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Di Maurizio Tidona, Avvocato
L’entrata in vigore dell’art. 4 comma 3 L. 17 febbraio 1992 n. 154 ha colpito con espressa sanzione di nullità le clausole di contratti bancari che, per la determinazione degli interessi, anziché a parametri fissi, facciano riferimento alle condizioni praticate usualmente dalla aziende di credito sulla piazza: tali clausole negoziali devono essere dichiarate nulle e come non apposte.
In tal caso, a seguito della pronuncia di nullità della clausola, si applicherà, alle somme di cui la banca è creditrice, ai sensi dell’art. 1284 comma 2 c.c., il tasso legale di interessi (Tribunale di Roma, 27 novembre 1995; Pretura Torino, 4 giugno 1994), senza che tale vizio possa ritenersi superato per l’intervenuta, ancorché ripetuta, approvazione dei relativi estratti conto (Tribunale Genova, 24 gennaio 1997).
La disposizione di cui all’art. 4 comma 3 della c.d. legge sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari è stata riprodotta anche nel d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 c.d. Testo Unico Bancario, il quale all’art. 117, comma 6 stabilisce che sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione di tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticati. Tuttavia, per il comma 7 lettera a) dell’art. 117 il tasso di interesse applicabile, nell’ipotesi in cui vi sia un rinvio agli usi, non è quello legale – come è previsto, invece, per la mancata determinazione, dall’art. 1284, comma 2 c.c. – ma quello massimo dei buoni ordinari del tesoro annuali o di altri titoli similari eventualmente indicati dal Ministro del tesoro ed emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto.
Il contenuto prima dell’art. 4 comma 3 L. 154/92, poi dell’art. 117 comma 6 d.lgs. 385/93, ha posto definitivamente fine al problema relativo alla arbitrarietà nella determinazione del tasso di interesse applicabile nei contratti bancari, tutelando la posizione del cliente quale parte contrattuale più debole, che altrimenti si trovava costretto a fronteggiare condizioni generali di contratto non indicanti il tasso di interesse debitore applicato all’apertura del rapporto, ma che invece rimandavano genericamente agli usi di piazza. Una clausola di tale specie non richiedeva – né richiede – neppure una separata approvazione, quale clausola vessatoria, non ricorrendo infatti alcuna delle ipotesi di cui all’art. 1341 c.c.
Prima dell’entrata in vigore della L. 154/92 si riteneva che le clausole bancarie facenti riferimento agli usi nel calcolo degli interessi, soddisfacessero appieno il precetto dell’art. 1284 3° comma c.c., il quale così dispone: “gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto, altrimenti sono dovuti nella misura legale”.
E infatti l’obbligo della forma scritta ad substantiam imposto dall’art. 1284 c.c. per la determinazione degli interessi eccedenti la misura legale non richiedeva – né richiede – necessariamente l’indicazione in cifre del tasso pattuito, potendo lo stesso obbligo essere soddisfatto per relationem mediante il richiamo ad elementi estranei che consentissero indirettamente l’individuazione del tasso di interesse applicabile (si veda: Cass. Civ. 12/11/1987 sent. n. 8335; Cass. Civ. 6/12/1988, sent. n. 6654). Ne conseguiva pertanto la legittimazione delle clausole che facessero riferimento agli usi di piazza per la determinazione del tasso di interesse.
Anche dopo l’entrata in vigore della L. 154/92 (e del Testo Unico Bancario) non sono mancati tentativi volti ad eludere il disposto di cui all’art. 4, cercando di convogliare di nuovo le clausole che facessero riferimento ad una prassi bancaria nell’art. 1284, 3° comma c.c. Tuttavia un’autorevole giurisprudenza ha posto fine anche a tale situazione, ritenendo che l’indicazione in cifre del tasso di interesse pattuito possa essere certo soddisfatto per relationem, con la necessità tuttavia di un richiamo per iscritto a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci al documento negoziale, obiettivamente individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale di interesse senza lasciarlo all’arbitrio del debitore o del creditore (Cass. Civ. 25/06/1994 sent. n. 6113; Cass. Civ. 3/02/1994 sent n. 1110).
Con particolare riferimento alle clausole contrattuali, che rimandino alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza per la determinazione del tasso di interesse applicabile, si sostiene oggi che le stesse non possano dirsi sufficientemente univoche. Infatti, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di determinazione del tasso convenzionale, il riferimento per relationem può considerarsi soddisfatto soltanto ove esistano vincolanti discipline sul saggio, fissate su scala nazionale con accordi di cartello e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante (Cass. Civ. 23/06/1998 n. 6247). Pertanto tale requisito non viene soddisfatto laddove l’Istituto di credito faccia riferimento unicamente a rilevazioni effettuate e diffuse dall’ABI e dalla Banca d’Italia, volte quest’ultime a recepire i tassi mediamente applicati dalle banche in virtù di un’autodisciplina liberamente adottata.
Tuttavia, il pagamento, ad opera del cliente, spontaneo e consapevole di interessi in misura ultralegale – quand’anche tale misura sia stata pattuita invalidamente secondo le modalità sopra esposte – potrebbe considerarsi adempimento di una obbligazione naturale e determinare quindi l’irripetibilità della somma così pagata.
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