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Di Marco Solferini
6 giugno 2005
Il fenomeno dell’anatocismo bancario si qualifica come uno dei più importanti attualmente interessante dottrina e giurisprudenza, in parte per la vastità, in termini soggetti coinvolti e in altra misura, per il cambio repentino con il quale la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha segnato il trapasso con il precedente orientamento.
L’analisi della sentenza resa dal tribunale di Cassino il 29 ottobre 2004 è articolata in modo da richiamare alcuni dei temi più rilevanti circa il recente orientamento assunto dalla giurisprudenza contemporanea, certamente favorevole al cliente, nei riguardi della banca. Merita pertanto un analisi, succinta, con ripartizione delle singole considerazioni effettuate dai giudici, scaglionata per punti onde illustrare apertamente e con precisione la natura dell’attuale orientamento e le più recenti difese operate dalle banche per contrastare le richieste di risarcimento e/o di adeguamento dei debiti da parte della clientela.
1. In primo luogo il giudice nega che possa condividersi l’assunto tale per cui con la sottoscrizione del nuovo contratto di conto corrente bancario si produrrebbe una novazione del debito portato dal vecchio contratto al nuovo. L’effetto estintivo dell’obbligazione, che è proprio della novazione presuppone sempre che sia accertata la sussistenza dell’animus novandi, che deve costituire lo specifico intento negoziale comune ai contraenti e che dev’essere provato in concreto[1]. In aggiunta a ciò è dimostrata l’unitarietà del rapporto in questione e l’esigenza di considerarlo per l’intera sua durata, dal fatto che il saldo debitore del precedente contratto di conto corrente ha costituito la prima posta passiva del nuovo contratto ci conto corrente.
2. Il rinvio alle condizioni praticate usualmente dall’azienda di credito sulla piazza (art. 7 norme bancarie uniformi) non è sufficiente a soddisfare l’onere della forma scritta richiesto dall’art. 1284, comma 3° perché sfornito dei requisiti minimi di determinatezza o determinabilità dell’oggetto, essenziale per la validità del contratto. Il divieto di rinvii agli usi è inoltre stato espressamente sancito con effetto non retroattivo, dalla legge n. 154/92, pertanto il problema continua a porsi unicamente in sede giudiziale in conseguenza del protrarsi degli effetti delle pattuizioni intervenute in epoca antecedente all’entrata in vigore della normativa di cui si è detto. In un primo momento la Suprema Corte aveva accettato questa possibilità qualificando il rinvio praticato usualmente dalle aziende di credito alla piazza come “di per sé sufficiente ad ancorare il tasso di interesse a fatti oggettivi, certi e di agevole riscontro” (Cass. 2644/1989), successivamente la stessa Cassazione ha mutato indirizzo sostenendo che tale rinvio agli usi piazza può ritenersi valido ed univoco solo “se coordinato all’esistenza di vincolanti discipline fissate su larga scala nazionale con accordi interbancari, e non quando tali accordi contengono riferimenti a tipologie di interessi praticati su scala locale e non consentono, per la loro genericità, di stabilire a quale previsione le parti abbiano inteso fare concreto riferimento” (Cass. 1287/2002).
In questi primi due passaggi la sentenza ha evidenziato fattispecie oggettivamente certe e attualmente consolidatesi nella prassi più abituale del diritto bancario, vivente negli atti di citazione e successive memorie. La prova empirica portata dalla CTU, affronta con tecnicismo e priva di scetticismo la questione delle poste attive e passive lasciando del tutto inconcludente l’ipotesi che si verifichi una novazione del credito pertanto, anche nell’ipotesi in cui il cliente abbia stipulato altri contratti successivi a quello interessato o sullo stesso basato, questo nulla rileva, non potendo ciò “incastrare” la legittima pretesa risarcitoria, facilmente comprovabile da una CTU, strumento questo che, vedremo nel proseguo, ha un carattere preminente nel quantum del risarcimento spettante al cliente in rapporto all’illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi.
E’ ovvio che una responsabile difesa come pure un impianto accusatorio ponderato e ben organizzato dovranno considerare in modo specifico gli effetti ed i rilievi che possono emergere dalla prova tecnica.
In secondo luogo, la citazione del consolidato orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, andatosi affermando dal 99 ad oggi non lascia via di “scampo” all’ipotesi contemplata in precedenza degli interessi ad uso piazza. Il richiamo non è attaccato in quanto tale perché compiuto con una tecnica di rinvio, bensì per la indeterminatezza che riviene da tale fattispecie che è frutto del mancato coordinamento fra l’ipotesi locale della “piazza” e quella nazionale; precludendo un accertamento univoco ed omogeneo apre potenzialmente le porte alle sperequazioni in termini di applicazione dei tassi. Malgrado la Cassazione non utilizzi mai il condizionale, non può tacersi che gran parte dell’iter logico che il tribunale affronta è molto prossimo a una “condicio” potenzialmente superabile da una ridefinizione terminologica del termine “uso piazza”, ma allo stato attuale questa impostazione è assolutamente prevalente e come tale favorevole al cliente. Il coordinamento fra l’art. 2697 e l’art. 1284 impone alla banca di fornire prova di una fonte univoca e determinabile cui intende riferirsi. Nel momento in cui non può farlo ella è colpevole ai sensi del nuovo orientamento della S.C.
1. A nulla rileva che in corso del rapporto sia intervenuta tacita approvazione del conto, in particolare attraverso l’estratto conto bancario in quanto:
– E’ considerato mero documento contabile.
– La mancata contestazione di questo rende inoppugnabili i contenuti solo sotto il profilo contabile (data la natura del documento), ma non circa la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano le partite inserite all’interno del conto stesso.
– E’ escluso ogni tipo di comportamento concludente in quanto è richiesta la forma scritta ad substantiam ex. art. 1284 c.c. laddove l’esigenza dell’elemento formale investe le dichiarazioni di entrambe le parti non potendosi desumere da comportamenti concludenti.
– E’ ininfluente la prova testimoniale articolata dalla banca stessa qualora il relativo “thema probandum” fosse incentrato sull’avvenuto regolare invio degli estratti conto del correntista e sulla mancata contestazione di esso da parte dell’interessato.
· Non costituisce riconoscimento del debito da parte del correntista né il fatto di una mancata contestazione dell’estratto conto né tanto meno l’avere quest’ultimo sottoscritto un nuovo contratto con la banca quantunque a condizioni diverse rispetto alle precedenti, anche nell’ipotesi di richiesta di chiusura del conto, dilazione o saldo laddove è “è improduttiva di effetti la promessa di pagamento o la ricognizione di debito la cui fonte sia un negozio nullo” (Cass. 855/86) quale deve ritenersi il contratto di conto corrente nella parte in cui effettua un mero rinvio agli usi, ai fini della determinazione del tasso d’interesse ultralegale.
L’assunto presentato dalle banche tale per cui: “il pagamento spontaneo di interessi in misura ultralegale, pattuito invalidamente, costituisce adempimento di obbligazione naturale e determina l’irripetibilità della somma pagata” (Cass. 2262/82) è assolutamente improponibile, difatti la stessa Cassazione è intervenuta precisando che codesto presupposto non ricorre “nel caso di una banca che abbia proceduto all’addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna del cliente medesimo” (Cass. 2262/84) ed appare evidente che nel caso di specie le condizioni praticate usualmente dalla banca sulla piazza si risolvono in clausole unilateralmente predisposte da un solo contraente (più forte) ed imposte all’altro (più debole) in mancanza di consenso e di pattuizione concordata con quest’ultimo risultando pertanto impercorribile il dettato dell’art. 2034 c.c.
Circa l’elemento temporale nell’ipotesi, anch’essa percorsa in difesa degli istituti di credito, della prescrizione di quanto dovuto, la Cassazione ha chiarito che: “il momento iniziale del termine decennale per il reclamo delle somme indebitamente trattenute dalla banca, a titolo di interessi, decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, come già ha ritenuto questa corte, sia con riferimento al deposito bancario regolato in conto corrente, sia con riguardo al mandato, alla cui disciplina è soggetto prevalentemente il contratto di operazioni bancarie. I contratti bancari di credito con esecuzione ripetuta di più prestazioni, sono contratti unitari che danno luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralità di atti esecutivi; perciò la serie successiva di versamenti, prelievi ed accreditamenti non dà luogo a singoli rapporti ma determina solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto costituito tra banca e cliente” (Cass. 2262/84).
La capitalizzazione trimestrale degli interessi viola l’art. 1283 codice civile laddove si basa su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma consuetudinaria ed interviene anteriormente alla scadenza degli interessi, tanto più nel caso di contratti stipulati dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di cui all’art. 4 della legge n. 154/92 che vieta le clausole di rinvio agli usi[2].
E’ incostituzionale e pertanto inapplicabile il disposto dell’art. 25, comma 3, D.Lgs 4 agosto 1999 n. 342 dichiarato tale dalla sentenza della Corte Costituzionale del 17 ottobre 2000 n. 425 per contrasto con gli art. 3, 24, 76, 77, 101, 102, 104 cost. Per effetto di codesta pronuncia le clausole anatocistiche restano quindi disciplinate, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, dalla normativa anteriormente in vigore, alla stregua della quale esse sono da considerarsi nulle, perché stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c.[3].
Circa la rideterminazione della pretesa creditoria oggetto di causa, se è la legge stessa a ritenere adeguato l’anno, quale termine entro il quale l’obbligazione di interessi viene in scadenza, appare giusto ritenere che esso costituisca anche un termine, reputato dalla legge sufficientemente ampio per precludere quell’effetto di moltiplicazione automatica del debito che l’art. 1283 vuole evitare, impedendo cadenze trimestrali.
E’ necessario computare le operazioni di accredito effettivo delle valute dal giorno in cui la banca ha acquisito o perduto la disponibilità dei relativi importi, in particolare non è consentito alla banca, detentrice del conto e come tale contraente forte per i prelevamenti di capitale, attribuire una valuta anteriore al giorno dell’effettivo prelevamento, mentre per i depositi, attribuire una valuta postergata al giorno dell’effettiva disponibilità del danaro, con ciò determinando un aumento artificioso del tasso annuo effettivo praticato sul conto corrente.
La Commissione di massimo scoperto viene applicata al massimo saldo dare del cliente, nell’ambito del sinallagma contrattuale ed è destinata ad operare su di un piano diverso rispetto agli interessi “costituendo questa la controprestazione per il rischio crescente che la banca si assume in proporzione all’ammontare dell’utilizzo dei fondi”, del resto la stessa banca d’Italia intervenendo in ordine alla rilevazione dei tassi, per l’individuazione della soglia usuraria, ha chiarito che la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo del T.E.G. e va rivelata separatamente ed espressa in termini percentuali; una volta riconosciuto alla commissione di massimo scoperto una sua autonoma funzione rispetto agli interessi non appaiono sussistere valide ragioni per ritenere la nullità della clausola che la sancisce.
E’ bene rilevare come in diverse occasioni dalla lettura della sentenza emerga un particolare accenno al concetto di “contraente forte” e come tale indirettamente detentore di un potere contrattuale e dispositivo maggiore rispetto al debole. Premesso che la perequazione dei diritti trova, proprio nel dettato che vuole la legge uguale per tutti, un ampia tutela quel che rimane è certamente il presupposto della sudditanza in capo a colui che è per automatica ridefinizione più debole perché inconsapevole o portatore di un bisogno che è anche il bene della vita oggetto del contratto. Ad avviso dello scrivente un parametro distinto dovrebbe essere utilizzato per i conti correnti on line considerando quanto segue:
– Il cliente lo consulta comodamente da casa propria elemento oggettivo che riduce fortemente la sudditanza psicologica ingenerata dalla fretta e dalla struttura corporativa delle filiali bancarie.
– Per consultare il conto corrente il cliente ha certamente la disponibilità di un collegamento internet la qual cosa lo rende potenzialmente capace di informasi per il tramite dei motori di ricerca, andrebbe precisato che quantunque non dotato di un collegamento rapido egli ha certamente la possibilità di conoscere in modo approfondito i suoi diritti e doveri in rapporto alla banca di cui è cliente qualora lo desideri. Oggigiorno è inutile negare che i motori di ricerca sono banche dati generali o vere e proprie biblioteche virtuali.
– La banca, soprattutto per una questione di risparmio dei costi elimina il personale fisico e mantiene il sentore on line pertanto, onde evitarsi richieste a mezzo telefono o lettera è quanto mai impegnata a rendere disponibili tutte le informazioni on line.
– Il fatto che alcune clausole possano essere scritte in piccolo rileva assai poco in quanto prima di stamparle con l’anteprima di stampa il cliente ha la possibilità di modificarle in caratteri più grandi.
Il concetto di contraente forte subisce, on line, un ridimensionamento.
La sentenza ripercorre con meticolosità i principali passaggi che oggi costituiscono l’interpretazione dominante della materia, in diritto bancario, denominata come interessi anatocistici. Premesso che in realtà ciò che si vuole criticare o, se meglio volessimo argomentare, con un “favor” più smaccatamente riferibile al cliente piuttosto che all’istituto di credito, non è la prassi inerente agli interessi anatocistici in sé considerati bensì ad un corollario di fattispecie ad essi inerenti che hanno trovato terreno fertile entro il quale proliferare in un clima di disattenzione generalizzata. Occorre sottolineare come la CTU, una volta quantificato il reale ammontare del debito spettante dal cliente alla banca, frequentemente dimostra che è la banca ad essere creditrice del cliente stesso, una volta ricalcolata la trimestralizzazione ed il sistema degli accrediti/addebiti. Bisogna ulteriormente sottolineare che non si comprende come sia possibile in casi del genere compensare le spese fra le parti, a nulla rilevando il fatto che la materia si nuova, la legge è chiara nello stabilire che in nessun caso il fare valere in giudizio un proprio diritto può comportare un costo. Se il cliente ha diritto a vedersi restituita una somma indebitamente percepita dall’istituto di credito allora non c’è plausibile giustificazione del perché da questa si debba sottrarre la spesa giudiziale per il proprio legale rappresentante atteso che se alcuna violazione si fosse verificata codesta spesa sarebbe integralmente nella disponibilità del cliente. La spese si addebitano alla parte soccombente.
Conclusioni e valutazioni
Il recente orientamento della Corte di Cassazione a Sezione Unite, ha riformato le precedenti posizioni nel merito dell’uso negoziale e non normativo degli interessi c.d. uso piazza.
La nuova impostazione, certamente più favorevole ai clienti, che nei confronti della banca sono anche consumatori, ha aperto a innumerevoli cause di risarcimento degli interessi indebitamenti percepiti dalla banche. In particolare a muoversi sono coloro che abbiano con la banca:
– Contratto di Mutuo.
– Contratto di Fido.
– Contratto di finanziamento per l’impresa o l’azienda.
Nelle sentenze rese, ad oggi, è frequente che in esito al procedimento il cliente anziché essere debitore della banca ne sia creditore.
Non è certamente questa la sede per analizzare l’opportunità di un simile cambiamento di indirizzo o per valutare quali potranno essere, in futuro, le ripercussioni in termini di liquidità per il sistema bancario, sulla base di eventuali innumerevoli cause andate a buon fine. Anche considerando che spesso il danaro rimborsato ritorna nel circuito bancario.
E’ opportuno invece, basare la propria attenzione sul ruolo che svolge il legale, unico soggetto abilitato ad esprimere un parere nel merito della materia in oggetto, parere circa i contenuti di un eventuale azione civile per il rimborso di quanto indebitamente percepito.
La centralità del legale si esprime anche e soprattutto in un momento in parte carico di incertezze circa il futuro consolidamento o ammorbidimento dell’attuale orientamento, ma con una precisazione di luogo assolutamente doverosa e necessaria, peraltro già espressa nel corso del commento stesso, circa l’inopportunità di compensare le spese fra le parti laddove non si capisce come sia possibile che a seguito di una sentenza chiara, esaustiva e terminologicamente priva di dubitative alcune il cliente debba, per ottenere il rimborso di quanto già indebitamente sottrattogli, vedersi addebitare le spese e gli onorari di causa.
Il fare valere un diritto in giudizio non può consistente in un costo. Questo è un dato costituzionalmente acquisito.
Se da un lato è veritiero sostenere che non è possibile effettuare una caccia alle streghe contro il presunto contraente forte, termine questo ad avviso dello scrivente utilizzato con scarso realismo laddove più che di vera e propria forza contrattuale trattasi di informazione legata allo stesso, conoscenza di contenuti che il cliente ignorava e che invece la banca possedeva. Questo non fa dell’istituto di credito un contraente forte, solo più esperto, ma non necessariamente per questo motivo espressione di un potere. Il termine forte di frequente è accostabile ad un concetto di malvagità che mal si concilia con gli ideali democratici della Costituzione.
– Tutela del cliente e delle sue doverose aspettative.
– Centralità del legale e del suo ruolo.
– Rispetto per l’ onorevole compito svolto dalle banche come crocevia per la circolazione della ricchezza nella realtà costante.
Questi sono i tre punti chiavi per una corretta base di partenza al fine di interpretare, con ragionevolezza e lungimiranza, l’attuale orientamento delle Sezioni Unite.
[1] Così Cass. 9354/00
[2] Cosi Cass. 2374/99 e Cass. 13096/99.
[3] Così Cass. 4490/2002.
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