Il 30 luglio
scorso è entrato in vigore il D. Lgs. n. 170/2004 (di seguito
Decreto), con il quale il nostro Legislatore ha recepito la
Direttiva 2002/47/CE (di seguito Direttiva) in materia di contratti
di garanzia finanziaria.
La normativa in
commento è fortemente innovativa, e fornisce al nostro ordinamento
la possibilità di confrontarsi e di esser paragonato, in termini di
competitività, agli ordinamenti di matrice anglosassone, da sempre
considerati più evoluti e più “snelli”, soprattutto in tema dei c.d.
collateral.
Lo ratio della
stessa Direttiva consiste, tra l’altro, nel liberalizzare le
tipologie contrattuali, al fine di ridurre la segmentazione dei
mercati finanziari e di spingere i vari mercati verso un pari
livello di concorrenzialità.
Al fine di
misurare la portata innovativa delle norme in commento, basti
pensare che, prima dell’entrata in vigore del Decreto, era pacifico
che i contratti di garanzia reale costituissero, nell’ordinamento
italiano, un numerus clausus, per cui risultava difficile
all’operatore italiano collateralizzare un’operazione (i.e.
garantire le obbligazioni assunte nell’operazione) servendosi di
contratti atipici che, nella prassi societaria estera, si
affermavano con funzione di garanzia.
La Direttiva si
inserisce in un quadro di riferimento normativo europeo in fase di
consolidamento, (vedi direttiva 98/26/CE, 2001/24/CE, reg. 1346/2000
del Consiglio)
che ha come obiettivo ultimo la garanzia della
libera circolazione di servizi e capitali, perseguita mediante “la
riduzione dei rischi sistemici insiti nei sistemi di pagamento e di
regolamento titoli, la definitività del regolamento” e, da ultimo,
attraverso “l’esigibilità della garanzia in titoli” (nono
considerando Direttiva 98/26/CE).
Nel primo considerando della Direttiva, si
afferma che l’attuazione della direttiva 98/26/CE ha dimostrato la
necessità di una regolamentazione comune riguardante le garanzie
costituite nell'ambito di tali sistemi di regolamento e pagamento.
Infine, occorre menzionare il decimo
considerando della proposta di Direttiva, laddove viene enunciato
un’altra finalità a carattere generale, ovvero tutelare “le sane
pratiche di gestione del rischio utilizzate comunemente nei mercati
finanziari”.
Il Decreto in commento va analizzato tenendo
presente tale contesto giuridico di riferimento, e considerando che
sempre più le pratiche e le esigenze del mercato finanziario
influiscono sulla legislazione, sia comunitaria che nazionale.
Definizioni
ed ambito di applicazione.
Seguendo una
prassi ormai consolidata nella nostra legislazione (le cui
scaturigini anglosassoni sono evidenti), il Decreto si apre con una
serie di definizioni, dalle quali è possibile enucleare con un certo
grado di certezza l’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione
dello stesso, nonché chiarire il significato di alcuni termini ed
espressioni (come la “clausola di close-out netting”).
La definizione
centrale è quella di “contratto di garanzia finanziaria”, dalla
quale è possibile enucleare ad un tempo l’ambito oggettivo e quello
soggettivo di applicazione della nuova disciplina; con tale
espressione, precisa l’art. 1 lett. d), si intende “il contratto di
pegno o il contratto di cessione del credito o di trasferimento
della proprietà di attività finanziarie con funzione di garanzia,
ivi compreso il contratto di pronti contro termine, e qualsiasi
altro contratto di garanzia reale avente ad oggetto attività
finanziarie [omissis]”.
In questa
definizione si ritrova la prima novità: prevedendo che la disciplina
si applica a “qualsiasi altro contratto di garanzia finanziaria”, il
Decreto ha aperto il nostro ordinamento ai contratti di garanzia
reale “atipici”, mentre in passato questi costituivano un numerus
clausus. Tale previsione consente, inoltre, di recepire nel nostro
ordinamento le tipologie di collateral che si affermeranno nella
futura prassi finanziaria, ponendoci, come detto, in regime di
concorrenzialità nei confronti dei mercati degli ordinamenti in cui
vige la common law.
Circostanza di
notevole rilevanza è che nella definizione di contratto di garanzia
finanziaria rientrano sia fattispecie contrattuali con costituzione
di garanzia reale (e.g. pegno), sia fattispecie contrattuali che
prevedono il trasferimento della proprietà a scopo di garanzia, in
cui il datore di garanzia trasferisce la proprietà della res al
beneficiario della stessa, onde assicurare l’adempimento delle
obbligazioni garantite.
L’art. 6, in linea
con suddetta definizione, riconosce validità ed efficacia a
qualsiasi contratto di garanzia finanziaria che preveda il
trasferimento della proprietà a scopo di garanzia. In precedenza si
nutrivano molti dubbi circa la validità di tali contratti; infatti,
il legislatore ha avvertito il bisogno di sancire espressamente la
validità di determinate fattispecie, come nel caso del pegno
irregolare (laddove la datio dell’oggetto, potendosi il denaro
considerare determinato solo nel genere e quantità, comportava il
trasferimento della proprietà); oltretutto, un ostacolo alla loro
liberalizzazione proveniva dall’art. 2744 c.c., recante il divieto
di patto commissorio (vale a dire la nullità del patto col quale si
stabilisce che, in caso di inadempienza, la proprietà della cosa
pignorata od ipotecata passi al creditore). A tal fine, il secondo
comma dell’art. 6 del Decreto stabilisce che ai contratti di
garanzia finanziaria che prevedono il trasferimento della proprietà
a scopo di garanzia non si applica l’art. 2744 c.c.
Proseguendo nella
delimitazione dell’ambito oggettivo di applicazione, i contratti in
questione devono avere ad oggetto attività finanziarie (ovvero
contante e strumenti finanziari), e devono garantire l’adempimento
di obbligazioni finanziarie (vale a dire le obbligazioni al
pagamento di somme di denaro ovvero alla consegna di strumenti
finanziari). Per strumenti finanziari, ci si riferisce a quelli
elencati all’art. 1, comma 2, lettere da a) ad e) del TUF, o ai
diversi strumenti individuati con Decreto del Ministro dell’economia
e delle finanze, su proposta di Banca d’Italia e della Consob.
Ancora una volta, una disposizione che permetterà di coordinare ed
adeguare il nostro ordinamento alla futura prassi finanziaria,
permettendo, mediante normazione secondaria, l’inclusione di nuovi
strumenti finanziari nel novero delle attività che potranno fungere
da collateral. E’ da notare come tale ampiezza non sia prescritta
dalla Direttiva, la quale ha lasciato agli Stati membri la facoltà
di escludere dall’applicazione della stessa alcuni titoli, come le
azioni proprie dei datori di garanzia. Il legislatore italiano non
si è avvalso di tale clausola di out-put, con ciò rivelando, per i
contratti in questione, il superamento della ratio che sottintendeva
il divieto di patto commissorio: evitare che il creditore abbia la
possibilità di coartare moralmente il debitore, il quale è
consapevole che, in caso di inadempimento, l’oggetto della garanzia
è già in proprietà del creditore. Non solo, dunque, sarà possibile
trasferire la proprietà di propri strumenti finanziari a scopo di
garanzia, ma sarà possibile trasferire la proprietà di azioni
proprie, rappresentative del proprio capitale sociale, con ciò
esponendosi ancor più ad una eventuale pressione morale.
Detto ciò, è
opportuno da subito delimitare anche il campo soggettivo di
applicazione del Decreto; quest’ultimo non si applica, infatti, ai
contratti in cui una delle parti sia una persona fisica, e tale
circostanza sminuisce, anche se non destituisce di fondamento, le
considerazioni sopra esposte circa le “pressioni” sul debitore.
Affinché si applichi il Decreto, sia il datore di garanzia che il
beneficiario devono essere:
a) Autorità
pubbliche;
b) Banche centrali,
BCE, FMI, etc. (cfr. art. 1, lett. d, n. 2 del Decreto);
c) enti finanziari
sottoposti a vigilanza prudenziale (banche, imprese di
assicurazione, O.I.C.V.M.)
d) controparti
centrali, agenti di regolamento e stanze di compensazione.
Una delle parti
del contratto può essere anche una società (e più in generale una
persona diversa dalle persone giuridiche, secondo la terminologia
del Decreto), purché la controparte sia uno dei soggetti sopra
elencati alle lett. da a) ad d).
A tal proposito, in un
documento di risposta ad un questionario presentatole, la ISDA
ha affermato che i suoi membri raccomandano caldamente un’estensione
dei benefici della Direttiva anche ai contratti in cui entrambe le
parti sono società, ma nessuna di esse rappresenta un’istituzione
finanziaria (i.e. i soggetti sopra numerati).
Requisiti della
garanzia
L’art. 3 del
Decreto è una norma fondamentale nell’impianto della nuova
disciplina, svelandone sia il carattere di norma speciale che, in
quanto tale, deroga a tutte le altre leggi generali che regolino la
stessa materia, sia la ratio di semplificazione delle formalità
perseguita dalla Direttiva e compiutamente recepita dal Decreto.
Esso statuisce che “l’attribuzione dei diritti [omissis] al
beneficiario della garanzia e la loro opponibilità ai terzi non
richiedono requisiti ulteriori rispetto a quelli indicati
nell’articolo 2, anche se previsti da vigenti disposizioni di
leggi”. Questa norma consentirà, ad esempio, di non tener conto
delle norme codicistiche in tema di formalità da espletare al fine
di ottenere la data certa.
I
requisiti previsti dall’art. 2 sono semplicemente:
(i) la forma
scritta ad probationem del contratto;
(ii) la garanzia
finanziaria deve esser stata prestata e tale prestazione deve esser
provata per iscritto, nonché deve consentire l’individuazione della
data di costituzione e delle attività finanziarie costituite in
garanzia.
Il Decreto
chiarisce, eliminando in nuce eventuali dubbi interpretativi, che
nel concetto di forma scritta rientrano anche la forma elettronica e
qualsiasi altro supporto durevole, secondo la normativa vigente in
materia. Questa norma può dare ulteriore sviluppo alla diffusione
delle forme scritte “alternative”, e richiama implicitamente alla
normativa in materia di firma digitale. In ogni caso, contribuisce
alla competitività del nostro ordinamento, e fa un ulteriore passo
verso la semplificazione delle formalità nonché verso il progressivo
superamento della vecchia, cara firma a mano. La disposizione è
lodevole, soprattutto considerando che la prassi societaria, sempre
più, si affida alla contrattazione elettronica a distanza, con
scambio di e-mails contenenti le bozze dei contratti; la possibilità
di considerare in forma scritta un documento elettronico scambiato
tra le controparti e firmato digitalmente può ridurre i costi del
deal, se solo si pensi al fatto che non sarà necessario, dopo mesi
di contrattazioni “elettroniche”, riunire le parti fisicamente per
la firma materiale del contratto. Aggiungerei sottovoce che si
potrebbe risparmiare anche molto tempo, evitando la noiosa prassi di
firmare ogni pagina del contratto (su contratti con centinaia di
pagine tale fattore non è da sottovalutare).
Per quanto riguarda
l’individuazione di data e attività finanziarie costituite in
garanzia, il Decreto specifica che sarà sufficiente, nel caso in cui
l’oggetto della garanzia sia costituito da strumenti finanziari, la
loro registrazione sui conti degli intermediari (ex art. 30 ss. D.
Lgs. 213/1998);
nel caso in cui, invece, sia il contante l’oggetto della garanzia,
sarà sufficiente l’annotazione del contante su un conto designato
dalle parti.
Escussione
del pegno
L’art. 4 del
Decreto delinea le modalità di escussione a disposizione del
creditore, azionabili laddove si verifichi un evento determinante,
ex lege o ex contractu, l’escussione stessa. Una prima disposizione
di notevole rilevanza è la facoltà, che il primo comma attribuisce
al creditore, di attuare l’escussione anche in caso di apertura di
procedure di risanamento o liquidazione. In tal caso, secondo il
comma 2, sarà sufficiente informare gli organi della procedura in
merito alle modalità attuate e all’importo ricavato. Per informare
gli organi del prezzo ricavato, ovviamente, la comunicazione va
fatta dopo l’escussione, quindi non sembrano esservi oneri
informativi preventivi; in altre parole, non sembra che il creditore
sia neppure tenuto ad avvertire un eventuale curatore fallimentare
circa la sua intenzione di procedere ad escussione.
Tale norma è in
perfetto accordo con le indicazioni della Direttiva, laddove si
afferma, all’art. 4, par. 4, che è esclusa la possibilità per gli
Stati membri (i) di sottoporre ad approvazione da parte di
tribunali, pubblici ufficiali etc. le condizioni del realizzo,
ovvero (ii) di obbligare il creditore ad una preventiva
comunicazione, ovvero (iii) di imporre che il realizzo avvenga per
asta pubblica o in altra forma prescritta, ed infine (iv) di imporre
al creditore l’attesa di un certo lasso di tempo (diversamente da
quanto stabilisce, dunque, l’art. 2797 c.c. in materia di vendita
della res data in pegno, che impone un lasso di tempo di 15 giorni
prima di poter procedere).
Le modalità di
escussione del pegno previste sono le seguenti:
1) vendita delle
attività finanziarie oggetto di pegno;
2) appropriazione
delle attività finanziarie, diverse dal contante;
3) utilizzo del
contante oggetto di garanzia per estinguere l’obbligazione
finanziaria garantita.
La modalità di cui
al n. 2 pone delicati problemi, in quanto potrebbe esporre il
debitore all’arbitraria valutazione delle attività oggetto di
garanzia operata dal creditore. Si supponga il caso di un creditore
che ha ricevuto azioni in pegno a garanzia di un debito di € 80,
mentre il valore delle azioni era di € 100 al momento della
consegna. Si supponga, ancora, che il valore delle azioni si è
duplicato nei successivi mesi. In caso di default del debitore, il
creditore potrebbe in teoria appropriarsi delle azioni e dichiarare
compensato il proprio credito, sostenendo che il valore delle azioni
è appena sufficiente a coprire interessi e capitale.
Per diminuire tali
rischi, il Decreto prevede anzitutto che tale modalità di escussione
è esperibile solo nel caso in cui sia prevista dal contratto, e solo
laddove lo stesso preveda i criteri secondo cui vanno valutati gli
strumenti finanziari dati in pegno. Inoltre, il successivo art. 8
introduce un criterio di ragionevolezza commerciale cui deve
uniformarsi, in generale, la realizzazione della garanzia. Da notare
la scelta “forte” del legislatore italiano nell’introdurre tale
disposizione, laddove avrebbe potuto avvalersi della clausola di
out-put che consentiva agli Stati membri che non prevedevano già la
modalità dell’appropriazione, di non recepirla.
Poteri di
disposizione del creditore
L’art. 5 del
Decreto statuisce che può essere pattiziamente attribuita al
creditore la facoltà di disporre delle attività finanziarie oggetto
del pegno, facoltà che può essere esercitata “anche mediante
alienazione”. La norma amplia i poteri di disposizione sull’oggetto
del pegno già attribuibili con espressa previsione contrattuale, a
norma dell’art. 2792 c.c.; infatti, il potere di vendita della res
nel codice civile è previsto solo in determinati casi (inadempimento
della controparte, pericolo di deterioramento) e secondo le modalità
stabilite dal codice stesso (cfr. artt. 2795 e 2797 c.c.), ma non
quale facoltà attribuibile pattiziamente ed esercibile anche a
prescindere dall’inadempimento o dal periculum di perdita della
garanzia.
Una volta
completata la vendita, incombe sul creditore l’obbligo di costituire
in garanzia il ricavato della vendita o del diverso atto di
disposizione, sostituendo dunque la garanzia originaria con una
equivalente; il termine entro cui va adempiuto l’obbligo è la data
di scadenza dell’obbligazione garantita. Onde garantire la
“certezza” dei traffici giuridici, il Decreto prevede che la
ricostituzione della garanzia equivalente “non comporta costituzione
di una nuova garanzia e si considera effettuata alla data di
prestazione della garanzia originaria”. Dunque, il creditore
conserva la priorità del suo privilegio sul nuovo oggetto del pegno,
anche nel caso di creditori il cui credito sia sorto dopo la
costituzione originaria ma prima della sostituzione.
L’obbligo di
ricostituzione della garanzia, con esclusione dell’effetto novativo,
opera anche in relazione ai contratti che prevedano il trasferimento
della proprietà a scopo di garanzia, a norma dell’art. 6, comma 3
del Decreto.
Clausola di
close-out netting
La clausola in
questione, secondo la definizione datane dal Decreto, consiste in
una previsione, contenuta nel contratto o prevista dalla legge, in
base alla quale, in caso di evento determinante l’escussione:
a) il debitore
decade dal beneficio del termine, ovvero le obbligazioni diventano
immediatamente esigibili e vengono convertite nell’obbligazione di
versare un importo pari al loro valore corrente, oppure esse sono
estinte e sostituite dall’obbligazione di versare tale importo;
ovvero
b) viene calcolato il
debito di ciascuna parte nei confronti dell’altra con riguardo alle
singole obbligazioni e viene determinata la somma netta globale
risultante dal saldo e dovuta dalla parte il cui debito è più
elevato, ad estinzione dei reciproci rapporti.
L’art. 7 del
Decreto stabilisce che tale tipologia di clausola è valida anche in
caso di apertura di una procedura di fallimento o risanamento o
liquidazione nei confronti di una delle parti.
Da una lettura
congiunta della definizione e dell’art. 7, si evince che il
legislatore ha qui voluto eliminare i dubbi interpretativi,
alimentati dagli stessi Stati membri, circa la validità del c.d.
netting in presenza di una procedura fallimentare o similare, ed in
particolar modo sottrarre alle revocatorie fallimentari la
compensazione eventualmente operata tra i reciproci debiti/crediti
del fallendo imprenditore e del creditore garantito. Tale
orientamento appare in linea sia con la Direttiva, che impone agli
Stati membri di riconoscere validità alla pratica del close-out
netting anche in presenza di procedure di tipo fallimentare. La
Banca Centrale Europea, nel suo parere del 12 luglio 2001 di
commento alla proposta di direttiva, è giunta ad auspicare il
riconoscimento anche ad altre pratiche di gestione del rischio, al
di fuori della clausola di close-out.
L’inserimento
dell’art. 7 si è reso necessario, o quantomeno altamente
consigliabile, dal momento che il Decreto ha introdotto a pieno
titolo nel nostro ordinamento qualsiasi contratto di garanzia con
trasferimento di proprietà; ed infatti, proprio in relazione a tale
tipologia di collateral si verificano i maggior casi di operatività
della compensazione per close-out.
Ragionevolezza commerciale
L’art. 4, par. 6
della Direttiva stabilisce che gli artt. 4 (escussione), 5 (diritto
di utilizzazione), 6 (riconoscimento contratti con trasferimento del
titolo) e 7 (riconoscimento close-out) non pregiudicano “gli
obblighi [omissis] che il realizzo o la valutazione della garanzia
finanziaria e il calcolo delle obbligazioni finanziarie garantite
abbiano luogo in condizioni ragionevoli sotto il profilo
commerciale”.
L’art. 8 del
Decreto ha recepito tale norma, stabilendo un criterio di
ragionevolezza “commerciale” cui devono conformarsi sia le
condizioni di realizzo che i criteri di valutazione delle attività
finanziarie (nel caso di vendita e/o appropriazione delle stesse da
parte del creditore). Al secondo periodo del primo comma
dell’articolo in commento, è inserita una presunzione iuris tantum
di ragionevolezza per quelle clausole afferenti le condizioni di
realizzo e i criteri di valutazione che siano conformi agli schemi
contrattuali individuati da Banca d’Italia, d’intesa con la Consob,
individuazione da effettuarsi “nell’ambito della prassi
internazionale”.
Il riferimento
alla prassi internazionale, dimostra ancora una volta come il
legislatore abbia voluto creare un disposto normativo agile ed in
grado di uniformarsi, in tempi ragionevoli, alle esigenze emergenti
degli operatori economici, e come in definitiva nel tessuto
normativo possano influire, seppur in modo indiretto, la concreta
operatività dei mercati.
L’art. 8 del
Decreto introduce, dunque, un nuovo concetto, di “ragionevolezza
commerciale”, che rappresenta uno strumento indirizzato al
bilanciamento del sistema (altrimenti sbilanciato a favore del
creditore); a tale finalità avrebbero già potuto rispondere le
molteplici norme, codicistiche o fallimentari, che consentono
valutazioni analoghe. Si pensi alle norme in tema di arricchimento
senza giusta causa, al principio di correttezza e buona fede, alla
diligenza professionale codificata nell’art. 1176 comma 2 c.c., alle
revocatorie di atti “sproporzionati”, ecc.
La giurisprudenza, col tempo, saprà riempire di contenuti oggettivi,
nonché fissare parametri di riferimento, per una previsione che
sembra introdurre, più che una specifica norma, un criterio
generale. Ad ogni modo si trattava di una previsione utile, in
quanto le nuove modalità di escussione, nonché la possibilità di
disporre dell’oggetto della garanzia anche mediante alienazione,
rendono in qualche modo indispensabile un controllo, seppur a
posteriori, circa l’operato del creditore, controllo che in ultima
analisi è lasciato al giudice quando, in sede di contenzioso, dovrà
valutare detta ragionevolezza. Il contenimento del rischio di
credito, finalità cui rispondono le facoltà attribuite al creditore,
infatti, non può attuarsi a tutto discapito degli interessi
economico-giuridici del debitore.
Infine, si consideri che un potere incontrollato del creditore che
abbia concluso un contratto di garanzia finanziaria col proprio
debitore, comporterebbe una violazione dei diritti degli altri
creditori. Se il creditore che dispone di una garanzia reale potesse
servirsi di tale privilegio per depauperare il patrimonio del
debitore oltre quanto sia necessario all’estinzione del debito, egli
deluderebbe le aspettative degli altri creditori. Ad es., se Tizio
concede un pegno su azioni del valore di 1000 € a Caio, a garanzia
di un debito di 300€, ben potrebbe Sempronio, altro creditore di
Tizio, sentirsi garantito dal residuo valore di 700€. Infatti, il
debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i
suoi beni, presenti o futuri. Sempronio, in altre parole, a ragione
dovrebbe sentirsi garantito dal futuro denaro che entrerà nel
patrimonio di Tizio, una volta che Caio abbia venduto le azioni per
soddisfare il proprio credito di 300€.
Le condizioni di
procedibilità dell’azione per violazione della ragionevolezza,
tuttavia, sono restrittive, in un’ottica di certezza del diritto. Il
legislatore pone, innanzitutto, una presunzione assoluta di
ragionevolezza nel caso in cui le condizioni di realizzo siano state
previamente concordate tra le parti. E’ utile precisare che la
presunzione opera solo ai fini dell’esperibilità dell’azione di
irragionevolezza prevista dal Decreto, ma non sembra escludere che
si possa aliunde, ovvero mediante altro procedimento
giurisdizionale, contestare detta ragionevolezza, ad es. impugnando
lo stesso contratto di garanzia per vizi della volontà circa le
condizioni di realizzo.
Altra condizione
di procedibilità consiste nel termine di decadenza di 3 mesi dalla
data in cui il creditore ha eseguito la comunicazione circa le
modalità di escussione adottate e l’importo ricavato. Questa seconda
condizione lascia intendere che l’azione non è esercitatile nel caso
in cui il creditore abbia alienato l’oggetto della garanzia
esercitando il suo potere di disposizione, e non già procedendo ad
una escussione; infatti, la comunicazione, dalla cui data decorre il
termine per proporre azione di irragionevolezza, è presente nei casi
di escussione del pegno mediante alienazione, non già di utilizzo
della garanzia.
La mancata
estensione dell’azione in commento ai casi di utilizzo dell’oggetto
della garanzia si giustifica alla luce dell’obbligo di ricostituire
la “garanzia equivalente” in caso di utilizzazione mediante
alienazione da parte del creditore; per garanzia equivalente,
infatti, il legislatore ha chiarito che deve trattarsi, (i) di un
ammontare di pari importo e valuta, nel caso sia il contante
l’oggetto di garanzia, ovvero (ii) di strumenti finanziari del
medesimo emittente, emissione o classe e con stesso importo nominale
e valuta, nel caso in cui oggetto della garanzia siano strumenti
finanziari. In altre parole, l’azione di irragionevolezza non è
estesa ai casi di alienazione in esercizio del potere di
utilizzazione del creditore, perché quest’ultimo non ha margine di
discrezionalità per effettuare un’alienazione irragionevole, dovendo
in ogni caso ricostituire una garanzia “equivalente” a quella
originaria.
L’azione è
esperibile anche dagli organi della procedura fallimentare, entro 6
mesi dall’apertura della procedura, per contestare la ragionevolezza
della determinazione tra le parti delle condizioni di realizzo delle
attività finanziarie, dei criteri di valutazione delle stesse e
delle obbligazioni finanziarie garantite. Qui il legislatore ha
posto un’ulteriore condizione, che la suddetta determinazione sia
avvenuta entro l’anno che precede l’apertura della procedura
fallimentare.
Disposizioni finali – legge applicabile
L’art. 9 del
Decreto stabilisce che i contratti di garanzia finanziaria e la
garanzia prestata (anche in esecuzione di una clausola di
integrazione o sostituzione), non possono esser dichiarati
inefficaci verso i creditori per il solo fatto di essere stati
stipulati o prestati il giorno di apertura di una procedura di
liquidazione o di provvedimenti di risanamento, o anche dopo tale
momento, purchè in quest’ultimo caso il creditore possa dimostrare
che non poteva essere a conoscenza di tale apertura.
Il legislatore,
quindi, pone ulteriori elementi di “stabilità” della garanzia,
stabilendo che l’apertura di procedure di insolvenza non comporta,
automaticamente, la caducazione di tutti i contratti di garanzia
finanziaria intervenuti poco prima o dopo l’apertura della
procedura, come di norma avviene in applicazione degli artt. 42-44
L.Fal., che la giurisprudenza ha sempre affermato doversi applicare
tenendo conto della regola c.d. “dell’ora zero”. In altre parole,
anche se la sentenza dichiarativa di fallimento interviene, ad es.,
alle ore 20.00 del 12/10/2004, gli effetti di tale sentenza vengono
retrodatati come se essa fosse stata emanata all’ora “0” di tale
giorno, tal che un atto di disposizione del patrimonio
dell’imprenditore decotto intervenuto alle ore 16.00 del medesimo
giorno viene automaticamente caducato dalla suddetta sentenza,
dovendosi considerare posteriore alla dichiarazione di fallimento e,
in applicazione degli artt. 42-44 L. Fal., nullo.
Dunque in teoria
il Decreto stabilisce che un contratto di garanzia finanziaria
stipulato dopo la dichiarazione di fallimento può esser dichiarato
inefficace solo laddove vi sia la scientia decotionis del creditore.
Nella pratica, tuttavia, vi è fondato motivo di ritenere che la
giurisprudenza si conformi a quegli orientamenti che, in tema di
revocatorie ex art. 67 L. Fal., ritiene la revoca “automatica”
essendo sufficiente che la stipula del contratto ricada in un
periodo “sospetto”, con ciò rendendo di fatto impossibile ad un
creditore appellarsi all’art. 9 del Decreto, nonostante la sua buona
fede.
Altra disposizione
di rilievo è contenuta nel secondo comma dell’art. in questione,
alla lett. b), laddove è stabilito che la prestazione di una
garanzia in conformità ad una clausola di sostituzione non comporta
costituzione di una nuova garanzia e si considera effettuata alla
data della prestazione della garanzia originaria. In tal modo la
garanzia “rotativa” è sempre considerata effettuata al momento della
prestazione di quella originaria, e successive sostituzioni si
considereranno effettuate al momento della prestazione originaria di
garanzia, di modo che bisogna aver riguardo a tale originario
momento per la verifica circa la sussistenza dei requisiti per una
revocatoria (in particolar modo per verificare se la datio ricada
nel “periodo sospetto”). Analoga disposizione è prevista per la
prestazione di garanzia in conformità ad una clausola di
integrazione. Queste due disposizioni rendono superfluo, nei
contratti ovviamente che ricadono nell’ambito di applicazione del
Decreto, la previsione contrattuale che di solito si rinviene nei
contratti che prevedono una integrazione o sostituzione, che nega
carattere novativo alle garanzie integrative o sostitutive
successivamente prestate in ossequio alle disposizioni contrattuali.
Rimane solo da
osservare come, avendo il Decreto fatto riferimento alla prestazione
di garanzia “in conformità ad una clausola di integrazione” (o di
sostituzione), l’art. 9, comma 2, lett. b) e c) trovi applicazione
solo laddove nel contratto sia prevista una tale possibilità di
integrare o sostituire la garanzia originaria. Sul punto non è
chiaro, tuttavia, cosa succede nel caso in cui la clausola di
integrazione o sostituzione sia stata inserita in un secondo
momento, e non ab origine. Secondo il tenore letterale della norma,
anche in questo secondo caso dovrebbe ritenersi che l’integrazione o
la sostituzione siano avvenute al momento della prestazione della
garanzia originaria (ovvero, laddove manchi una garanzia originaria,
nel momento di sottoscrizione del contratto); infatti, il Decreto
non richiede che le clausole di integrazione o sostituzione siano
presenti nel contratto originario. Tuttavia è lecito dubitare di una
tale interpretazione, onde evitare effetti distorsivi.
Un esempio può
forse chiarire le conseguenze di tale lettura: si ipotizzi che un
contratto di garanzia finanziaria sia stato stipulato in data
10/10/2003, senza alcuna clausola di sostituzione. Successivamente,
in data 10/10/2005 il debitore e il creditore modificano il
contratto originario, inserendovi una clausola integrativa, e in
esecuzione di tale clausola il creditore ottiene nuove garanzie.
Ancora, in data 11/10/2005 il debitore viene dichiarato fallito. A
questo punto, interpretando letteralmente l’art. 9 del Decreto, la
garanzia integrativa prestata il giorno prima del fallimento
dovrebbe considerarsi prestata il 10/10/2003, ovvero al momento
della prestazione della garanzia originaria, poiché ciò è avvenuto
in virtù della clausola di sostituzione, come richiesto dal Decreto.
La conseguenza sarebbe che tale garanzia aggiuntiva non ricadrebbe
nel “periodo sospetto”. Tutto ciò nonostante sia la clausola che la
relativa garanzia siano intervenute in un periodo altamente
sospetto. A tal punto la garanzia non è revocabile ex art. 67, comma
1, nn. 3 e 4 L. Fal., e non resterà che tentare la revocatoria
ordinaria per revocare la stessa clausola di integrazione.
La legge
applicabile, per espressa previsione contenuta nell’art. 10, è
quella dello Stato in cui è situato il libro contabile, il conto o
il sistema di gestione accentrata ovvero di deposito accentrato in
cui vengono effettuate le registrazioni o annotazioni direttamente a
favore del titolare del diritto. Sono esclusi i rinvii a leggi di
altri Stati, mentre eventuali patti in deroga sono nulli.
Conclusioni
Il Decreto in
commento rappresenta una disciplina fortemente influenzata dalla
prassi e dai settori economico-finanziari, che risponde quindi ad
esigenze di carattere pratico. La sua flessibilità, a tal proposito,
può rivelarsi un pregio in grado di evitare il consueto
affastellarsi di modifiche ed integrazioni che affligge sempre più
spesso la legislazione in tali materie, per loro natura sempre più
mutevoli in conseguenza del rapido evolversi dei mercati. Le nuove
facoltà attribuite al creditore rispondono ad un interesse generale
di certezza delle transazioni commerciali che abbiano ad oggetto
strumenti finanziari, e non dovrebbero creare eccessive
preoccupazioni stante la qualità soggettiva dei soggetti cui si
applica la nuova disciplina (sono assolutamente escluse, come visto,
le persone fisiche). La caducazione di tali contratti, e.g. per
revocatoria fallimentare o per annullamento giudiziale, comporta
delle conseguenze negative a catena che giustificano ampiamente il
ricorso ad alcune disposizioni “forti”, come la validità dei
contratti stipulati dopo l’apertura di una procedura di insolvenza
in caso di buona fede del creditore, la validità del close-out
netting , etc.
La tenuta delle
garanzie in questione dovrebbe ricevere grande supporto dalla nuova
disciplina, anche se al riguardo occorrerà attendere il responso
della giurisprudenza che, ovviamente, ancora non ha avuto modo di
esprimere un orientamento.