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4 Giugno 2021 In Diritto bancario Tidona, Notizie dalla Corte Bancaria

CASSAZIONE – Caratteristiche del recesso abusivo della banca in una apertura di credito bancario

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© Tutti i diritti riservati. Vietata la ripubblicazione cartacea ed in internet senza una espressa autorizzazione scritta. È consentito il link diretto a questo documento.

Cassazione Civile, sez. I, sent. n. 10125 del 16/4/2021

 

NORME DI RIFERIMENTO:

Art. 1845 (Recesso dal contratto) c.c.:

“[I]. Salvo patto contrario, la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa. [II]. Il recesso sospende immediatamente l’utilizzazione del credito, ma la banca deve concedere un termine di almeno quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori. [III]. Se l’apertura di credito è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni”.

Art. 1175 (Comportamento secondo correttezza) c.c.:

“[I]. Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”.

Art. 1375 (Esecuzione di buona fede) c.c.:

“[I]. Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.

 

MASSIMA ESTRATTA:

“Pur in presenza di un diritto di recesso in capo alla banca in costanza di rapporto di apertura di credito bancario, la relativa situazione giuridica soggettiva va esercitata non solo nel rispetto delle regole di legge e di contratto, ma anche secondo una condotta che non trasmodi nell’abuso del diritto, imponendo cioè a controparte un ingiustificato sacrificio delle proprie ragioni: come quando, a fronte di fatti solo pretestuosamente allegati o non rispondenti al vero o ai reali interessi della banca, questa provveda in modo arbitrario e scorretto alla revoca degli affidamenti, recedendo dal rapporto di apertura di credito (cfr. Cass. 24 agosto 2016, n. 17291; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321; Cass. 21 maggio 1997, n. 4538). In tal senso, si è dunque precisato che, pur quando la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso da parte della banca non possa essere messa in discussione sotto il profilo dell’inesistenza di un’eventuale giusta causa, che non sia richiesta, tuttavia il modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca non resta del tutto insindacabile: perchè “(r)esta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell’esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto, e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta” (così, in motiv., Cass. 21 maggio 1997, n. 4538). Quindi, si è reputato giustificato il recesso, quando vi fossero condotte, poste in essere dal cliente, idonee ad incrinare la fiducia nei successivi adempimenti ai propri obblighi: come nel caso dell’esistenza di concreti segni di affievolimento della credibilità commerciale della debitrice, consistenti nella richiesta di proroga di due ricevute bancarie, nel mancato pagamento alla scadenza di un’altra ricevuta e nella lettera di un cliente, che aveva rifiutato di onorare un’ulteriore ricevuta bancaria emessa, negando che vi fosse stata la relativa fornitura (così Cass. 21 maggio 1997, n. 4538); mentre si è ritenuto contrario a buona fede il recesso, allorchè la sola allegazione della banca consisteva nell’avere il debitore e il garante compiuto atti di disposizione del proprio patrimonio, sì da diminuire la garanzia del credito, ma senza che tale inidoneità patrimoniale fosse provata in nessun modo, ed anzi in presenza, da parte del debitore principale, dell’analitica specificazione dei cespiti oggetto del patrimonio, suo e dei fideiussori e della consistenza di tali beni, posti a presidio degli obblighi assunti e senza che neppure fosse stata richiesta dalla banca, nel caso che del loro valore si dubitasse, di una c.t.u., volta all’apprezzamento degli stessi (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291). In sostanza, occorre dunque osservare che è da considerare legittimo il recesso dal rapporto di apertura di credito bancario, in presenza di uno scarso grado di solvibilità del cliente, dal momento che, in tale tipo di rapporti, è proprio questo parametro ad orientare le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi anche con effetto immediato (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538) e che la banca, per esercitare il suo diritto di recesso, non deve dimostrare che sussista un vero e proprio stato di insolvenza dei debitori, in quanto allora si richiederebbe ad essa, irragionevolmente, di recuperare il proprio credito quando questo sia divenuto addirittura irrecuperabile (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291). In definitiva, il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell’importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, nè essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni dall’istituto addotte. Ne deriva che grava sulla parte, la quale assume l’illegittimità del recesso per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede, l’onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova (cfr. Cass. 7 marzo 2008, n. 6186; Cass. 11 gennaio 2006 n. 394), dovendo il debitore, il quale agisca per far dichiarare arbitrario l’atto di recesso di una banca dal rapporto di affidamento di credito per violazione della buona fede, dedurre e provare che le giustificazioni date dalla banca non risultino ragionevoli (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291). A fronte dell’esercizio del diritto di recesso attribuito dalla legge o dal contratto, è onere dunque della controparte – la quale alleghi la violazione della clausola della buona fede e correttezza nei rapporti interprivati – provare l’integrazione della fattispecie abusiva”.

 

MOTIVAZIONE:

2.1. – Importanti principi, da cui non vi è ragione di discostarsi, sono stati già affermati da questa Corte al riguardo.

L’art. 1845 c.c., in tema di recesso dall’apertura di credito bancario, prevede che, salvo patto contrario, la banca non possa recedere dal contratto prima della scadenza del termine se non per giusta causa; ove l’apertura di credito sia a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni.

La norma ammette il patto contrario, per definizione quindi lecito, con il quale le parti concordino la facoltà di recesso, anche nel contratto a tempo determinato, senza giusta causa.

Nel presente giudizio, l’assunto delle parti in causa è che questa fosse l’evenienza nel caso di specie, ed infatti la stessa sentenza impugnata riferisce come, nei contratti conclusi fra le parti, non fosse prevista una giusta causa di recesso, ma solo il termine di preavviso, e che esso fu del tutto rispettato.

Ciò posto, così come per tutti i diritti e le facoltà previsti dalla legge o dal contratto, la clausola generale della buona fede esige l’esercizio leale del diritto di recesso, che deve essere posto in essere senza che nessuna condotta abusiva, o tale da pregiudicare ingiustificatamente gli interessi dell’altro contraente, venga realizzata, ai sensi degli artt. 1175,1375 c.c.; tali clausole generali hanno, com’è noto, il loro substrato ultimo nella Carta costituzionale (artt. 2,3,41 Cost.); come tali, esse trovano dunque senz’altro applicazione anche nei rapporti bancari.

A questo riguardo, è stato enunciato dalla S.C. l’importante principio secondo cui, pur in presenza di un diritto di recesso in capo alla banca in costanza di rapporto di apertura di credito bancario, la relativa situazione giuridica soggettiva va esercitata non solo nel rispetto delle regole di legge e di contratto, ma anche secondo una condotta che non trasmodi nell’abuso del diritto, imponendo cioè a controparte un ingiustificato sacrificio delle proprie ragioni: come quando, a fronte di fatti solo pretestuosamente allegati o non rispondenti al vero o ai reali interessi della banca, questa provveda in modo arbitrario e scorretto alla revoca degli affidamenti, recedendo dal rapporto di apertura di credito (cfr. Cass. 24 agosto 2016, n. 17291; Cass. 14 luglio 2000, n. 9321; Cass. 21 maggio 1997, n. 4538).

In tal senso, si è dunque precisato che, pur quando la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso da parte della banca non possa essere messa in discussione sotto il profilo dell’inesistenza di un’eventuale giusta causa, che non sia richiesta, tuttavia il modo di esercizio del diritto potestativo di recesso da parte della banca non resta del tutto insindacabile: perchè “(r)esta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell’esecuzione dei contratti secondo buona fede (art. 1375 c.c.), alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari; connotati tali, cioè, da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai comportamenti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista creditizia per il tempo previsto, e non potrebbe perciò pretendersi sia pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta” (così, in motiv., Cass. 21 maggio 1997, n. 4538)

Quindi, si è reputato giustificato il recesso, quando vi fossero condotte, poste in essere dal cliente, idonee ad incrinare la fiducia nei successivi adempimenti ai propri obblighi: come nel caso dell’esistenza di concreti segni di affievolimento della credibilità commerciale della debitrice, consistenti nella richiesta di proroga di due ricevute bancarie, nel mancato pagamento alla scadenza di un’altra ricevuta e nella lettera di un cliente, che aveva rifiutato di onorare un’ulteriore ricevuta bancaria emessa, negando che vi fosse stata la relativa fornitura (così Cass. 21 maggio 1997, n. 4538); mentre si è ritenuto contrario a buona fede il recesso, allorchè la sola allegazione della banca consisteva nell’avere il debitore e il garante compiuto atti di disposizione del proprio patrimonio, sì da diminuire la garanzia del credito, ma senza che tale inidoneità patrimoniale fosse provata in nessun modo, ed anzi in presenza, da parte del debitore principale, dell’analitica specificazione dei cespiti oggetto del patrimonio, suo e dei fideiussori e della consistenza di tali beni, posti a presidio degli obblighi assunti e senza che neppure fosse stata richiesta dalla banca, nel caso che del loro valore si dubitasse, di una c.t.u., volta all’apprezzamento degli stessi (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

In sostanza, occorre dunque osservare che è da considerare legittimo il recesso dal rapporto di apertura di credito bancario, in presenza di uno scarso grado di solvibilità del cliente, dal momento che, in tale tipo di rapporti, è proprio questo parametro ad orientare le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi anche con effetto immediato (Cass. 21 maggio 1997, n. 4538) e che la banca, per esercitare il suo diritto di recesso, non deve dimostrare che sussista un vero e proprio stato di insolvenza dei debitori, in quanto allora si richiederebbe ad essa, irragionevolmente, di recuperare il proprio credito quando questo sia divenuto addirittura irrecuperabile (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

In definitiva, il recesso dal rapporto di apertura di credito con la richiesta di restituzione dell’importo finanziato e la sospensione di ulteriore credito, da parte della banca, è lecito quando la decisione sia rispettosa della disciplina legale e convenzionale, nè essa sia censurabile alla stregua del generale principio della buona fede, in quanto non risulti integrata la pretestuosità delle motivazioni dall’istituto addotte.

2.2. – Ne deriva che grava sulla parte, la quale assume l’illegittimità del recesso per arbitrarietà e contrarietà al principio di buona fede, l’onere di enunciarne le ragioni e di fornire la relativa prova (cfr. Cass. 7 marzo 2008, n. 6186; Cass. 11 gennaio 2006 n. 394), dovendo il debitore, il quale agisca per far dichiarare arbitrario l’atto di recesso di una banca dal rapporto di affidamento di credito per violazione della buona fede, dedurre e provare che le giustificazioni date dalla banca non risultino ragionevoli (Cass. 24 agosto 2016, n. 17291).

A fronte dell’esercizio del diritto di recesso attribuito dalla legge o dal contratto, è onere dunque della controparte – la quale alleghi la violazione della clausola della buona fede e correttezza nei rapporti interprivati – provare l’integrazione della fattispecie abusiva.

Tale prova sarà tanto più ardua, quando più il recesso sia motivato sulla base di comportamenti della stessa cliente, di terzi destinatari di fatture emesse dalla medesima società in ipotesi di sconto bancario, oppure addirittura di inesistenza di terzi debitori in presenza di ricevute bancarie illegittimamente emesse dalla stessa correntista, così come in presenza di altre condotte similari, specie a fronte della rilavante entità del credito concessole: circostanze, dunque, che, secondo l’id quod plerumque accidit, siano tali da far insorgere dubbi in ordine alla solvibilità del correntista. In un rapporto come quello di apertura del credito bancario in conto corrente, invero, è proprio il grado di solvibilità del cliente ad orientare legittimamente le scelte della banca circa il mantenimento o la revoca degli accreditamenti concessi, a fronte di comportamenti e circostanze tali da legittimare, secondo le regole degli affari, l’allarme dell’istituto di credito sulla solvibilità del cliente, e, quindi, da giustificare la legittima revoca degli affidamenti.

Resta da aggiungere che, trattandosi di violazione della regola della buona fede in executivis, l’integrazione della fattispecie del diritto di recesso e l’esercizio dello stesso sono in sè idonei a por fine al rapporto, mentre l’inadempimento a tale fondamentale canone comporterà unicamente conseguenze di tipo risarcitorio a carico della banca, che la regola abbia violato.

2.3. – Nel caso di specie, la corte territoriale non ha fatto corretta applicazione di questi principi.

Tra le situazioni concrete, allegate dalla banca, vi erano quelle dell’esistenza di un saldo passivo, costantemente in peggioramento; di partite sul conto costantemente a debito; dell’esistenza di tre effetti ritirati e di un effetto insoluto; della emissione di due ricevute bancarie, non corrispondenti a nessun reale credito nei confronti della correntista, che non era affatto titolare di diritti verso quei pretesi debitori, tanto da non poter validamente ed efficacemente conferire alla banca nessun mandato all’incasso di crediti inesistenti.

Le prime tre vicende non sono state neppure esaminate dalla corte del merito, pur essendo decisive; la quarta è stata disattesa, mediante un ragionamento errato in diritto.

Ed invero, non è corretto, ai fini di una compromissione del rapporto di fiducia della banca nei confronti della correttezza del cliente e nei suoi futuri adempimenti, escludere già in tesi il rilievo dell’emissione di ricevute bancarie false – ossia non rispondenti ad effettivi rapporti sottostanti con i terzi, e, dunque, all’evidenza emesse al solo scopo di ottenere dalla banca il relativo credito – solo per la ragione che il cliente, responsabile di tale condotta, non abbia ecceduto dal credito concesso.

Con la ricevuta bancaria, non riconducibile alla categoria dei titoli di credito, il creditore redige una dichiarazione scritta, a sua firma, ricevendo dalla banca la somma di denaro a saldo di una data fattura, che la banca stessa poi procederà a riscuotere, quale mandataria in rem propriam: ne deriva che la finanziatrice, dunque, anticipa l’importo del credito, sicchè l’operazione realizza, al tempo stesso, una diversa modalità di incasso del credito e una funzione di finanziamento (Cass. 5 luglio 2007, n. 15225; Cass. 22 marzo 2001, n. 4085; Cass. 5 ottobre 2000, n. 13278; Cass. 20 maggio 1999, n. 4908; Cass. 6 febbraio 1999, n. 1041; Cass. 18 maggio 1996, n. 4614; Cass. 6 agosto 1994, n. 7313).

Proprio in quanto non si tratta di un titolo di credito, la veridicità della relativa dichiarazione assume importanza decisiva, difettando tale strumento dei requisiti, coessenziali ai titoli di credito, della letteralità, dell’autonomia, dell’incorporazione del diritto nel titolo e della destinazione alla circolazione, onde la fiducia nel soggetto che la emette deve essere particolarmente pregnante, ed essa viene delusa, quando la dichiarazione sia menzognera.

Nè tale grave condotta è suscettibile di divenire irrilevante, per la mera esistenza di prelievi entro gli affidamenti o perchè le ri.ba. vengono pagate “salvo buon fine”: trattandosi, infatti, di un ulteriore credito concesso dalla banca, anche se i patti prevedono usualmente tale clausola, essa non ha altro effetto che quello di comportare un recupero, da parte della banca, della somma anticipata inopinatamente, mediante riaddebito sul conto.

Ma si tratta, come la ricorrente osserva, di mere poste contabili, almeno sino a quando la correntista affidata non rientri della propria esposizione: con serio aggravio, in definitiva, della situazione di sofferenza del credito (come dimostrato, nella specie, dal fallimento della debitrice principale): ancor più grave, in quanto non risultante dall’inadempimento della pretesa terza debitrice, ma, secondo una situazione idonea a generare ben altro allarme nell’istituto finanziatore, addirittura dell’inesistenza della terza debitrice, in virtù della condotta di mala fede della correntista, che le ricevute bancarie abbia presentato.

Nella specie, dunque, la corte bolognese non si è conformata a tali principi, incorrendo in violazione di legge ed omesso esame di fatti decisivi, laddove ha reputato tout court illegittimo il recesso della banca: sia perchè ha trascurato il diritto positivo, che all’art. 1845 c.c., delinea la facoltà di recesso, così come interpretato dal diritto vivente; sia perchè ha omesso l’esame di condotte decisive del cliente, allegate dalla finanziatrice; sia perchè ha indebitamente sottovalutato il peso della condotta menzognera e di artificiale formazione delle ricevute bancarie, ed ha giustificato contra legem tale sottovalutazione con la tesi dell’omesso eccesso dal fido, evento al riguardo anodino; sia perchè ha del tutto omesso di motivare con riguardo al parallelo rapporto di conto corrente, del pari in sofferenza, in capo ad uno dei fideiussori; sia perchè non ha inteso, di conseguenza, considerare tali condotte nel loro complesso; sia, infine, in quanto ha considerato, nel prefato sistema normativo, come fatto decisivo nella questione controversa – tanto da ammetterne la documentazione relativa come “indispensabile” ex art. 345 c.p.c., vigente ratione temporis – il mancato superamento dei limiti del fido, che era solo uno dei tanti elementi da valutare.



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