Di Maurizio Tidona, Avvocato
L’art. 1845 (Recesso dal contratto) c.c. prevede che, salvo patto contrario, la banca non può recedere dall’apertura di credito bancario prima della scadenza del termine, se non per giusta causa.
Il recesso sospende immediatamente l’utilizzazione del credito, ma la banca deve concedere un termine di almeno quindici giorni per la restituzione delle somme utilizzate e dei relativi accessori.
Se l’apertura di credito è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni.
La Corte di cassazione, con sentenza del 16 dicembre 2000, n. 14859, ha precisato che Il termine di giorni quindici previsto dall’art. 1845, comma 2, del codice civile per la restituzione, da parte del correntista debitore, delle somme utilizzate e dei relativi accessori, conseguentemente al recesso della banca dal contratto di apertura di credito, concreta un termine dilatorio che la legge prevede in favore del debitore medesimo, onde metterlo in condizione di reperire la somma necessaria per ripianare la propria esposizione verso l’istituto di credito.
Tale necessità, per altro, non trova ragion d’essere nelle ipotesi di compensazione di crediti, derivanti per la banca dall’utilizzo del fido, da parte del cliente, con debiti che, a diverso titolo, l’istituto abbia verso l’accreditato, posto che in tal caso il debitore non deve compiere alcuna operazione al fine di procurarsi le somme necessarie per estinguere la propria obbligazione, e che la compensazione si concretizza fra somme non scaturenti entrambe dal medesimo contratto di apertura di credito bancario, in relazione al quale viene operato il recesso.
Pertanto mentre il credito della banca deve considerarsi inesigibile fino allo spirare del termine minimo di quindici giorni, nell’ipotesi in cui l’estinzione dell’obbligazione verso la banca avvenga con pagamento in denaro, analoga funzione non può attribuirsi al termine in questione ove l’estinzione dell’obbligazione si concretizzi conseguentemente a una compensazione, che può quindi essere eseguita, senza rispetto del termine medesimo, allorché vengano in essere le condizioni previste dagli articoli 1242, comma 1, e 1243, comma 1, del codice civile.
Ciò sempre che la compensazione si concretizzi fra crediti, nascenti in favore della banca dal rapporto di conto corrente, con debiti dell’istituto verso il cliente, derivanti da rapporti autonomi rispetto al conto corrente stesso.
I termini che l’art. 1845 cod. civ. prevede per il preavviso di recesso e per il pagamento del dovuto, nonché la decadenza del termine che l’art. 1186 cod. civ. prevede per il caso di insolvenza del debitore o di diminuzione delle garanzie, essendo diretti a tutelare unicamente, rispettivamente, l’interesse del debitore e quello del creditore, possono essere comunque convenzionalmente derogati dalle parti (Cass. civ. Sez. I, sent. n. 9943 del 7 ottobre 1993) trattandosi di un rapporto di carattere patrimoniale tra privati (Cass. civ. Sez. I, sent. n. 9307 del 9 novembre 1994) anche in mancanza di giusta causa e con comunicazione addirittura verbale (Cass. civ. n. 8409 del 24 settembre 1996).
Comunque alla stregua del principio secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede non può escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari.
Tali connotati devono, cioè, contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate, se non a patto di svuotare le ragioni stesse per le quali un’apertura di credito viene normalmente convenuta. Così la Cassazione con la sentenza n. 4538 del 21 maggio 1997.
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