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12 Ottobre 2020 In Diritto bancario

CASSAZIONE – Il Bitcoin è un prodotto di investimento soggetto alle norme del Testo Unico Finanziario se offerto al mercato quale forma di investimento – Abusivismo finanziario

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Cassazione penale sez. II, n. 26807 del 17/9/2020

 

ABSTRACT:

La valuta virtuale denominata Bitcoin è un prodotto di investimento, soggetto alle norme del Testo Unico Finanziario, se essa sia offerta al mercato quale forma di investimento; ne consegue che si concreta il reato di abusivismo finanziario nel caso in cui essa sia offerta  al di fuori del perimetro di operatività previsto dal Testo Unico e da parte di soggetti non autorizzati.

 

MASSIMA ESTRATTA:

“Infondato è il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poichè le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag. 13 dell’ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF [Abusivismo Finanziario]”.

 

MOTIVAZIONE:

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 21 gennaio 2020 il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del riesame respingeva il ricorso avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano del 16 dicembre 2019, che aveva disposto il sequestro preventivo a carico di D.R.G., indagato per i reati di cui all’art. 110 c.p. e art. 648 bis c.p., D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) e art. 493 ter c.p. della somma di Euro 206.442,32 e degli ulteriori beni (carte che abilitano al prelievo di denaro, dispositivi elettronici, telefonini) già oggetto di sequestro probatorio emesso dal Pubblico Ministero l’8 novembre 2019.

1.1 Avverso l’ordinanza ricorre per Cassazione il difensore di D.R., eccependo la violazione dell’art. 325 c.p.p. e art. 648 bis c.p., art. 125 c.p.p., comma 3 e in relazione al combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p.: il Tribunale aveva infatti completamento omesso di motivare sui motivi nuovi depositati dalla difesa, che attenevano all’elemento soggettivo del reato e che così si riassumevano: gli accrediti sui conti correnti riconducibili agli indagati (presso l’istituto di credito […] e presso […]) erano relativi a vendite di criptovalute eseguite sul sito (OMISSIS), sito non riconducibile agli indagati; le transazioni per l’acquisto dei bitcoin avvenivano in modo assolutamente spersonalizzato, senza nessun contatto tra venditore e acquirente, per cui il venditore non poteva avere alcuna consapevolezza circa la provenienza della provvista utilizzata dal compratore per l’acquisto di criptovalute; gli indagati non potevano quindi avere nessuna certezza rilevante ai sensi dell’art. 648 bis c.p. della provenienza illecita del denaro usato da D.R.A. e da M.S.G. (o da chi aveva utilizzato le generalità di questi ultimi) per l’acquisto di bitcoin (come, del reato, alcuna prova, vi era del loto concorso nei presunti delitti di truffa presupposti); nessuna rilevanza aveva la tempistica di apertura dei conti correnti, visto che mancava l’elemento soggettivo del reato e non si poteva ricorrere alla figura del dolo eventuale, posto che non vi era alcun indice sintomatico che potesse far maturare il sospetto che le somme oggetto delle transazioni fossero di provenienza illecita; neppure il dolo eventuale poteva desumersi da una omissione degli obblighi di identificazione imposti dalla normativa antiriciclaggio, essendo tali obblighi imputabili solo alla (OMISSIS).

Su tali punti, osserva il difensore, il Tribunale si era limitato ad evidenziare le vicende relative alle transazioni sul sito (OMISSIS), per poi affermare che tali vicende, qualificate come truffaldine, sarebbero state “tutte convergenti ai conti correnti riconducibili agli odierni indagati”, convergenza che non era stata posta in discussione, visto che le contestazioni avevano riguardato l’elemento soggettivo del reato.

1.2 Con un secondo motivo, il difensore lamenta la violazione dell’art. 240 bis c.p. e art. 125 c.p.p., comma 2 e del combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: il giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro della somma di Euro 206.442,32 ritenendo che fosse fortemente sproporzionata rispetto al reddito dichiarato e alla attività economica svolta, mentre con il ricorso per riesame si era dimostrato che tale sproporzione non sussisteva; il Tribunale aveva però operato un sintetico e non puntuale riferimento alla questione, del tutto obliterata nelle motivazioni rese, che non solo non si erano peritate di vagliare argomenti e deduzioni difensive, ma avevano posto la quaestio iuris della sproporzione del tutto al di fuori di qualsiasi orizzonte valutativo.

1.3 Il difensore eccepisce poi la violazione dell’art. 1, comma 2 e del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 166, comma 1, lett. c) (TUF), dell’art. 125 c.p.p., comma 3, dell’art. 321 c.p.p. e del combinato disposto dell’art. 324 c.p.p., comma 7 e art. 309 c.p.p., comma 9: l’attività di cambiavalute virtuale era stata definita dal D.Lgs. n. 90 del 2017, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerati prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l’art. 1, comma 2 TUF prevede che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”); tale scelta era perfettamente coerente con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d’opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad “atti comunitari e provvedimenti Consob” e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perchè non ancora recepita dall’ordinamento interno.

Il difensore aggiunge che il Tribunale aveva richiamato l’attività che gli indagati avrebbero svolto tramite il sito bitcoingo.it che, come risultava già dalla provvisoria contestazione mossa al capo A) della rubrica, non era formalmente riferibile al ricorrente D.R.G., ma a D.R.A. per cui, se il Tribunale avesse voluto ipotizzare una responsabilità del ricorrente, avrebbe dovuto dimostrare che tale ditta individuale era in realtà simulata, e cioè volta a celare una società di fatto tra il ricorrente e l’intestatario, prospettiva estranea all’orizzonte valutativo del Tribunale e in contrasto con le allegazioni difensive ( D.R. operava non con il sito bicoingo.it, ma con quello (OMISSIS)).

Il difensore eccepisce poi l’erronea determinazione del profitto sequestrabile: avendo il giudice per le indagini preliminari disposto il sequestro finalizzato alla confisca per sproporzione, sarebbe stato necessario individuare il profitto del delitto ex art. 166 TUF asseritamente connesso alla attività della (OMISSIS), profitto che avrebbe potuto rintracciarsi esclusivamente tramite una effettiva ricostruzione dei flussi finanziari riferibili alla ditta indicata, non potendo identificarsi la somma sequestrabile con il profitto della (OMISSIS); volendo poi individuare il profitto sequestrabile, avrebbe dovuto calcolarsi il saldo positivo tra i valori relativi all’acquisto di bitcoin e quelli relativi alla vendita della criptovaluta, al netto delle tasse; il Tribunale aveva rigettato tale sottolineatura fatta per tuziorismo, visto che nessun profitto della (OMISSIS) risultava dimostrato- con motivazione apparente mediante richiamo alla sentenza di questa Corte n. 37120/19, che aveva per oggetto il delitto di riciclaggio ove, per l’individuazione del profitto, non sono necessari conteggi particolari, dovendosi avere esclusivamente riferimento alle somme oggetto del reato, meccanismo di computo non estendibile ad altre figure di reato, di modo che non pareva dubbio che il reato di abusivismo finanziario avesse un profitto immediatamente identificabile nell’eventuale saldo attivo tra il prezzo di acquisto dei prodotti e quello di collocamento, da computarsi al netto delle imposte pagate sulle transazioni finanziarie.

1.4 Il difensore eccepisce infine la violazione dell’art. 493 ter c.p. in quanto il Tribunale, a fronte della eccezione sulla omessa motivazione da parte del giudice per le indagini preliminari in ordine al requisito del periculum, non aveva espresso alcuna valutazione, applicando al caso di specie -caratterizzato dall’utilizzo di una carta bancomat- una giurisprudenza relativa alle carte di credito, argomentazione che solo apparentemente replicava ai rilievi difensivi (il difensore richiamata la sentenza n. 7910 di questa sezione, dalla quale si evince che rispetto alla carta di debito il delitto contestato può sussistere solo se la carta e/o il relativo codice siano stati sottratti all’intestatario e si sia proceduto all’utilizzo): vi era stata quindi una violazione della norma sostanziale, visto che questa prevede un reato che non si consuma con l’uso dell’altrui carta, ma solo allorchè questo sia indebito, circostanza che non ricorreva nel caso in esame, ove il titolare formale aveva consegnato al ricorrente carta e codice pin, legittimandolo all’utilizzo.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. È fondato il secondo motivo di ricorso.

1.1 In via preliminare, osserva questa Corte che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 c.p.p. consente il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge: nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, ma anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093). Non può, invece, essere dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui all’art. 605 c.p.p., lett. e) (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).

Nel caso in esame, quanto all’elemento soggettivo del reato, il Tribunale ha risposto al primo motivo di ricorso, avendo ricostruito l’intera vicenda, e in particolare osservando che:

vi era stata una truffa ai danni di Me.An., per il quale era stato utilizzato un conto ING Bank, alimentato con un bonifico da lui effettuato e con altri due bonifici, sempre relativi ad una truffa e ad un furto di identità;

il conto ING Bank era stato immediatamente svuotato con due bonifici a favore di un conto corrente acceso in Germania presso la […] Bank GMBH intestato ad A.S., aperto on line mediante l’invio anche di un numero di telefono riconducibile all’indagato D.R.G., figlio della A.;

nella movimentazione in uscita del conto tedesco risultavano due ricariche postepay per l’acquisto di criptovalute, la prima mediante il sito (OMISSIS), e la seconda a favore di L.E.P., che aveva dichiarato di avere trattato la vendita con un soggetto con nickname “(OMISSIS)” tramite utenza telefonica intestata a D.R.G. (la foto inserita da “(OMISSIS)” sul suo profilo WhatsApp corrispondeva a quella di D.R.G.);

altro conto su cui erano finiti i proventi di truffe, intestato a D.R.A., aveva avuto uscite sul già citato conto […] e su un conto aperto on line intestato a D.R.D. (sorella di D.R.G.) su banca […], per l’apertura del quale era stata fornita l’utenza telefonica di D.r.G. tutto ciò premesso, il Tribunale traeva la logica conclusione della sussistenza dell’elemento psicologico al reato di cui all’art. 648 bis c.p.; va infatti osservato che l’indagato non si è limitato ad occuparsi di acquisto e cessione di criptovalute, ma si è inserito attivamente nella apertura di conti correnti sui quali confluivano i proventi delle truffe, che venivano poi utilizzati per le relative transazioni, per cui appare esente da censura la motivazione del Tribunale secondo cui “le citate circostanze in sede di indagini appaiono difficilmente compatibili con un atteggiamento psicologico diverso dal dolo in relazione al reato di cui al capo A)” (pag. 11 ordinanza impugnata).

1.2 Infondato è anche il terzo motivo di ricorso, con il quale viene sostenuto che poichè le valute virtuali non sono prodotti di investimento, ma mezzi di pagamento, le stesse siano sottratte alla normativa in materia di strumenti finanziari: tale censura non si confronta però con la motivazione contenuta a pag. 13 dell’ordinanza impugnata, ove si sottolinea che la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) TUF.

Quanto alla censura secondo cui il sito (OMISSIS) non sarebbe riconducibile all’indagato, si deve osservare come il conto […] acceso mediante la comunicazione del numero di telefono riconducibile all’utenza di D.R.G. sia stato utilizzato per l’acquisto e la successiva cessione di bitcoin da parte di F.F., avvenuta tramite quel sito (pag. 8 ordinanza impugnata), il che rende evidente che, a prescindere dalla formale riferibilità del sito a D.R.A., lo stesso era adoperato anche da D.R.G..

1.3 Relativamente all’ultimo motivo di ricorso, questa Corte ha precisato che “Anche l’uso di una carta di credito da parte di un terzo, autorizzato dal titolare, integra il reato di cui al D.L. 3 maggio 1991, n. 143, art. 12, convertito nella L. 5 luglio 1991, n. 197 (ora art. 493-ter c.p.), in quanto la legittimazione all’impiego del documento è contrattualmente conferita dall’istituto emittente al solo intestatario, il cui consenso all’eventuale utilizzazione da parte di un terzo è del tutto irrilevante, stanti la necessità di firma all’atto dell’uso, di una dichiarazione di riconoscimento del debito e la conseguente illiceità di un’autorizzazione a sottoscriverla con la falsa firma del titolare, ad eccezione dei casi in cui il soggetto legittimato si serva del terzo come “longa manus” o mero strumento esecutivo di un’operazione non comportante la sottoscrizione di alcun atto. (Fattispecie in cui l’agente, che conosceva gli estremi della carta di credito della persona offesa in ragione di un precedente utilizzo per conto di quest’ultima, acquistava un biglietto aereo destinato esclusivamente a sè stesso)”(Sez. 2, Sentenza n. 17453 del 22/02/2019, PMT/ Pautasso, Rv. 276422 – 01); il fatto che nel caso in esame si tratti di una carta di debito anzichè di credito è del tutto irrilevante, considerato che il bancomat è un “documento analogo” (alla carta di credito) che abilita al prelievo di denaro contante e quindi rientra nell’art. 493 ter c.p..

1.3 Fondato è, invece, il secondo motivo di ricorso.

Già in sede di riesame, il ricorrente aveva censurato la motivazione contenuta nel decreto di sequestro emesso dal giudice per le indagini preliminari, secondo la quale la quale la somma di Euro 206.442,32 appariva “fortemente sproporzionata rispetto al reddito dichiarato e all’attività svolta” (pag. 5 decreto di sequestro e il Tribunale dà atto della censura a pag. 5 dell’ordinanza impugnata; quando però passa a trattare della determinazione del profitto confiscabile, nessuna motivazione viene espressa sulla eccezione proposta dalla difesa e reiterata nel ricorso per cassazione, con conseguente omissione della motivazione, che integra la violazione di legge di cui all’art. 325 c.p.p. in quanto inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice, tanto più in quanto non vi è neppure un accenno a quale sarebbe il reddito sul quale poter operare un giudizio di sproporzione.

L’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio sul punto, ritenendo assorbiti gli ulteriori profili di censura sulla determinazione del profitto confiscabile.

 

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Milano competente ai sensi del 324 c.p.p., comma 5.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2020



Rivista di Diritto Bancario Tidona - Il contenuto di questo documento potrebbe non essere aggiornato o comunque non applicabile al Suo specifico caso. Si raccomanda di consultare un avvocato esperto prima di assumere qualsiasi decisione in merito a concrete fattispecie.

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