati senza operare capitalizzazione alcuna .
Con questa statuizione si chiarisce che sono
illegittime tutte le clausole che prevedono la
capitalizzazione, indipendentemente dalla
circostanza che essa operi trimestralmente,
semestralmente oppure annualmente.
Con la declaratoria di
nullità, la clausola sulla capitalizzazione viene
definitivamente espunta dal contratto e
impossibilitata a produrre effetti ex tunc. Ciò non
significa peraltro che la banca non fosse
legittimata ad applicare alcun interesse. Andrà
pertanto operata una distinzione fra interessi
legittimi e interessi illegittimi (quelli
anatocistici), se del caso avvalendosi di una
consulenza tecnica per differenziare fra tali tipi
di interessi. Gli interessi legittimamente
addebitati non potranno essere chiesti in
restituzione.
Infine, dal punto di
vista processuale si può osservare che la nullità -
secondo la regola generale (art. 1421 c.c.) - può
essere rilevata d’ufficio dal giudice . In un
intervento molto recente, la Corte di cassazione ha
ribadito che nel giudizio di opposizione a decreto
ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del
correntista, la nullità della clausola di
capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti
dal cliente sul saldo passivo, in quanto stipulata
in violazione dell’art. 1283 c.c., è rilevabile
d’ufficio ex art. 1421 c.c., anche in sede di
gravame, qualora vi sia contestazione - ancorché per
ragioni diverse - sul titolo posto a fondamento
della domanda degli interessi anatocistici,
rientrando nei compiti del giudice l’indagine in
ordine alla sussistenza delle condizioni dell’azione
.
5. La prescrizione della pretesa del cliente
bancario
Un altro importante
aspetto, trattato nella sentenza in commento,
concerne la prescrizione del diritto del cliente a
ripetere le somme illegittimamente addebitate dalla
banca a titolo di interessi anatocistici . Il
Tribunale di Palermo afferma che tale prescrizione
non si è verificata, rigettando l’eccezione della
banca e accogliendo la domanda del cliente.
Il problema della
prescrizione è rilevante nel contesto
dell’anatocismo in quanto gli addebiti di interessi
anatocistici sono risalenti nel tempo e le pretese
alle restituzioni potrebbero, per tale ragione,
reputarsi oggi (in tutto o in parte) prescritte. Nel
caso affrontato dal Tribunale di Palermo, il
contratto di apertura di credito cessò nell’ottobre
del 2004, ma gli addebiti contestati erano parecchio
risalenti nel tempo: a partire addirittura dal 1980.
A seconda della durata del termine di prescrizione
(5 oppure 10 anni) e del momento di decorso del
medesimo (dai singoli addebiti oppure dalla chiusura
del rapporto), le pretese alla restituzione possono
o meno essersi prescritte. Due sono allora gli
aspetti in materia di prescrizione che necessitano
di analisi: 1) quale sia il termine di prescrizione
della pretesa alla restituzione e 2) da quando tale
termine decorra. Il Tribunale di Palermo ritiene che
il termine applicabile sia quello decennale e che
decorra dal momento della cessazione del rapporto
contrattuale con la banca.
Al fine d’identificare
la corretta durata del termine di prescrizione,
bisogna individuare l’azione che il cliente fa
valere nei confronti della banca. Tipicamente la
domanda avanzata dall’utente bancario è doppia:
declaratoria di nullità della clausola di
capitalizzazione e (conseguente) restituzione degli
interessi illegittimamente addebitati. L’azione di
nullità in sé considerata è imprescrittibile,
tuttavia le azioni di ripetizione si possono
prescrivere (art. 1422 c.c.). L’eccezione della
banca fondata sulla prescrizione dell’azione di
nullità è pertanto destinata a essere rigettata,
diversamente dall’eccezione relativa alla
prescrizione dell’azione di ripetizione, laddove sia
passato troppo tempo. Con riferimento alla durata
del termine di prescrizione dell’azione di
ripetizione degli interessi anatocistici
indebitamente addebitati, si tratta della
prescrizione ordinaria: i diritti si estinguono con
il decorso di dieci anni (art. 2946 c.c.).
Con riguardo al momento
in cui decorre il termine di prescrizione, la
disposizione generale di riferimento è l’art. 2935
c.c., secondo cui la prescrizione inizia a decorrere
dal giorno in cui il diritto può essere fatto
valere. Nel contesto della ripetizione d’interessi
anatocistici ingiustamente addebitati sono in
sostanza possibili due interpretazioni. Secondo una
prima interpretazione andrebbero tenuti distinti i
singoli addebiti e il diritto alla restituzione si
prescrive con il decorso di dieci anni da ogni
addebito. Secondo una seconda interpretazione,
invece, i diritti si prescrivono decorso il termine
di dieci anni dal momento in cui è stato chiuso il
conto corrente utilizzato per gli addebiti. La
distinzione è evidentemente di estrema rilevanza
pratica, in quanto la seconda interpretazione
consente la ripetizione anche a lunga distanza di
tempo, mentre la prima produce di fatto l’effetto di
rendere oggi impossibile la restituzione.
Anche la questione del
momento di decorso del termine di prescrizione (come
quella relativa alla natura degli usi anatocistici
esaminata sopra) è divenuta oggetto di una –
importante - sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di cassazione . La Cassazione ha deciso che se
- dopo la conclusione di un contratto di apertura di
credito bancario regolato in conto corrente - il
correntista agisce per far dichiarare la nullità
della clausola che prevede la corresponsione di
interessi anatocistici e per la ripetizione di
quanto pagato indebitamente a questo titolo, il
termine di prescrizione decennale cui tale azione di
ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti
eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto
abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della
provvista, dalla data in cui è stato estinto il
saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non
dovuti sono stati registrati.
Per arrivare a questa
conclusione la Corte di cassazione si basa
sull’interpretazione della disciplina legislativa
del contratto di apertura di credito bancario (art.
1842 ss. c.c.), contratto col quale la banca si
obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una
somma di denaro, che il cliente può utilizzare anche
in più riprese e della quale, per l’intera durata
del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte
la disponibilità eseguendo versamenti che gli
consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti
entro il limite complessivo del credito accordatogli
. Se, pendente l’apertura di credito, il correntista
non si sia avvalso della facoltà di effettuare
versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun
pagamento da parte sua, prima del momento in cui,
chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla
banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso,
qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a
causa del computo d’interessi in misura non
consentita, l’eventuale azione di ripetizione
d’indebito non potrà che essere esercitata in un
momento successivo alla chiusura del conto, e solo
da quel momento comincerà pertanto a decorrere il
relativo termine di prescrizione.
La Corte di cassazione
continua affermando che, qualora – invece - durante
lo svolgimento del rapporto il correntista abbia
effettuato non solo prelevamenti ma anche
versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere
considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter
formare oggetto di ripetizione (ove risultino
indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e
l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore
della banca. Questo accadrà qualora si tratti di
versamenti eseguiti su un conto in passivo cui non
accede alcuna copertura di credito a favore del
correntista, o quando i versamenti siano destinati a
coprire un passivo eccedente i limiti
dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti
i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo
il passivo superato il limite dell’affidamento
concesso al cliente, fungano unicamente da atti
ripristinatori della provvista della quale il
correntista può ancora continuare a godere.
Secondo le Sezioni
Unite, un versamento eseguito dal cliente su un
conto il cui passivo non abbia superato il limite
dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura
di credito non ha né lo scopo né l’effetto di
soddisfare la pretesa della banca medesima di
vedersi restituire le somme date a mutuo (credito
che, in quel momento, non sarebbe scaduto, né
esigibile), bensì quello di riespandere la misura
dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro
dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché
non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina)
la facoltà d’indebitamento del correntista; e la
circostanza che, in quel momento, il saldo passivo
del conto sia influenzato da interessi
illegittimamente fin lì computati si traduce in
un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior
indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di
interessi. Di pagamento, nella descritta situazione,
potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi
il rapporto di apertura di credito in conto
corrente, la banca abbia esatto dal correntista la
restituzione del saldo finale, nel computo del quale
risultino compresi interessi non dovuti e, perciò,
da restituire se corrisposti dal cliente all’atto
della chiusura del conto.
La Corte di cassazione
fonda la sua interpretazione sul dato testuale
dell’art. 2033 c.c., che esige un “pagamento” non
dovuto. Nel caso dell’apertura di credito, non vi
sarebbe in pendenza del rapporto un tale pagamento,
ma solo un ripristino della disponibilità
utilizzabile a credito. Solo alla cessazione del
rapporto residua un debito nei confronti della
banca, che deve essere onorato. Nel corso del
rapporto possono essere addebitati interessi al
correntista, ma tali addebiti non implicano un
pagamento immediato nei confronti della banca: non
vi è alcuno spostamento patrimoniale che configuri
un pagamento in senso tecnico. Solo alla fine del
rapporto il cliente dovrà restituire tutta la somma
per la quale è a debito, compresi gli interessi nel
frattempo maturati.
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La motivazione
Con atto di citazione notificato in data 5.2.2008 …
– premesso di essere titolare di un conto corrente
bancario con facoltà di scoperto aperto dapprima
presso … e, successivamente, in esito alla
incorporazione della predetta banca con quella
adita, presso … - conveniva in giudizio
quest’ultima, chiedendo dichiararsi la nullità della
clausola di capitalizzazione trimestrale di
interessi, competenze e spese apposta al contratto
e, per l’effetto, la restituzione delle somme
indebitamente percepite dalla convenuta nel periodo
dal 1.1.1980 al 30.6.2000.
Con comparsa di costituzione e risposta del
29.4.2008, si costituiva in giudizio la banca
convenuta la quale si opponeva alle domanda
formulate ex adverso evidenziando in via preliminare
il proprio difetto di legittimazione passiva per il
periodo antecedente al 6.9.1997, data della cessione
delle poste attive e passive facenti capo alla …,
atteso che in relazione alle passività opera il
limite di quelle indicate nell’atto di cessione e
comunque risultanti dallo stato passivo della banca
cedente.
L’istituto bancario eccepiva sempre in via
preliminare la decadenza dell’azione per mancata
impugnazione degli estratti conto e comunque la
prescrizione dei crediti azionati.
Nel merito, … rilevava l’infondatezza dell’azione di
controparte stante la legittimità, per il periodo
anteriore alla delibera CICR del 9.2.2000, delle
clausole di capitalizzazione trimestrale in quanto
rispondenti a un uso normativo, chiedendo ad ogni
modo e in via subordinata, in caso di declaratoria
di nullità della clausola de qua, che fosse
applicata ai fini del ricalcolo la capitalizzazione
semestrale degli interessi debitori.
Omissis
Ciò detto, risulta invece fondata la doglianza di
parte attrice in ordine all’illegittimità della
capitalizzazione trimestrale degli interessi
passivi, pure pacificamente applicata nell’ambito
del rapporto per cui è causa e riscontrata dal
c.t.u.
Preliminarmente, giova sottolineare che parte
convenuta non ha mai contestato l’avvenuto
inserimento nel contratto per cui è causa di
clausole di capitalizzazione trimestrale degli
interessi passivi e delle competenze (cfr. ord. del
23.10.2008) limitandosi ad affermarne la validità in
quanto, a suo dire, rispondenti a un uso normativo
e, in ogni caso (per ciò che attiene alla c.m.s.),
oggetto di espressa pattuizione.
In relazione alla validità delle clausole di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi
il Tribunale osserva quanto segue.
L’art. 120 t.u.b., come modificato dall’art. 25
d.lgs. 342/1999, ha attribuito al CICR il potere di
stabilire le modalità e i criteri per la produzione
di interessi sugli interessi maturati nelle
operazioni poste in essere nell’esercizio
dell’attività bancaria. Con l’emanazione della
relativa deliberazione (in data 9.2.2000, pubblicata
nella G.U. 22.2.2000), deve oggi ritenersi certa la
legittimità della capitalizzazione degli interessi
pattuite mediante apposite clausole contenute nei
contratti bancari.
La disciplina introdotta dal CICR vale per i
contratti bancari stipulati dopo la data di entrata
in vigore della relativa delibera e per quelli
stipulati prima a decorrere dal 1.7.2000. L’art. 7
della delibera CICR stabilisce infatti che le
condizioni pattuite devono essere adeguate alle
disposizioni contenute nella delibera entro il
30.6.2000.
Resta il problema della sorte dei contratti
stipulati prima della delibera CICR – problema che
rileva nel caso di specie, ove oggetto del
contendere è un contratto chiuso nell’ottobre 2004 –
e che va risolto alla luce del principio affermato
dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la
sentenza 4.11.2004, n. 21095, secondo la quale:
- deve escludersi l’esistenza di un uso normativo
idoneo a derogare al precetto dettato dall’art. 1283
c.c.;
- è dunque nulla, anche se oggetto di espressa
pattuizione, la clausola di capitalizzazione
trimestrale degli interessi passivi, con conseguente
diritto per il cliente di ripetere i pagamenti già
effettuati (ove vi siano stati), ovvero di rifiutare
legittimamente la prestazione degli interessi che,
in virtù della previsione contrattuale contraria
all’art. 1283 c.c., sarebbero ancora dovuti e
risultino computati dalla banca.
Per le stesse ragioni deve essere dichiarata la
nullità della clausole di capitalizzazione
trimestrale sulla commissione di massimo scoperto.
Accertata e dichiarata la nullità della clausola di
capitalizzazione trimestrale degli interessi
passivi, questi ultimi – alla luce di quanto
affermato da un’ulteriore recente pronuncia delle
Sezioni Unite della Suprema Corte – dovrebbero
essere calcolati (sempre per il periodo antecedente
al 30.6.2000) senza alcuna capitalizzazione.
Tuttavia tale principio va raccordato con quello
della domanda ex art. 112 c.p.c.; sicché, avendo
l’odierno attore esplicitamente richiesto di
applicare, ai fini del ricalcolo delle somme dovute,
la capitalizzazione annuale degli interessi passivi,
questo giudice non può escludere ogni forma di
capitalizzazione, altrimenti configurandosi un vizio
di ultrapetizione.
E infatti, parte attrice ha formulato la richiesta
finalizzata ad escludere ogni forma di
capitalizzazione solo all’udienza di precisazione
delle conclusioni e, dunque, tardivamente.
Va dunque dichiarata la nullità delle clausole di
capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi
e delle competenze dedotte nel contratto di conto
corrente, con conseguente condanna della banca alla
restituzione di quanto indebitamente percepito.
In ultimo, deve essere rigettata, perché infondata,
l’eccezione di prescrizione decennale formulata
dalla banca.
In proposito, va rilevato che il rapporto di conto
corrente per cui è causa, stando a quanto allegato e
non contestato, risulta cessato alla data
dell’ottobre del 2004; ebbene, da tale momento deve
essere fatto decorrere il termine decennale
dell’azione di ripetizione dell’indebito.
Osserva, infatti, questo Tribunale che la Suprema
Corte, con la pronunzia a Sezioni Unite n.
2.12.2010, n. 24418, ha affermato e spiegato che:
- “l’unitarietà del rapporto contrattuale ed il
fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per
il futuro non impedisce di qualificare indebito
ciascun pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla
nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin
dal momento in cui il pagamento abbia avuto luogo ed
è sempre da quel momento che sorge il diritto del
solvens alla ripetizione e che la relativa
prescrizione inizia a decorrere”;
- “il pagamento, per dar vita ad una eventuale
pretesa restitutoria di chi assume di averlo
indebitamente effettuato, deve essersi tradotto in
uno spostamento patrimoniale in favore dell’accipiens
e lo si può definire indebito quando difetti di una
idonea causa giustificativa”;
- “l’annotazione in conto di ogni singola posta di
interessi illegittimamente addebitati dalla banca al
correntista comporta un incremento del debito o una
riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma
in nessun modo si risolve in un pagamento perché non
vi corrisponde alcuna attività solutoria in favore
della banca”;
- “occorre dunque avere riguardo alla natura e al
funzionamento del contratto di apertura di credito
bancario che in conto corrente è regolata”.
Ne consegue che se dopo la conclusione di un
contratto di apertura di credito bancario regolato
in conto corrente, il correntista agisca per far
dichiarare la nullità delle clausole anatocistiche e
per la ripetizione di quanto indebitamente pagato,
il termine di prescrizione decennale dell’azione di
ripetizione decorre, qualora i versamenti eseguiti
dal correntista in pendenza del rapporto abbiano
avuto solo funzione ripristinatoria della provvista,
dalla data in cui è estinto il saldo di chiusura del
conto in cui gli interessi non dovuti sono stati
registrati.
Solo da tale momento, invero, sussiste un pagamento
indebito e dunque sorge il diritto a ripetere le
somme versate con riferimento a tutto il periodo
contrattuale (non quindi dieci anni a ritroso dalla
chiusura del conto).
Orbene, non avendo la banca neppure allegato che vi
sia stato un versamento avente natura solutoria,
deve ritenersi che la stessa non abbia adempiuto
all’onere della prova da cui era gravata ex art.
2967, 2° co., c.c.
Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni,
il diritto alla ripetizione delle somme
indebitamente trattenute dalla banca nel periodo
corrente dal 1.1.1980 (data individuata da parte
attrice) al 30.6.2000 non è certamente prescritto,
posto che l’odierna azione è stata introdotta nel
2008, appena quattro anni dopo la chiusura del
conto, avvenuta come detto nell’ottobre del 2004.
Né su tale condivisibile impostazione incide, a
parere di questo giudice, il tenore dell’art. 2, 61°
co., d.l. n. 225/2010 (c.d. decreto mille proroghe)
che, nel dettare una norma che si autodefinisce
interpretativa dell’art. 2935 c.c., fa riferimento
esclusivo “ai diritti nascenti dall’annotazione in
conto”, non già a quelli nascenti dal pagamento
indebito di somme che invece – stando agli argomenti
sopra riportati – costituisce il fatto generatore
del diritto di ripetere le somme medesime.
Omissis
Alla luce di tali risultati, la banca convenuta
dovrà corrispondere agli attori la somma complessiva
di € 53.114,46, oltre interessi legali dal
12.11.2007, data di ricezione da parte della banca
della lettera di messa in mora.
Omissis.