Di Maura Castiglioni, Avvocato
3 aprile 2015
Ai sensi dell’art. 2033 c.c. chi ha eseguito un pagamento di un debito non dovuto (ad esempio nei confronti della banca, per anatocismo, interessi o commissioni indebite) ha diritto di richiedere ciò che ha pagato ed ha inoltre diritto agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure dal giorno della domanda, se chi lo ha ricevuto era in buona fede.
Tale ipotesi rientra nel c.d. indebito oggettivo (è il caso di chi esegua un pagamento di un debito che non esiste né per lui né per altri 1) e per esso trovano applicazione le norme di cui all’art. 1282 c.c. e all’art. 1224 c.c. in materia di interessi nei crediti e nelle obbligazioni pecuniarie, con conseguente produzione dei medesimi di pieno diritto.
Il pagamento degli interessi, così come dei frutti, non è però un automatismo conseguente alla richiesta del capitale, ma deve essere oggetto di specifica domanda da parte dell’avente diritto (ex multis: Cass. civ., sez. II, sent. n. 1087 del 18/01/2007; Cass. civ., sez. II, sent. n. 24858 del 25/11/2005; Cass. civ., sez. II, sent. n. 4423 del 04/03/2004).
L’art. 2033 c.c. distingue pertanto tra mala e buona fede dell’accipiens (chi abbia ricevuto il pagamento non dovuto) ai fini del computo della maturazione degli interessi.
In tema di indebito oggettivo, la buona fede dell’accipiens (chi ha eseguito il pagamento non dovuto) al momento del pagamento è presunta per principio generale, sicché grava sul solvens (colui che abbia effettuato il pagamento non dovuto) l’onere di dimostrare la malafede dell’accipiens all’atto della ricezione della somma non dovuta (Cassazione civile, sez. lav. sent n. 10815 del 08/05/2013), al fine del riconoscimento degli interessi con decorrenza dal giorno del pagamento stesso e non dalla data della domanda.
Pertanto spetta a colui che ha eseguito il pagamento indebito dimostrare che il soggetto che lo ha ricevuto era in malafede; solo in tale ipotesi avrà diritto agli interessi dalla data dell’avvenuto pagamento. Ciò in quanto si privilegia l’elemento psicologico sussistente alla data della riscossione della somma in capo a chi l’abbia ricevuta 2.
Il cliente che agisca nei confronti della banca per la ripetizione di somme versate in esecuzione di clausole contrattuali nulle, esercita evidentemente un’azione di ripetizione di indebito, in quanto pretende dalla banca la restituzione di importi corrisposti (ad esempio, a titolo di interessi illegittimamente capitalizzati, in virtù di un anatocismo vietato).
Così sul punto la giurisprudenza:
“L’azione di colui che agisce per la restituzione delle somme versate alla banca a titolo di interessi, in adempimento di clausole contrattuali asseritamente nulle, va regolata dai principi che regolano la domanda di ripetizione dell’indebito” (Tribunale di Roma, sez. X, sent. n. 3003 del 14/02/2011).
Il cliente che abbia avanzato espressa richiesta, quindi avrà diritto ad ottenere dalla banca anche gli interessi dalla data della domanda, oppure dal giorno del pagamento se dimostri la mala fede della banca.
La prova della mala fede è tuttavia relativamente difficile, atteso che almeno sino alla Delibera CICR del 9 febbraio 2000 – che ha previsto la validità della periodica capitalizzazione applicata dalla banca, se prevista con pari periodicità agli interessi passivi ed attivi – le banche addebitavano interessi capitalizzati in esecuzione di un uso assolutamente comune e diffuso nella prassi bancaria, che la giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto illegittimo, per la prima volta, soltanto con le sentenze n. 2374/1999 e n. 3096/1999.
Il comportamento delle banche è quindi da ritenere in buona fede almeno sino alle citate sentenze di cassazione dell’anno 1999 e, meglio ancora, sino alla Delibera CICR del 9 febbraio 2000, che ha consacrato le nuove modalità di anatocismo bancario; successivamente invece la buona o mala fede sarà da valutare caso per caso.
Anche in relazione ai contratti finanziari l’azione del cliente volta ad ottenere la ripetizione di importi versati in esecuzione di un contratto nullo è classificabile quale azione di ripetizione di indebito.
Il cliente quindi sarà tenuto a dimostrare la mala fede dell’intermediario finanziario, per ottenere gli interessi dalla data del pagamento indebito.
La giurisprudenza, in materia di contratti finanziari, ha riconosciuto il diritto di ripetizione in capo al cliente anche in relazione alle c.d. commissioni implicite, intendendosi con tale espressione la differenza tra il valore del contratto al momento della sua rilevazione e il valore di analogo contratto stipulato, a condizioni praticate sul mercato, con soggetti terzi.
Le commissioni implicite sono sostanzialmente il margine lordo a favore dell’intermediario finanziario. In particolare, in ordine alle commissioni implicite a vantaggio della banca in un contratto di swap, giurisprudenza di merito ha così deciso:
“In tema di contratti swap non par, che presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle controparti, deve riconoscersi a quest’ultima, ai sensi dell’art. 2033 c.c., il diritto alla ripetizione degli importi delle commissioni implicite, oltre al diritto agli interessi, al tasso legale, dal giorno di negoziazione del contratto al soddisfo, ove risulti dimostrata la consapevolezza della Banca circa la non debenza del pagamento delle commissioni, nonché la mancanza della causa giustificativa dei pagamenti stessi” (Tribunale di Pescara, sent. n. 1241, 11/10/2012).
NOTE:
1) L’indebito oggettivo, di cui si tratta nel presente articolo, è differente dall’indebito soggettivo (previsto all’art. 2036 c.c.), che si realizza nel caso di chi paghi un debito altrui ritenendosi debitore in base a un errore scusabile.
2) “Nella ipotesi di azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c., gli interessi e quanto dovuto per maggior danno decorrono dalla domanda giudiziale e non già dalla data del pagamento della somma indebita, dovendosi avere riguardo all’elemento psicologico esistente alla data di riscossione della somma, a meno che il creditore non provi la mala fede dell'”accipiens”, la cui buona fede si presume e può essere esclusa solo dalla prova della consapevolezza da parte dello stesso “accipiens” della insussistenza di un suo diritto al pagamento” (Corte d’Appello di Bari, sez. I, sent. n. 167 del 23/02/2009).
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