Commento alla sentenza del Tribunale di Milano n. 7389 del 16 giugno 2015 (Giudice monocratico Dott. Francesco Matteo Ferrari)
Di Simone Galimberti
30 settembre 2015
Sommario:
1. Premessa ovvero dei derivati che troppo spesso non sono una favola, ma veri e propri incubi
2. Causa del derivato ed alea: il consolidamento di precedenti orientamenti
3. La metodologia di calcolo del mark to market (mtm): motivazioni della sua necessità
4. Una dirompente ed innovativa interpretazione: il mtm finalmente riconosciuto come elemento essenziale dell’oggetto del negozio giuridico
5. La nullità dietro l’angolo: nuove frontiere per il contenzioso – 6. brevi note conclusive
1. Premessa ovvero dei derivati che troppo spesso non sono una favola, ma veri e propri incubi
Da un interessante contenzioso, che ha avuto un lieto fine per il “Davide” schierato contro il “Golia” di turno, scaturisce il faceto titolo di questo contributo, che, ben lungi dall’essere irriverente, vorrebbe al contrario contribuire a strappare un sorriso anche a quelle figure professionali le quali, occupandosi di una materia così complessa e controversa, hanno a che fare tutti i giorni con aziende tutt’altro che serene a motivo dei disastri spesso provocati dai derivati nei loro bilanci.
Nell’ampio ed acceso dibattito che ormai da molti anni si sta sviluppando circa tali strumenti finanziari nelle aule dei tribunali ed all’interno delle stesse istituzioni[1], si sono succedute numerosissime dispute dottrinali e giurisprudenziali intorno agli elementi costituenti tali negozi giuridici, al fine di meglio inquadrare e risolvere le problematiche di volta in volta venute alla ribalta.
Va sottolineato che, allorquando il legislatore e la magistratura si devono confrontare con tematiche così complicate, quali i contratti derivati sono (non a caso vengono correntemente denominati “strumenti finanziari complessi”), si devono scontrare con impegnative (e molto spesso astruse) espressioni matematico-finanziarie, che non sempre sono semplici da indagare e valutare con il “calibro del giurista”.
A riprova di quanto sopra affermato, basti considerare che ancora manca una definizione giuridica unitaria e condivisa su che cosa si intenda per “contratto derivato”, seppur autorevole dottrina si sia ampiamente confrontata e scontrata in materia[2].
La stessa Corte Costituzionale, laddove è arrivata ad avere a che fare con tali strumenti, concisamente si è limitata ad affermare che: “In relazione a questi ultimi (gli strumenti derivati, nda), il citato testo unico non contiene una nozione identificativa del relativo prodotto finanziario, limitandosi ad effettuare una elencazione dei principali tipi contrattuali. (…) Con riferimento alla suindicata articolata tipologia, a soli fini descrittivi e con un ineliminabile margine di approssimazione dipendente dalla complessità del fenomeno, può ritenersi che le negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari derivati si caratterizzano, sul piano strutturale, per essere connesse ad altre attività finanziarie (quali, ad esempio, titoli, merci, tassi, indici, altri derivati) dal cui “prezzo” dipende il valore dell’operazione compiuta. Ferme ovviamente restando le diversità legate al tipo di operazione prescelto, tali negoziazioni sono volte a creare un differenziale tra il valore dell’entità negoziata al momento della stipulazione del relativo contratto e quello che sarà acquisito ad una determinata scadenza previamente individuata.”[3]
Se, quindi, fin dalla stessa definizione tali strumenti finanziari sono responsabili di tali difficoltà ermeneutiche, non stupisce come la magistratura di merito e di legittimità non pochi grattacapi abbia ad inquadrare “nel mirino” le parti essenziali del contratto derivato, quali causa ed oggetto, e proceda per successive affinazioni, di volta in volta approfondendo e perfezionando quanto già in precedenza statuito, in una maniera simile a quella che gli studiosi matematici ed informatici chiamano “iterazione”.[4]
In questa ottica si colloca l’interessante pronuncia della sesta sezione civile del Tribunale di Milano (sent. n. 7398 del 16/06/2015, giudice monocratico dott. Ferrari) che di recente è stata chiamata a confrontarsi con un aspetto dei derivati finora non abbastanza valorizzato (come, invece, avrebbe meritato), i.e. l’oggetto di tali contratti, traendo alcune acute e ben argomentate conclusioni che potrebbero aprire un nuovo acceso scontro fra clienti e banche.
In particolare il giudice meneghino, sulla scia di precedenti arresti dello stesso Tribunale, nonché della Corte d’Appello di Milano[5], ha approfondito l’indagine sul valore fondamentale del MtM (Mark to Market) del derivato, aspetto questo finora poco sviscerato e lacunosamente toccato da alcuni arresti giurisprudenziali[6], legandolo definitivamente con l’oggetto del contratto derivato, in ciò compiendo un atto sincretico del tutto condivisibile fra interpretazione giuridica e matematico-finanziaria di tali strumenti.
In estrema sintesi la sentenza in commento ha individuato la necessità, all’interno della documentazione informativa e contrattuale, di una indicazione precisa e puntuale della formula matematica definitoria del MtM, pena la nullità del contratto derivato stesso ai sensi dell’art. 1418 c.c.[7].
Il giudice meneghino, alla fine di una incontrovertibile esposizione, arriva a stabilire come il MtM costituisca un elemento essenziale, e non già accessorio o addirittura ininfluente, del negozio giuridico e che la mancata indicazione certa ed univoca dell’algoritmo matematico con cui poterlo determinare (al variare dei vari scenari probabilistici) comporti di per sé una grave ed insuperabile indeterminatezza dell’oggetto del contratto, ergo la nullità del contratto stesso.
Qui di seguito sarà interessante ricostruire il processo logico che ha guidato il magistrato milanese nella enucleazione di principi tanto importanti, quanto suscettibili di profonde e serie ripercussioni nel contenzioso in merito ai contratti derivati.
2. Causa del derivato ed alea: il consolidamento di precedenti orientamenti
La vicenda oggetto del contendere è iniziata nel 2003, anno a partire dal quale alcune aziende, tutte facenti caso al medesimo gruppo (tralasciamo qui volutamente le dinamiche societarie ben descritte nella sentenza in commento) ed operanti nel settore edile, avevano sottoscritto una serie di derivati su tassi d’interesse (I.R.S., i.e. interest rate swap) con un gruppo bancario.
Tali contratti, come è prassi comune e spesso censurabile nel mondo bancario, erano stati più volte rinegoziati, sempre dietro sollecitazione della banca, incorporando in ciascun nuovo contratto il valore negativo del precedente derivato (i.e. il Mark to market) sotto forma di up front a favore del cliente che semplicemente “cancellava” (con una mera compensazione contabile) il credito vantato dalla banca per la chiusura della precedente operazione in derivati.
Con tale meccanismo, ogni nuovo derivato veniva pesantemente “zavorrato” da un fardello crescente che, al momento dell’inizio dell’azione legale da parte dell’azienda legittimata a procedere in giudizio (la capogruppo in cui si erano nel frattempo fuse le altre aziende), aveva già prodotto un danno di svariate centinaia di migliaia di euro.
La società attrice, nella sua richiesta di ripetizione dei flussi versati, aveva cercato, inter alia, di far valere la nullità dei vari contratti derivati sia per mancanza di “causa concreta” che per la omessa specificazione dei criteri di determinazione del valore di Mark to Market dello strumento finanziario nell’ambito della varia modulistica di volta in volta sottoscritta.
In merito al primo punto, relativo, cioè, all’aspetto causale dei contratti derivati, la sentenza in commento si pone nella scia dell’ormai noto arresto giurisprudenziale della Corte d’Appello meneghina[8], riproponendo la definizione del contratto derivato inteso quale “scommessa legalmente autorizzata” a fronte di un interesse meritevole di tutela, che caratterizza ogni sorta di derivato, indipendentemente dalla sua finalità speculativa o di copertura.
Secondo il Tribunale di Milano, il contratto derivato si connota in modo essenziale per la sua natura intrinsecamente aleatoria: esso può, dunque, a buona ragione definirsi “una scommessa legalmente autorizzata a fronte di un interesse meritevole di disciplina” con la precisazione che detta natura aleatoria non costituisce prerogativa esclusiva dei derivati a carattere speculativo, ma ben si confà anche a quelli di copertura.
In questo senso il magistrato meneghino ribadisce con fermezza che “l’eventuale sbilanciamento delle alee, ossia una sproporzione tra il rischio assunto dal cliente rispetto al rischio assunto dalla banca, non incide sulla struttura del contratto, e quindi sulla sua validità, purché ciascuna delle due parti, scommettendo, si assuma un grado (anche sbilanciato) di rischio; un investitore può anche assumersi un forte rischio al fine di tentare di avere un forte vantaggio e solo in casi limite si potrà arrivare a dire che il contratto non è aleatorio, quando cioè al rischio dell’uno non corrisponda il rischio dell’altro”, così smentendo l’assunto della società attrice che puntava sulla mancata finalità di copertura dei vari derivati – essendo essi al contrario caratterizzati da un mero intento speculativo – come vizio genetico per la dichiaratoria di nullità.
Subito dopo, peraltro, il giudice ambrosiano introduce quello che sarà l’elemento di vera novità della sentenza, affermando che: “sennonché deve registrarsi come la difesa attorea, sia pure impropriamente inquadrandola nell’ambito del difetto di causa in concreto del contratto, ha comunque contestato ed eccepito la nullità dello stesso per non contenere specificazione dei criteri di calcolo del Mark to Market (MtM)”, contestazione che, soggiunge il magistrato, seppure “impropriamente inquadrata in una prospettiva causale e, comunque solo accennata nell’ambito di un atto introduttivo che si caratterizza per una sua spiccata corposità, risulta in ogni caso dalla controparte pienamente individuata e compresa nei suoi esatti contenuti e implicazioni, considerato come la banca nella propria comparsa di risposta abbia specificamente preso posizione sul punto, sostenendo come il criterio di calcolo dell’MtM fosse pattuito in termini oggettivamente determinabili con la previsione nei contratti quadro della clausola per cui “la Banca provvederà su base giornaliera a rilevare per i contratti che specificamente lo prevedono il loro rispettivo valore corrente di mercato – definito più propriamente costo di sostituzione o Mark to Market – sulla base di quotazioni di mercato””.
Questo è l’incipit di una accurata analisi dell’esatta funzione che il Mark to Market (o fair value o valore di mercato, che lo si voglia chiamare) riveste nell’economia complessiva di un contratto derivato, nonché nella stessa struttura giuridica del sinallagma contrattuale analizzato, con le conclusioni, già anticipate (vd. supra), che, se fatte proprie – come è auspicabile – da dottrina e giurisprudenza, non potranno che portare beneficio ad un sano riequilibrio dei rapporti di forza contrattuale fra banche e clienti.
3. La metodologia di calcolo del Mark to Market (MtM): motivazioni della sua necessità
Perché il semplice accenno alle quotazioni di mercato, fatto dalla difesa della banca, non persuade il giudice milanese? La risposta è articolata, ma, in ogni caso, lineare.
In primis una argomentazione del genere non può bastare a definire, incontrovertibilmente ed al di là di ogni legittimo dubbio, il criterio oggettivo di calcolo del Mark to Market di un generico contratto swap, posto che esso, “quale sommatoria attualizzata dei differenziali futuri attesi sulla base delle condizioni dell’indice di riferimento al momento della sua quantificazione, ovviamente presuppone il richiamo al tasso di interesse, ma necessita altresì di essere sviluppato attraverso un conteggio che, mediante il ricorso a differenti formule matematiche, consenta di procedere all’attualizzazione dello sviluppo prognostico del contratto sulla base dello scenario esistente al momento del calcolo del MtM ”.
Le parole del Tribunale ambrosiano non potrebbero essere più limpide e appropriate. Giova ricordare, infatti, che, nell’ambito della matematica finanziaria, la quantificazione del MtM (o fair value del derivato) non può ovviamente discendere dalla conoscenza certa del livello dei tassi d’interesse futuri che andranno a definire i futuri flussi finanziari sino al termine del contratto, bensì dal ricorso alla struttura a termine dei tassi d’interesse (quella che viene chiamata in gergo la curva forward implicita)[9], la quale permette di effettuare una ragionevole approssimazione di quali siano le aspettative di tasso incorporate nell’attuale configurazione dei tassi d’interesse sulle diverse scadenze.
In questo senso il valore dei flussi futuri e il conseguente “costo di estinzione anticipata” del contratto (che è un altra maniera di chiamare il MtM) sono riferibili esclusivamente alla data in cui tale calcolo viene effettuato, essendo suscettibile di variazioni giornaliere anche considerevoli, derivanti dalle oscillazioni dei tassi di mercato di riferimento e dalla volatilità dei mercati stessi. Diverse condizioni di mercato, infatti, potrebbero generare valutazioni e considerazioni anche considerevolmente difformi rispetto a quelle attuali.
Non solo il mercato, però, influenza il MtM: bisogna, infatti, considerare che tale valore è una funzione che dipende dal modello utilizzato per la sua valutazione e dalla scelta dei parametri e dalle stime effettuate sull’andamento futuro del mercato. In altre parole il MtM dipende sia dalle informazioni di cui si dispone al momento della valutazione, che dal loro modo di utilizzo.
In questo senso, a parità di condizioni di mercato, il Mark to Market può assumere valori sensibilmente differenti l’uno dall’altro al variare dell’algoritmo (i.e. formula matematica) scelto per la sua valorizzazione e, a parità di algoritmo, al variare delle ipotesi di base effettuate sulle numerose variabili coinvolte nel calcolo.[10]
Se, quindi, si comprende fino in fondo come il MtM sia il frutto di un processo di calcolo il cui modello e le cui ipotesi di base devono essere chiaramente ed esaustivamente specificate, al fine di capire come si sia giunti a tale quantificazione e per poter validarne od eventualmente contestarne il risultato, allora non si può che essere totalmente d’accordo con le affermazioni del giudice milanese, il quale si spinge a dire che: “Precisato, quindi, che per definizione il Mark to Market non possa essere pattuito in modo determinato, trattandosi di un valore destinato necessariamente a mutare a seconda del momento del suo calcolo e dello scenario di riferimento di volta in volta esistente, perchè possa sostenersi che esso sia quanto meno determinabile è comunque necessario che sia esplicitata la formula matematica alla quale le parti intendono fare riferimento per procedere all’attualizzazione dei flussi finanziari futuri attendibili in forza dello scenario esistente.
Ciò si rende necessario in quanto detta operazione può essere condotta facendo ricorso a formule matematiche differenti, tutte equivalenti sotto il profilo della loro correttezza scientifica, ma tali da poter portare a risultati anche notevolmente differenti fra di loro.
Se, pertanto, per la determinazione del Mark to Market si pretendesse di fare richiamo alle sole rilevazioni periodiche del tasso di interesse di riferimento, senza indicare anche il criterio di calcolo da adottarsi per procedere all’attualizzazione del valore prognostico, in realtà non si renderebbe il dato contrattuale effettivamente determinabile, sostanzialmente rimanendo lo stesso unilateralmente quantificabile in termini differenti a seconda della formula matematica di calcolo di volta in volta prescelta dal soggetto interessato.” [11]
Non vi è chi non colga in una tale lucida analisi il fortissimo impatto che tale statuizione preluda, posto che, in ogni contratto quadro, dovrebbe essere esplicitamente specificata la formula matematica – tra le tante astrattamente possibili – a cui le parti intendono riferirsi per procedere al calcolo del MtM, con la conseguente indeterminabilità di tale valore in assenza dell’algoritmo matematico-finanziario.
4. Una dirompente ed innovativa interpretazione: il MtM finalmente riconosciuto come elemento essenziale dell’oggetto del negozio giuridico
Alla luce di quanto esposto nel precedente paragrafo, il Tribunale di Milano va, quindi, ad investigare un aspetto per nulla secondario del patrimonio genetico del contratto derivato: stabilito che il MtM possa essere univocamente determinato solo se sia esplicitata la formula con cui calcolarlo, che ruolo riveste tale valore nell’economia di un siffatto strumento finanziario?
Qui risiede la chiave di volta dell’intera portata innovativa della sentenza: il giudice meneghino non ha dubbi ed identifica il Mark to Market con “l’oggetto stesso del contratto”.
Motivando e esemplificando il proprio pensiero, subito aggiunge che “l’MtM è una particolare espressione dell’oggetto del contratto, destinata a operare con riferimento ad alcune vicende contrattuali dalle parti predeterminate (ossia la scelta di una di esse di dare chiusura anticipata al rapporto, piuttosto che altri casi di necessaria interruzione anticipata, come ad esempio i casi previsti nei contratti in esame di ammissione a procedure concorsuali della cliente o a procedura di liquidazione coatta della banca). In tali casi, quindi, l’oggetto del contratto, costituito dal differenziale dei contrapposti flussi finanziari, viene determinato attraverso il Mark to Market, il quale, rappresentando una sua specifica modalità di espressione, è esso stesso l’oggetto del contratto. Ciò appare indirettamente confermato dallo stesso legislatore, là dove all’art. 2427 bis c.c. ha previsto che le società debbano nella nota integrativa di bilancio indicare il fair value del contratto derivato, cioè il valore in sé del contratto (ossia l’MtM); tale previsione normativa, infatti, conferma come il Mark to Market, lungi dal configurarsi solo come elemento eventuale del contratto, sia piuttosto una componente necessaria del suo oggetto, tanto da dover essere esplicitata in sede di bilancio.”
In effetti è innegabile che, nella sua concisa ed efficacissima ricostruzione, il Tribunale milanese abbia perfettamente colto e fatto proprio ciò che autorevole dottrina va da molto tempo dicendo in merito al “significato economico-finanziario” del MtM di un derivato ovvero del suo fair value. [12]
Lo stesso giudice meneghino, infatti, a sostegno della sua tesi, pone a solida base della sue argomentazioni l’art. 2427bis cod. civ., che stabilisce l’obbligo per le società di capitali di esplicitare sempre, all’interno della Nota Integrativa del proprio bilancio, il fair value di ogni contratto derivato da esse detenuto.
A conferma di quanto inoppugnabilmente sostenuto dal Tribunale di Milano, è sicuramente interessante e di grande ausilio verificare come il dibattito circa tale punto sia vivo e fluido da qualche anno a questa parte. Acuta ed autorevole dottrina, infatti, si è trovata a sostenere tesi analoghe in svariate occasioni, fra cui ci piace menzionare la “Nota di dissenso dell’Arbitro Avv. Emilio Girino” nell’ambito di un Lodo arbitrale di inizio 2014[13], nella quale si afferma, con un percorso logico chiaro e persuasivo, che “le pronunce di Corte Cost. 18 febbraio 2010 n. 52/2010 in Banca Borsa Tit. Cred., 2011, 1, 1; Trib. Milano 19 aprile 2011, ibidem, 6, 748; Cons. Stato 7 settembre 20911 n. 05032/2011 in Foro it., 2012, III, 69 (e da ultimo anche App. Milano 18 settembre 2013 in dirittobancario.it e, recentissimamente, Trib. Torino 18 gennaio 2014) (…) inequivocabilmente convergono nel riconoscere come lo strumento derivato si fondi su uno scambio non già di capitali, ma solo di un flusso, in un senso o nell’altro, corrispondente al differenziale fra due grandezze economiche.
Corollario innegabile di siffatta premessa è che la componente aleatoria costituisca non già un elemento accidentale, bensì una componente stessa, naturale ed immanente all’oggetto del negozio. L’alea ovviamente è insita nella fluttuazione dei parametri che concorrono a determinare il differenziale.
Il differenziale periodico è un dato storico e certo che si forma di tempo in tempo sulla base dell’applicazione dei parametri matematici definiti nel contratto. A sua volta il MtM è una somma attualizzata dei differenziali futuri attesi, dunque anch’esso concorre a formare l’oggetto del negozio, ne è parte, ancorché ovviamente non certa bensì solo stimabile al momento della stipulazione, in ragione del fatto che la sua esatta misura potrà determinarsi solo nelle successive fasi di esecuzione.
Dunque (…) il MTM non può considerarsi come un semplice valore futuro destinato ad assumere rilevanza solo in caso di chiusura anticipata del contratto, bensì quale necessaria componente dell’oggetto negoziale (il differenziale) che si formerà nel tempo.”
5. La nullità dietro l’angolo: nuove frontiere per il contenzioso
Spingendo fino alle estreme conclusioni il ragionamento sviluppato in merito a MtM ed oggetto del contratto, nella summenzionata “Nota di dissenso dell’Arbitro Avv. Emilio Girino” si legge che “in assenza di una preventiva esplicitazione dei criteri di calcolo, nessun operatore, per quanto qualificato, sarebbe giammai in condizione di verificare se la stima sia effettuata in coerenza ad una sconosciuta (in quanto non precisata in contratto) metodologia, ma, prima ancora, non sarebbe neppure in grado, ignorando appunto il metodo prescelto, di compiere quella stima e dunque di individuare un condiviso perimetro ipotetico dell’alea e, di conseguenza, dell’oggetto del derivato.
Se è lecito, e finanche logico, che sia l’intermediario a stimare il MtM (la giurisprudenza ammette espressamente che l’oggetto del contratto sia demandato ad una parte), non è invece tollerabile che la determinazione sia rimessa al mero arbitrio dell’intermediario, il che accade nel momento in cui quest’ultimo non espliciti i criteri di computo e non ponga dunque la controparte nella condizione di poter compiere la valutazione, o verificare quella compiuta dalla controparte, in coerenza ai non esplicitati criteri (in tal caso la giurisprudenza, in altri ambiti, ravvisa correttamente la nullità del contratto per indeterminabilità dell’oggetto).”
Non vi è chi non colga come tale conclusione costituisca, nella sua perfetta sovrapponibilità, una sorta di anticipazione di quella a cui giunge il Tribunale di Milano nella sentenza in commento, laddove il giudice meneghino afferma testualmente che, laddove si arrivi a stabilire per fatti incontrovertibili come il MtM sia una componente essenziale dell’oggetto negoziale, “dovendo l’oggetto del contratto e, quindi, tutte le sue componenti, essere determinate o quanto meno determinabili, pena la nullità del contratto stesso, sarà necessario che nel regolamento contrattuale venga indicato il metodo di calcolo di tale valore; in difetto, risolvendosi la quantificazione dell’MtM in una determinazione di una delle parti (la banca), non verificabile dall’altra, deve concludersi come esso non risulti determinabile, implicando la nullità dell’intero contratto ex art. 1418 c.c.”.
Una statuizione del genere porta con sé una portata destabilizzante non indifferente, posto che le convincenti argomentazioni prodotte dal magistrato ambrosiano potrebbero determinare in numerosi contenzioni in atto e futuri una vera “rivoluzione copernicana” sul ruolo e sulla portata del MtM nei contratti derivati e, in ultima analisi, sulla validità o meno dell’intero negozio giuridico ai sensi del principio generale dell’art. 1346 del codice civile[14].
6. Brevi note conclusive
La pronuncia in commento è tra quelle che certamente non potranno essere ignorate e lasciate nel dimenticatoio, bensì sarà destinata, per quanto sopra esposto, a lasciare una profonda traccia nel panorama giurisprudenziale e, molto verosimilmente, determinerà utilissime discussioni e dispute, che sono – a ben vedere – forse l’unica strada percorribile per determinare un giusto progresso della scienza forense quando si trova a confrontarsi con altre discipline, altrettanto (se non più) complesse.
Tale sentenza, infatti, ha il merito indiscutibile di essere stata la prima (di una lunga serie, auspicabilmente), che ha riportato nella giusta centralità un componente dei contratti derivati (il Mark to Market) storicamente molto bistrattato, inserendolo, invece, nell’ambito dell’oggetto stesso del contratto derivato, compiendo in ciò una riabilitazione definitiva ed irreversibile del suo fecondo patrimonio costitutivo ed informativo.
D’altronde una tale sentenza non dovrebbe sorprendere e suscitare scalpore più di tanto visto e considerato come gli stessi Organi di Vigilanza abbiano più volte in passato invitato gli intermediari finanziari ad un più corretto approccio con la propria clientela. Ora, poiché uno degli elementi fondamentali nella valutazione di un prodotto finanziario deve essere il suo valore ed il relativo grado di liquidità, è del tutto logico che la modalità di definizione del prezzo (i.e. fair value) del prodotto finanziario debba essere esplicitato fin da subito, cioè alla sottoscrizione del contratto quadro.
Anzi si potrebbe in conclusione affermare che il giudice ambrosiano abbia colto in pieno l’invito all’auspicato “livellamento del campo da gioco” da parte di Consob[15], nel senso di colmare, per quanto possibile, le innegabili e pesantissime asimmetrie informative che affliggono geneticamente l’intermediazione finanziaria ed il rapporto banca-cliente.
[1] Per una migliore comprensione del dato numerico del fenomeno dei derivati si veda CAMERA DEI DEPUTATI, COMMISSIONE VI FINANZE, Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari – Testimonianza del Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini, Roma, 15 giugno 2015, in particolare andando a visionare i dati contenuti nell’Appendice Statistica del documento le Tavole 1, 2, 3 e 4. Qui di seguito basterà solo evidenziare come in tale documento si legga che “Secondo una rilevazione della Banca dei Regolamenti Internazionali sul mercato dei derivati OTC – dove si svolge la maggior parte delle contrattazioni – delle maggiori banche di 13 paesi sviluppati, a fine 2014 il valore nozionale dei contratti era di circa 520 mila miliardi di euro (tav. 1), otto volte il PIL mondiale; il mercato è complessivamente cresciuto del 21 per cento dal 2008. Il valore di mercato lordo (pari alla somma in valore assoluto di tutti i contratti, sia quelli con valore di mercato positivo sia quelli con valore negativo) ammontava a circa 17 mila miliardi (25 mila nel 2008). (…) L’80 per cento del valore nozionale è relativo a derivati su tassi di interesse.” Si può, quindi, ben comprendere come la vastissima entità di tale fenomeno non possa che determinare serissime preoccupazioni in funzione di una potenziale dirompente instabilità sistemica, che da tali strumenti finanziari si potrebbe generare ed espandere a tutto quanto il mercato finanziario prima ed economico dopo.
[2] Si veda al riguardo ex multis gli ottimi contributi di E. GIRINO, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 155 e ss., D. MAFFEIS, I contratti dell’intermediazione finanziaria, Torino 2011, pag. 252 e ss.; E. BARCELLONA, Strumenti finanziari derivati: significato normativo, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, p. 541 e ss., F. CAPUTO NASSETTI, I contratti derivati finanziari, Milano 2011, pag. 1 e ss..
[3] Corte Costituzionale, sentenza n. 52 del 10 febbraio 2010.
[4] In matematica ed analogamente in informatica, il termine iterazione, da cui iterativo, indica quel processo che, nel calcolo elettronico, cerca di arrivare al risultato voluto attraverso una serie di operazioni ripetute più volte nello stesso ordine (ciclo iterativo), partendo ogni volta dal risultato dell’applicazione precedente, allo scopo di ottenere la dimostrazione di un teorema o di conseguire, attraverso approssimazioni via-via maggiori, la soluzione di un problema.
[5] Cfr. S. GALIMBERTI, Il “gioco” dei d(eriv)ati fra intermediari e clienti: note su alcuni punti innovativi della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 3459 del 18 settembre 2013, in Magistra, Banca e Finanza – www.magistra.it – ISSN: 2039-7410, 2013.
[6] Cfr. A. PALETTA, Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili, in Rivista di Diritto Bancario, Febbraio 2012; S. GALIMBERTI, Analisi del recente orientamento giurisprudenziale sul mark-to-market alla luce della teoria e prassi matematico-finanziaria, in Diritto Bancario, Marzo 2012; R. CESARI, Economia e Diritto: dalla coerenza al conflitto nella sentenza di Cass., Sez. 2^ del 21.12.2011, di Riccardo Cesari, in Rivista di Diritto Bancario, Marzo 2012.
[7] Art. 1418 (Della nullità del contratto) – Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa [1343], l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.
[8] Cfr. S. GALIMBERTI, Il “gioco” dei d(eriv)ati fra intermediari e clienti: note su alcuni punti innovativi della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 3459 del 18 settembre 2013, cit.
[9] Molto brevemente, il tasso forward è la sintesi delle previsioni medie del mercato sui futuri tassi spot. In altre parole il valore del tasso forward di oggi è il valore del tasso spot che il mercato si aspetta di avere tra un anno; il valore di un tasso forward tra un anno sarà il valore del tasso spot previsto tra due anni e così via. Sono tassi impliciti, coerenti con la curva dei tassi spot, e devono rispettare la seguente equazione (per i<j, dove i e j sono anni): (1 + sj) j = (1 + si) i (1 + fi,j) j – i , avendo supposto che i tassi siano espressi in capitalizzazione composta annua e denotando con l’indice f il tasso forward e con l’indice s il tasso spot. Dalla precedente relazione si può ricavare il tasso forward implicito nei tassi spot (fi,j) e la relativa curva forward implicita.
[10] In merito si può proficuamente consultare il lavoro di L. Giordano, G. Siciliano, Probabilità reali e probabilità neutrali al rischio nella stima del valore futuro degli strumenti derivati (Real-World and Risk-Neutral Probabilities in the Regulation on the Transparency of Structured Products) in CONSOB Working Papers, n. 74, agosto 2013. Senza soffermarsi sulle complesse argomentazioni tecniche svolte dai due autori nello studio, è comunque illuminante considerarne le conclusioni, che sono qui di seguito integralmente riportate, a riprova di quanto sopra affermato:
“Il presente lavoro ha passato in rassegna i concetti della moderna matematica finanziaria alla base dei modelli di pricing degli strumenti derivati, mettendo in evidenza come l’approccio probabilistico alla base della determinazione del valore teorico dei prodotti finanziari derivati costituisca un potente strumento di valutazione del prezzo di tali prodotti e di conoscenza dei rischi ad essi associati. In particolare, il lavoro ha dimostrato come, sebbene le probabilità neutrali al rischio siano uno strumento adeguato (in termini sia metodologici che interpretativi) per valutare il prezzo “alla data corrente” di un derivato (fair price), si rende necessario un affinamento metodologico quando si vogliono inferire le probabilità circa il valore del derivato ad una certa data futura. La ragione di ciò risiede essenzialmente nella circostanza che i modelli di pricing di un derivato alla data corrente si basano sull’idea fondamentale del «principio di non arbitraggio», cioè sull’idea che il derivato può essere replicato usando l’attività sottostante e quindi il suo prezzo non dipende dal premio al rischio; ciò consente di utilizzare una modellistica di simulazione dei pay-off del derivato dove si assume che il premio al rischio richiesto dagli investitori sia pari a zero, ovvero che gli investitori siano neutrali al rischio. Questa ipotesi – che in termini metodologici consente di risolvere un problema altrimenti insuperabile, ovvero quello di modellare in modo univoco la legge di movimento del prezzo dell’attività sottostante il derivato – non consente, di converso, di ricavare le probabilità circa il valore del derivato ad una certa data futura (cosiddetti “scenari probabilistici”); per stimare queste probabilità, cioè le probabilità “reali”, è necessario tenere conto dell’avversione al rischio degli investitori, ossia tenere conto del fatto che gli investitori sono disposti a detenere, ad esempio, titoli azionari solo se da questo investimento si attendono un rendimento superiore al tasso risk-free. Ciò vuol dire, in concreto, che, per simulare i pay-off ad una data futura di un derivato che ha come sottostante titoli azionari, è necessario usare un modello in cui si assume che i prezzi azionari crescano ad un tasso che include il premio al rischio, e non invece ad un tasso pari al risk-free come invece è implicito nelle probabilità risk-neutral.
Per quanto riguarda i modelli di pricing di strumenti finanziari derivati aventi come sottostanti tassi di interesse (IRS) è emerso come – sebbene ai fini del solo pricing la conoscenza di tutti i parametri disaggregati non sia necessaria, essendo sufficiente la specificazione dei parametri risk-neutral – per l’estrazione delle probabilità a scadenza (“scenari di probabilità”) è richiesta la determinazione in forma esplicita del parametro di premio al rischio (p), in assenza del quale il modello resta irrisolvibile. La soluzione che viene adottata per la costruzione degli “scenari” è quella di porre tale parametro uguale a zero e ciò comporta due implicazioni di non trascurabile rilevanza: la prima, in termini meramente economici, è che si impone l’ipotesi dalla “teoria delle aspettative pure”, i cui limiti sono stati ampiamente illustrati dalla letteratura empirica; la seconda, più prettamente metodologica, è che il valore dei parametri stimati cambia al variare della data t di osservazione, in evidente disaccordo col fatto che il modello teorico richiede parametri costanti.
In definitiva, affinché gli “scenari probabilistici” possano fornire la probabilità “reale” di accadimento di un evento futuro e indicazioni circa la probabilità che un investitore ha di conseguire profitti o perdite su uno strumento finanziario derivato dovrebbero tenere conto del premio per il rischio. Senza tale correzione, l’impiego di tali “scenari” quale strumento informativo a tutela dell’investitore retail potrebbe quindi fornire indicazioni di difficile interpretazione, in quanto più che rappresentare vere previsioni indicano esclusivamente la distribuzione degli scenari di prezzo futuri che sono compatibili («matematicamente coerenti») con i prezzi e la volatilità del sottostante che si osservano al tempo corrente.
Al fine di ottenere una misura di probabilità «corretta» occorrerebbe integrare la procedura di stima che è stata descritta in questo lavoro con una misura di avversione al rischio degli investitori (cioè una misura di «premio al rischio»); tuttavia, l’utilizzo di probabilità real world, cioè corrette per il premio al rischio, impone un affinamento metodologico volto a consentirne l’impiego nella regolamentazione sulla trasparenza dei prodotti finanziari. Un’ipotesi di premio al rischio che variasse a seconda del singolo investitore e della sua particolare funzione di utilità presenterebbe tuttavia caratteri di più o meno accentuata soggettività.” (sottolineature dell’Autore)
Per una trattazione specifica dei vari modelli di pricing cfr. anche L. FERRARO, P. PORRETTA, M. PROIETTI, M. ROSATI, Pricing degli strumenti risk rate sensitive ed implicazioni per il risk management, Convegno A.D.E.I.M.F. (Associazione Docenti Economia Intermediari Mercati Finanziari), Palermo, 12-13 giugno 2009.
[11] Seppure inserita in una prospettiva diversa, cfr. l’argomentazione di F. BOCHICCHIO, Le antinomie del diritto dei derivati: proposta di soluzione, in Riv. dir. banc., dirittobancario.it, 15, 2015, laddove si afferma che “Dall’altro non si incide sulla facoltà del cliente di uscire dal contratto derivato in qualsiasi momento prima della scadenza: facoltà non esistente “in rerum natura” visto che il derivato non è negoziato su mercati regolamentati; peraltro, le esigenze di tutela del cliente rendono necessario fornire a questi strumenti di salvaguardia e di “liquidabilità”. I testi dei “contratti derivati” prevedono tale facoltà di uscita, con previsione del prezzo di uscita, c.d. “mark to market”. La clausola di uscita non è un atto di liberalità a favore del cliente, ma è una necessità per evitare al cliente di essere e restare prigioniero di un investimento anche dalle possibilità rovinose. Pertanto, il “mark to market” deve avere criteri rigorosi ed oggettivi di determinazione: il prezzo di uscita deve essere univocamente determinabile.” (sottolineature dell’Autore)
[12] Cfr., ex multis, A. PALETTA, Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili, cit., specialmente il seguente passo davvero illuminante: “La crescente importanza degli strumenti finanziari nell’economia delle imprese e delle aziende pubbliche, l’evoluzione in tema di principi e criteri di contabilizzazione dei prodotti derivati, hanno portato anche in Italia all’aggiornamento della disciplina civilistica. Il Decreto Legislativo 30 dicembre 2003, n. 394 ha recepito la direttiva 2001/65/CE al fine di rendere la normativa italiana compatibile con i principi internazionali in tema di valutazione al fair value, introducendo le disposizioni di cui agli artt. 2427 bis (Nota integrativa) e 2428 del Codice Civile (Relazione sulla gestione).
In base al Reg. Europeo 1606/2002, gli IAS/IFRS sono divenuti obbligatori per le società quotate in un mercato regolamentato dell’Unione Europea dal primo gennaio 2005, con riferimento alla predisposizione del bilancio consolidato mentre per quanto riguarda il bilancio d’esercizio delle medesime società così come per quanto riguarda le società non quotate, il legislatore ha rimesso ai singoli governi la facoltà di estendere o meno l’applicazione degli IAS/IFRS.
Il legislatore italiano con il D.lgs. 38/2005 ha previsto l’obbligo di adozione degli IAS per le società quotate, le banche, le imprese di assicurazione e altre tipologie di istituti a partire dal bilancio consolidato 2005 e dal bilancio d’esercizio del 2006.
Prima di queste novità normative che hanno riconosciuto la concretezza del mark to market nella formazione dei bilanci delle aziende, il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, con un apposito documento (CNDC 2005), aveva messo in luce come a livello normativo regolamentare nazionale fossero assenti specifiche regole di valutazione e rappresentazione delle operazioni “fuori bilancio”. In assenza di una specifica disciplina del Codice Civile, la prassi professionale rinviava in chiave interpretativa ai principi contabili nazionali e internazionali e a fonti quali il D.Lgs n.58/1998 e il D.Lgs 87/92 per le banche. In particolare, il riferimento era essenzialmente a tre principi contabili:
· Documento n.22 (Conti d’ordine): il documento al par. B.III d) richiede che nei conti d’ordine, fra gli impegni, vengano iscritti i contratti derivati, speculativi o di copertura, stipulati dall’impresa. Il valore d’iscrizione deve essere pari al valore nominale.
· Documento n. 19 (Fondi per rischi e oneri): il Doc.19, par. C.VII, impone che le perdite nette maturate sugli strumenti finanziari derivati vengano rilevate in bilancio in appositi fondi rischi. In particolare, in presenza di derivati speculativi vi è un obbligo di accertare il valore corrente (fair value) dello strumento derivato alla data di chiusura dell’esercizio e di iscrivere la relativa perdita in un apposito fondo rischi, con contropartita alla voce di conto economico C 17 – Interessi ed altri oneri finanziari.
· Documento n.26 (Operazioni e partite in moneta estera): al capitolo 6 del principio contabile è disciplinata la copertura dei rischi di cambio, individuando ai fini contabili quattro tipologie di contratti a termine in moneta estera: 1) contratti a fronte di specifici debiti e/o crediti in moneta estera; 2) contratti a fronte di un impegno contrattuale di acquisto o di vendita di un bene in moneta estera; 3) contratti a fronte di una specificata esposizione netta in moneta estera ancorché non correlati a specifiche operazioni; 4) contratti di natura speculativa o comunque non a copertura di specifici rischi. In merito a questi ultimi, il principio contabile afferma: “Questo tipo di operazioni in valuta estera a termine di natura speculativa richiede il riesame della posizione a fine esercizio ed una rideterminazione del valore come se l’operazione fosse rinegoziata a tale data […] Sia le perdite, sia gli utili sono contabilizzati a conto economico”.
Oggi, come anticipato, il riferimento al fair value nella valutazione e rappresentazione in bilancio dei prodotti derivati può considerarsi un fatto acquisito soprattutto grazie al contenuto della Nota integrativa come previsto dal nuovo articolo 2427-bis (informazioni relative al valore equo “fair value degli strumenti finanziari”).
In conclusione di queste veloci annotazioni sull’evoluzione della normativa e delle regole professionali sulla valutazione al fair value, non si può non sottolineare una concezione per certi aspetti “metafisica” della recente giurisprudenza richiamata in apertura, molto lontana dalla concreta utilità che il fair value ha acquisito portando “dentro il bilancio” la consistenza patrimoniale dei prodotti derivati.”
[13] Cfr. Lodo Arbitrale Milano del 29 gennaio 2014, pubblicato (con il consenso delle parti, dei difensori delle parti e degli arbitri) in Diritto Bancario – I Lodi, giugno 2015.
[14] Art. 1346 (Requisiti) – L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile [1325, n. 3, 1972].
[15] Cfr. CONSOB, Comunicazione n. DIN/9019104 del 02/03/2009 – Livello 3 – Regolamento Intermediari – Il dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi.
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