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4 Marzo 2002 In Diritto bancario

Capitale sociale e patrimonio netto: identità e differenze

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Di Vincenzo Di Vilio
4 marzo 2002

L’attenzione e l’interesse dei giuristi riguardo alla disciplina dei conferimenti e più in generale alla funzione del capitale sociale nelle imprese collettive, ed in particolare nella società per azioni, sono andati decisamente aumentando negli ultimi anni.

L’effetto di questi studi è stato di produrre risultati soprattutto in due direzioni: da un lato nell’evidenziare la funzione di produzione del capitale (e quindi dell’apporto) rispetto alla funzione (essenzialmente) di garanzia per i creditori sociali, con tutte le conseguenze che ciò ha portato riguardo al problema dei beni conferibili in società (ed iscrivibili in bilancio).

Dall’altro, e come effetto non secondario del primo, si sono ulteriormente ridotte le distanze tra i giuristi e gli studiosi delle discipline aziendali che in passato hanno spesso lavorato pressoché ignorandosi reciprocamente: e questo dipende da una più piena aderenza alla realtà “aziendalistica” nell’ interpretazione e nella valutazione globale della nostra pur vecchia normativa.

Si pensi ad esempio, a questo proposito, alla comparsa di una nozione, come appunto quella di patrimonio netto, che costituisce la premessa necessaria di ogni discorso sull’impresa da parte dello studioso di discipline aziendali.

C’è da chiedersi se nel nostro sistema il capitale sia stato considerato sotto il più ampio profilo della sua adeguatezza, e cioè se abbia positiva tutela l’interesse (non solo dei soci, ma anche dei creditori attuali e futuri della società, e più in generale al corretto funzionamento delle imprese) a che la società sorga ed operi dotata di mezzi propri (cioè di capitale) proporzionati alle dimensioni dell’attività (programmata o esercitata). Tuttavia sembra mancare, almeno sotto il profilo di una disposizione esplicita ed in positivo, una regola di proporzionalità tra capitale e patrimonio, o meglio tra capitale e dimensioni dell’impresa. E ciò di fronte al cospicuo complesso di norme che tutelano il capitale, tendenti a garantire la sua esatta formazione, la sua esistenza nel corso della vita dell’impresa, la sua reintegrazione (in caso di perdite), al fine, si afferma, di assicurare l’effettività del capitale iniziale E’ questa probabilmente una delle ragioni che hanno indotto a considerare il capitale sociale essenzialmente (o quasi solo) sotto il profilo della garanzia (supplementare) per i creditori sociali, tesi che ha avuto una lunga fortuna, così come il suo corollario, e cioè che il capitale, e dunque i conferimenti, dovessero essere costituiti solo da beni iscrivibili in bilancio, cioè, secondo la concezione più restrittiva, suscettibili di esecuzione. In recenti studi è stato messo in luce a quali inconvenienti possa portare un’applicazione radicale di tali postulati, in una società industriale avanzata dove si scambiano e si conferiscono “beni” come ad esempio il “know how”, che hanno un’utilità certamente primaria, ma che non sembrerebbero valutabili con i criteri tradizionali.

Mentre, d’altra parte, gli aziendalisti sottolineano da parte loro come la migliore garanzia per i creditori sociali sia non già il capitale bensì la capacità dell’impresa di produrre reddito.

In questa materia vi è grande necessità di tener presenti le regole giuridiche e quelle tecniche insieme, onde comprendere, innanzitutto, quali norme tecniche acquistino obbligatorietà dalla sanzione della legge e, in secondo luogo, come le norme giuridiche vadano interpretate al lume di una logica che presiedette alla loro emanazione e che esse tendono a codificare.

Nelle teorie economiche, non è da ricercare né si ricercherà, ovviamente, la intera verità. Da queste potranno essere tratti soltanto alcuni spunti, necessari per analizzare l’apparente disparità di significato delle norme della legge.

Esaminando la dottrina e la giurisprudenza in merito al concetto di capitale si nota che non sempre il capitale è inteso allo stesso modo e che le definizioni che ne sono state date sono molteplici e spesso discordanti, in quanto non tendono tutte a dare il significato della medesima entità, ma fanno riferimento addirittura a entità diverse colte in momenti diversi del divenire della società.

Dopo quanto si è detto sul rapporto tra la scienza economica e il concetto di capitale accolto dal legislatore, occorre considerare il senso e la portata giuridica delle norme che impongono nelle società di capitali un minimo di capitale per la costituzione della società.

Tale minimo è considerato essenziale non solo per la costituzione, ma anche per la persistenza dell’impresa collettiva, e deve dunque esistere anche durante tutta la vita della società.

La dottrina ha sempre, prevalentemente se non esclusivamente, collegato il minimo di capitale alla responsabilità limitata: “dal momento che solamente il patrimonio sociale risponde, in caso di fallimento, per i debiti sociali, questo deve essere considerato come un bene riservato esclusivamente ai creditori. Il capitale sociale è perciò un patrimonio indispensabile della società”.

Tuttavia a chi ritiene che fissare in minimo serva a garantire i creditori sociali si può rispondere con la considerazione ben nota agli aziendalisti, che la migliore garanzia che la società può dare ai suoi creditori è la sua capacità di produrre reddito. Ed è significativo che negli Stati Uniti, dove la maggior parte degli Stati esigono un ammontare minimo quasi irrisorio, la questione di un capitale minimo è stata considerata “un tentativo futile di far fronte al problema della responsabilità limitata”.
Ai fini dell’analisi del concetto di capitale, in tutte le sue sfaccettature, e dello studio delle singole poste contabili costituenti il “patrimonio netto”, risulta necessaria un’indagine preliminare volta all’individuazione del concetto di capitale d’impresa.

Infatti, esso assume diversi significati a seconda delle diverse finalità cui la sua determinazione può essere ricondotta. La dottrina individua tre generali nozioni di capitale, cui corrispondono altrettante sue configurazioni:
· il capitale di funzionamento;
· il capitale di liquidazione per stralcio;
· il capitale economico;

Si parla di capitale di funzionamento quando l’azienda si trova nella fase dinamico-probabilistica. Di contro, si parla, di capitale di liquidazione quando l’azienda si trova nella fase terminale e la cessazione della stessa deriva dallo stato di liquidazione.

Il capitale economico, invece, che è determinato generalmente in sede di trasferimento, totale o parziale, del capitale proprio dell’azienda, ovvero in sede di operazioni particolari quali, ad esempio, un aumento del capitale sociale, rappresenta il valore assegnabile all’intero complesso aziendale, quale sistema unitariamente considerato, ovvero, in altri termini, “il valore economico attribuibile al capitale proprio di una data azienda, tenuto conto dei frutti che in quest’azienda può trovare”.

Non è data nel nostro ordinamento una definizione di patrimonio netto; in realtà si tratta di un concetto che solo di recente ha trovato ingresso nella nostra legislazione nonostante fosse ben conosciuto, fin dall’Ottocento, nella dottrina aziendalistica.

Introdotto quasi marginalmente con l’art. 19 della legge n. 216 del 1974, che parlava di “capitale versato e delle riserve risultanti dal bilancio” si è poi imposto progressivamente all’attenzione del legislatore fino a diventare un cardine del moderno diritto societario. E’ indubbio che il legislatore con l’introduzione del concetto di patrimonio netto si sia preoccupato di tutelare meglio soci e creditori sociali da comportamenti diretti a ridurre le garanzie offerte dalla società: in questa linea si è posta particolare attenzione all’integrità del capitale, inteso non nel senso nominalistico del termine ma in quello sostanziale di espressione del valore patrimoniale della società. Si è così valorizzato il concetto di patrimonio netto, rappresentato dal capitale, dalle riserve e dagli utili, così come indicato tra le poste del passivo patrimoniale del bilancio dall’art.2424 c.c.

Gran parte della dottrina sostiene che il patrimonio netto sia rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo vero e proprio.

Tuttavia il confine di tale differenza non è, come si è già rilevato nel paragrafo precedente, sempre agevolmente individuabile, con la conseguente difficoltà a determinare la riserva o il fondo disponibile per l’aumento del capitale.

Nel patrimonio netto non devono comunque rientrare poste che implichino una passività, anche solo potenziale, per le società ovvero una rettifica dei valori dell’attivo.

Le società per azioni possono subire perdite di entità tale, da ridurne il patrimonio netto a valori inferiori al capitale sociale. Il capitale, a seconda dei casi, può o deve essere ridotto, per venire adeguato al patrimonio netto

Nel corso della vita aziendale il manifestarsi di perdite di esercizio è, purtroppo, un fenomeno non infrequente. Non sono rare infatti le situazioni in cui, a causa di eventi interni o esterni all’azienda, può venire meno la condizione di equilibrio economico.

Infine, ci si deve domandare se è vero quanto si dice a proposito del c.d. “invecchiamento del capitale come istituto centrale del diritto delle società”.

In effetti, la conoscenza dell’entità del capitale sociale ha di norma un ben limitato valore informativo e uno scarsissimo interesse pratico tanto per l’investitore quanto per i creditori (soprattutto i creditori professionali, i quali, dispongono di dati , indici e notizie molto più precise ed aggiornate del capitale nominale). Il valore del patrimonio netto contabile ha una pregnanza ed una rilevanza informativa enormemente più elevate.

Esso infatti indica quale è il valore totale dei mezzi finanziari che gli azionisti destinano, a scadenza indeterminata, alla realizzazione dell’oggetto sociale e a fronte dei rischi dell’impresa; al tempo stesso esso è una misura essenziale per valutare le caratteristiche della struttura finanziaria dell’impresa e in particolare il grado di copertura con mezzi stabili degli immobilizzi tecnici e finanziari nonché il grado di “leverage” dell’impresa e cioè due indicatori di particolare interesse per i terzi finanziatori.

Non v’e dubbio, come emerso dall’esame della funzione del capitale sociale, che una regola, secondo la quale occorra dotare la società di capitali di un capitale congruo, non sia desumibile dal sistema.

È stata prospettata da alcuni la soppressione della stessa figura del capitale sociale; l’alternativa consisterebbe in una diversa disciplina del “patrimonio netto”, fondata su coefficienti di bilancio (ratios) diretti a stabilire una certa proporzione tra “mezzi propri” (capitale di rischio) e mezzi di terzi (capitale di credito). Tale passo è stato già fatto, dalla legislazione azionaria della California (§ 500 Cal. Corp. Cod.), che, abolendo del tutto i concetti di capitale, di riserve, di valore nominale delle azioni, subordina ogni distribuzione ai soci, al rispetto di un coefficiente di solvibilità e di un coefficiente di liquidità, rendendo così indisponibile una quota del patrimonio netto.

Anche se gli esiti dell’alternativa prospettata, non appaiono del tutto soddisfacenti, vista la difficoltà di creare un sistema di “tests” efficiente, ciò non toglie che questa sembra la strada più giusta da seguire, l’unica che possa essere in grado di frenare il dilagante fenomeno della sottocapitalizzazione, e di conseguenza, di tutelare al meglio investitori e creditori.

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