Di Andrea Agnese, Avvocato
Negli ultimi tempi, il tema dell’anatocismo ha mostrato nuova vitalità, per il sopravvenire di ben due modifiche legislative in materia e per l’intimo intreccio che esso è venuto a creare con il fenomeno dell’usura.
Si sono così poste all’attenzione dei pratici (almeno) due questioni degne di rilievo: i) la rilevanza dell’anatocismo in sede di usura; ii) lo stato attuale dell’arte a seguito delle modificazioni legislative.
Di questi due temi intende occuparsi il presente scritto.
1. La rilevanza dell’anatocismo in sede di usura
Iniziando dal primo argomento, il dibattito sorto trae origine dal seguente problema: gli interessi che, a loro volta, producono interessi acquisiscono la natura giuridica di capitale o restano interessi? E, a sua volta, detto interrogativo ne suscita un altro: l’anatocismo deve essere computato in sede di verifica del superamento, o meno del tasso soglia, al fine di determinare se quel debitore sta pagando un tasso usurario all’istituto di credito?
Il primo interrogativo è risolto negativamente dalla dottrina prevalente (Dolmetta; Fausti; Marcelli; Quintarelli), la quale osserva come la giurisprudenza di legittimità abbia sempre prestato ossequio alla opinione per cui gli interessi che producono ulteriori interessi non per questo diventano capitale.
Di particolare rilievo una pronuncia di merito[1], la quale ha chiarito il problema nei seguenti termini: gli interessi che producono ulteriori interessi non diventano capitale, perché essi sono e restano un costo del credito, non già provvista erogata dall’istituto di credito in favore del debitore sovvenuto.
Nelle parole della corte territoriale:
Tale interpretazione è assolutamente conforme alla legge del 1996, essendo indubbio che gli interessi scaduti, sia pure “capitalizzati”, non costituiscono provvista del finanziamento (ovverosia voce “attiva” per il mutuatario”) ma un costo, sul quale peraltro la pratica anatocistica consente di applicare ulteriori interessi
(Trib. Palermo, 11.2.14).
Consentanea a tale rilievo è la distinzione tra capitalizzazione e anatocismo: altro è la produzione di interessi su interessi, altro è il passaggio degli interessi a capitale, ossia la perdita della natura di interessi e la acquisizione di quella di capitale.
Una simile conclusione importa de plano la risposta negativa al quesito.
Da tale argomentazione discende una fondamentale conseguenza, parimenti analizzata dalla pronuncia appena richiamata, in ordine alla determinazione dell’usurarietà o meno del rapporto negoziale di credito dedotto in giudizio:
è evidente che, ferma restando la limitazione dei tassi moratori entro la soglia di usurarietà, a risultati diversi si giungerà aderendo all’una o all’altra tesi: nel primo caso (tesi sostenuta dal creditore), essendo gli interessi scaduti equiparati al capitale, l’applicazione all’intera rata di interessi moratori non usurari è del tutto legittima (ed i conseguenti conteggi indicano l’esistenza di un credito residuo); nel secondo caso (tesi sostenuta dal reclamante), il rapporto fra capitale (che non si accresce a seguito di anatocismo) e interessi complessivi (comprensivi, cioè, di quelli corrispettivi capitalizzati e di quelli moratori applicati all’intera rata scaduta) dimostrerebbe l’applicazione al rapporto – per il periodo successivo all’entrata in vigore della legge n. 108/96 – di interessi superiori alla soglia; di conseguenza, adeguati i tassi applicati ai limiti di legge, l’esposizione debitoria risulterebbe significativamente ridimensionata e, tenendo conto dei pagamenti intervenuti nel tempo, integralmente estinta
(Trib. Palermo, 11.2.14)
Inoltre, un simile ragionamento ci porta a ritenere per acquisito un primo importante risultato: l’anatocismo è un costo del credito.
Tale acquisizione è fondamentale per rispondere al secondo degli interrogativi da cui siamo partiti.
* * *
Quanto alla rilevanza o meno del fenomeno anatocistico in sede di calcolo circa l’eventuale superamento o meno del tasso soglia, occorre partire dal formante legislativo di riferimento.
L’art. 644 c.p. qualifica come usura non solo gli interessi che superano il tasso soglia (c.d. usura presunta), ma anche la fattispecie in cui, benché gli interessi corrisposti siano sotto soglia, nondimeno concorrono al costo del credito altri vantaggi o compensi, i quali, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari (art. 644, comma 3, c.p.), sospingono in usura l’operazione di credito (c.d. usura in concreto).
È noto il dibattito su quali voci siano da includere o meno nel relativo computo, che affatica le corti di merito nel corso degli ultimi tempi[2].
Tale dibattito viene a lambire anche il tema dell’anatocismo e della capitalizzazione degli interessi, perché l’anatocismo, in quanto costo del credito, deve essere tenuto in conto dai consulenti di parte e d’ufficio (commercialisti, ingegneri) che si cimentino nel calcolo di quanto effettivamente pagato dal debitore bancario per stabilire se il rapporto di credito sia o meno in usura, come quest’ultimo pretende che sia in sede giudiziale.
Le Istruzioni della Banca d’Italia del 2.8.09 (punto C.4) esclude dal computo usurario “gli interessi di mora e gli oneri assimilabili contrattualmente per il caso di inadempimento di un obbligo”.
La giurisprudenza penale[3], per contro, ha risposto positivamente al quesito se gli interessi di mora e la commissione di massimo scoperto andassero computati nel calcolo dell’usura, sulla scorta del disposto dell’art. 644 c.p. e sulla base della distinzione tra usura presunta e usura in concreto, recentemente affermata dalla giurisprudenza penale di legittimità[4].
Di tutt’altro parere una parte notevole della giurisprudenza civile, la quale ritiene che le Istruzioni della Banca d’Italia siano norme tecniche autorizzate e, in quanto tali, debbano essere applicate in sede di rilevazione di usura.
Da tale presupposto si fa discendere la illegittimità della eventuale applicazione di diverse formule di calcolo rispetto a quella contenuta nelle Istruzioni[5].
Non solo.
La giurisprudenza si è anche chiesta se gli interessi corrispettivi si sommino o meno agli interessi di mora e, nel rispondere a questo quesito, non sono mancate pronunce di merito che hanno deciso nei seguenti termini:
La verità è che, costituendo interessi di mora e interessi corrispettivi grandezze del tutto disomogenee, ognuno di essi va rapportato a quello che è il suo naturale punto di riferimento: gli interessi corrispettivi al finanziamento erogato; gli interessi di mora all’inadempimento.
Da questo punto di vista la rata impagata perde la sua scomposizione in quota capitale e quota interessi, per divenire solo e semplicemente la prestazione inadempiuta ex art. 1218 c.c., sulla quale van calcolati gli interessi di mora ex art. 1224 c.c., e l’importo così determinato, sommato agli ulteriori importi pretesi dalla banca e collegati all’inadempimento (es. spese per solleciti, diffide, ecc.), va a comporre l’aggregato sul quale si determina poi in percentuale l’onere concretamente preteso dalla banca in rapporto alla rata.
Tale onere va poi confrontato con il tasso soglia, comprensivo del rilievo a fini statistici dell’usura effettuato dalla Banca d’Italia
(Trib. Cremona, 30.10.14)
o che hanno statuito che
l’assorbimento dell’interesse passivo nel capitale esclude la computabilità dello stesso tra le voci di costo del finanziamento, appunto perché, una volta capitalizzato, l’interesse non è più tale
(Trib. Torino, 8.10.14).
Ecco allora che la corretta impostazione del problema circa la natura e la sorte degli interessi che producono ulteriori interessi si rivela degna di rilievo anche in sede di usura.
Oltre tutto, come non si è mancato di notare (Quintarelli), la qualificazione degli interessi come capitale reca con sé i seguenti importanti corollari: i) la somma è immediatamente esigibile ex art. 1183 c.c.; ii) l’imputazione di pagamento è regolata dall’art. 1193 c.c. e non dall’art. 1194 c.c.; iii) la prescrizione del diritto può essere decennale o quinquennale, in ragione della stipula di eventuali pattuizioni che prevedano termini infra annuali di pagamento.
La mancanza di forma scritta o la indeterminatezza di clausole quali il prime rate o il top rate comporta il sorgere di una obbligazione ripetitoria in capo all’istituto di credito e la conseguente necessità di rideterminare il costo del credito, in ragione della seguente distinzione: i) per i contratti conclusi anteriormente e fino alla L. 154/92, si applica l’art. 1284, comma 3°, c.c., ossia il tasso legale; ii) per quelli siglati in epoca successiva alla L. 154/92, si applica il relativo tasso sostitutivo da essa previsto, poi confluito nell’art. 117, d.lgs. 385/93, ossia il c.d. tasso bot[6].
Diverse conclusioni involge l’anatocismo con riguardo al conto corrente, dove il tema impatta la natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse bancarie, secondo la distinzione fissata dalle Sezioni Unite n. 2448 del 2010. In sintesi, si può asserire che le rimesse si presumono ripristinatorie e che le poste annotate si trasformano in saldo a debito o a credito, la cui prescrizione e la cui esigibilità acquistano rilievo solo a partire dalla chiusura del rapporto di conto corrente[7].
Da questa seconda parte del discorso possiamo trarre la seguente conclusione: l’anatocismo rileva in sede di usura come costo del credito, malgrado la formula di calcolo della Banca d’Italia escluda la rilevanza dello stesso. Detta conclusione viene sostenuta specialmente dalla giurisprudenza penale, che muove dalla rigorosa interpretazione del disposto dell’art. 644 c.p.; nella giurisprudenza civile, non manca la difesa delle Istruzioni della Banca d’Italia, quali norme tecniche autorizzate. In ogni caso, la clausola anatocistica pone problemi di rispetto della normativa sulla trasparenza dei contratti bancari (oggi l’art. 117, d.lgs. 385 del 1993), con conseguente necessità di rideterminazione del saggio di interessi applicabile al rapporto.
Passiamo ora ad esaminare le modificazioni legislative intervenute nel frattempo.
* * *
2. L’art. 1, comma 629, L. 27.12.13, n. 147
La legge di stabilità 2014, ossia la vecchia legge finanziaria, ha modificato l’art. 120, d.lgs. 385 del 1993, prevedendo (art. 120, comma 4, lett. b) che “gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.
Tale disposizione viene ritenuta dalla dottrina (Dolmetta; Marcelli; Quintarelli) come un sopravvenuto divieto di anatocismo bancario.
In realtà, come si è osservato (Farina; Maimeri), la norma in discorso sembra ammettere la capitalizzazione una volta sola, in quanto espressamente ragiona di interessi periodicamente capitalizzati. Si è ragionato, al riguardo, di “anatocismo primigenio” (Farina).
Se quindi prima di tale norma sussisteva una disomogeneità, più volte rilevata dalla giurisprudenza, tra le rilevazioni periodiche effettuate sulla scorta delle Istruzioni della Banca d’Italia e i singoli rapporti di credito, l’abolizione dell’anatocismo dovrebbe comportare ex se la eliminazione dell’evidenziata disparità (Dolmetta).
Dall’attuale assetto legislativo sorgono due problemi.
Il primo di essi è se la nuova norma preveda o meno la trasformazione in capitale degli interessi; il secondo riguarda la precettività della disposizione in commento.
Con riferimento al primo quesito, taluno ha ritenuto che la norma imponga la creazione di un monte di interessi derivante dalla periodica liquidazione, distinto dal capitale e che non deve essere capitalizzato, ma verrebbe a mescolarsi con il capitale nel saldo del conto (Farina).
Lo stesso autore ha ritenuto che il nuovo art. 120, d.lgs. 385 del 1993, sia applicabile anche ai rapporti siglati anteriormente alla modifica legislativa e ancora in essere al momento della sua entrata in vigore, quanto meno per tre ragioni: i) l’abrogazione della norma primaria di legge comporta la caducazione della normativa di rango amministrativo emanata dal Cicr, ai sensi dell’art. 5, L. 2248/1865, all. E; ii) venuta meno la norma speciale, che legittimava la produzione di interessi su interessi, si applica la disposizione di carattere generale, ossia l’art. 1283 c.c., che vieta la produzione di interessi su interessi; iii) l’art. 1, comma 629, L. 147 del 2013 ha previsto la sostituzione immediata dell’art. 120, comma 2, d.lgs. 385 del 1993.
Tali argomentazioni sono state criticate da altra parte della dottrina (Quintarelli), che contesta le conclusioni di diritto intertemporale cui perviene il primo scrittore, sulla scorta del concetto di irretroattività e della argomentazione a tenore della quale la irretroattività è un principio di civiltà giuridica.
Viene così a profilarsi il secondo dei due problemi, ossia la entrata in vigore della L. 147 del 2013.
Il quesito risiede infatti nella sua portata applicativa, giacché essa rinvia alle disposizioni di fonte secondaria che dovranno essere emanate dal Cicr.
Non manca infatti una parte della dottrina che ritiene non ancora in vigore la nuova disposizione, in quanto l’entrata in vigore sarebbe subordinata all’emanazione, da parte del Cicr, della normativa secondaria.
Detta teoria riveste notevole rilievo per il pratico del diritto, in quanto prestarvi ossequio significa legittimare la bontà della previgente prassi negoziale bancaria che, se letta con le lenti della nuova disposizione introdotta dalla L. 147 del 2013, va viceversa reputata come illegittima.
Né si è opportunamente mancato di rilevare come i relativi costi di compliance dei sistemi informatici e dei software di calcolo verranno facilmente scaricati sugli utenti del credito bancario (Maimeri).
In particolare, secondo quest’ultimo scrittore, la tesi della immediata vigenza del nuovo art. 120, d.lgs. 385 del 1993, non tiene adeguatamente conto di tre elementi; i) lo scarso periodo di tempo a disposizione per modificare i contratti bancari in essere; ii) l’esplicito rinvio a una delibera del Cicr; iii) il contenuto della stessa disposizione di legge che, come rilevato anche dal Consiglio Nazionale del Notariato (Studio 80-2014/C), sarebbe non sufficientemente delineato, per modo che la delibera del Cicr viene ad assumere un effettivo ruolo para legislativo, ossia di riempimento del precetto di fonte primaria.
Ulteriore argomento che si è addotto per sostenere la non avvenuta entrata in vigore della modifica di cui alla L. 147 del 2013 è fondato sull’art. 161, comma 5, d.lgs. 385 del 1993, a tenore del quale le disposizioni emanate dal Cicr ai sensi di norme abrogate o sostituite continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi del d.lgs. 385 del 1993. In altre parole, il Cicr potrebbe procrastinare l’entrata in vigore della L. 147 del 2013, nella parte in cui modifica l’art. 120, d.lgs. 385 del 1993, fino a che esso non provvede a emanare le disposizioni attuative di fonte secondaria, perché così imposto dallo stesso d.lgs. 385 del 1993.
La contraria opinione, che propugna la immediata entrata in vigore del nuovo art. 120, d.lgs. 385 del 2013, inizialmente sostenuta da un esponente autorevole del ceto notarile (Petrelli), è stata sposata da un nutrito numero di autori (Dolmetta; Farina; Marcelli; Tanza). Questi autori ritengono poi che l’art. 120, nella sua nuova formulazione, si applichi ai contratti pendenti al momento della entrata in vigore della nuova disciplina, sostanzialmente per le argomentazioni sopra svolte.
Si è anche detto che applicare la regola del tempus regit actum ai contratti pendenti e quindi non applicare agli stessi le modificazioni dell’art. 120, non significa applicare la regola di civiltà della irretroattività della legge, bensì predicare una illegittima ultra attività della legge abrogata, con conseguenti problemi di disparità di trattamento e di lesione del canone di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. (Dolmetta).
Oltre tutto, quest’ultimo autore ha osservato come l’argomento fondato sull’art. 161, comma 5, d.lgs. 385 del 1993, di fatto facoltizza il Cicr a bloccare a tempo indeterminato l’entrata in vigore di qualsiasi riforma bancaria, con risultati inaccettabili anche dal punto di vista ermeneutico.
Per tirare le fila di questa seconda parte del discorso, due sono i risultati cui è possibile pervenire: i) secondo una prima interpretazione, il nuovo testo dell’art. 120, d.lgs. 385 del 1993, è già entrato in vigore e si applica anche ai contratti in essere al momento della sua entrata in vigore; ii) al contrario, a detta di una seconda ipotesi ermeneutica, il nuovo testo dell’art. 120, d.lgs. 385 del 1993, non è ancora entrato in vigore e si applica il testo dell’art. 120, come modificato dal d.lgs. 142 del 1999.
Per ora, non resta che verificare la portata che dette argomentazioni avranno sulla giurisprudenza, la quale, a questo riguardo, non ha ancora espresso posizioni di rilievo, escludendo la Relazione del Tribunale di Milano – Sesta Sezione Civile del 6.2.14, nella quale si è ritenuto di aderire alla tesi che ritiene applicabile la modifica dell’art. 1, comma 629, L.147 del 2013 anche ai contratti pendenti.
Nel medesimo senso, sia pure quasi per obiter, consta una pronuncia della Corte d’Appello di Genova, a tenore della quale:
Sia la CTU, pur integralmente recepita nella sentenza applicata, sia come del resto lo stesso quesito conferito al CTU sembrano in contrasto con alcune affermazioni di principio contenute nella sentenza medesima, in materia di anatocismo, ed in particolare riguardo alla necessità di rinegoziare le relative clausole, nonché con l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia, che sembrano escludere la possibilità di convalida ex post della clausola di capitalizzazione trimestrale passiva per i rapporti bancari in essere prima del 9/4/2000, data di entrata in vigore della delibera CICR 9/2/2000 (Cass. SU. 2441/2010, Corte Cost. n. 425/2000; Corte Cost. 78/2012), mentre attualmente l’anatocismo bancario risulterebbe del tutto eliminato dalla L. 27/12/2013 n. 147, che ha ulteriormente modificato il testo dell’art. 120 TUB nel senso di consentire solo la contabilizzazione e non più la capitalizzazione degli interessi
(Corte App. Genova, 17.3.14).
NOTE:
[1] Trib. Palermo, 11.2.14.
[2] Mi permetto di rinviare al mio Commissione di massimo scoperto e anatocismo, Rimini, 2015.
[3] Cass. pen., 26.3.10, n. 12028; Cass. pen., 22.7.10, n. 28743; Cass. pen., 19.12.11, n. 46669.
[4] Cass. pen., 7.5.14, n. 18778.
[5] Trib. Milano, 3.6.14; Trib. Milano, 16.9.14.
[6] Su tale distinzione e la sua affermazione in giurisprudenza mi sono intrattenuto nel mio Commissione di massimo scoperto e anatocismo, Rimini, 2015.
[7] Rinvio in argomento al mio Commissione di massimo scoperto e anatocismo, Rimini, 2015, ove l’esame della relativa giurisprudenza.
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