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Di Marco Solferini
Premessa
Le recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno reso il tema della capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici di forte attualità, benché già noto in dottrina fin dal 1999, anno in cui trova la sua consacrazione il nuovo orientamento interpretativo della Suprema Corte.
Oggi, soprattutto per il tramite dello strumento d’attualità rappresentato dai media, aumentano esponenzialmente il numero dei cittadini e degli istituti di credito che si trovano a dover fronteggiare codesto nuovo indirizzo. In uno scenario determinato dal crolli dei mercati denominati New Economy, dagli scandali finanziari e dal caro petrolio, gli istituti di credito domandano soprattutto chiarezza, colonne portanti del nostro sistema finanziario attraversano un momento di particolare incertezza nel merito della comprensione di una disciplina, quella bancaria, che, come poche altre è in grado di “toccare” molteplici ambiti.
Scopo del presente lavoro non è quello di appoggiare o meno gli istituti di credito e nemmeno rendere omaggio alle battaglie decennali compiute da associazioni di categoria, bensì offrire uno spunto di riflessione per capire cosa stia accadendo e dove, il futuro, è destinato a proiettarci.
Indice:
Il presente lavoro si compone di tre parti:
Prima parte: Analisi analitica della pretesa risarcitoria avanzata da parte attrice nei confronti degli istituti di credito. Riproposizione integrale di una sentenza tipo.
Seconda parte: Analisi dei contenuti differenziali fra “usi normativi” ed “usi negoziali” nell’interpretazione dell’art. 1283 e 1284 codice civile. Ricostruzione storica della Corte di Cassazione.
Conclusioni e valutazioni.
Prima parte:
Analisi analitica della pretesa risarcitoria avanzata da parte attrice nei confronti degli istituti di credito. Riproposizione integrale di una sentenza tipo.
Il recente orientamento ha messo in evidenza alcune peculiarità comuni, relative alle cause promosse nei confronti degli istituti di credito, con particolare rilievo alle motivazioni, che hanno determinato un cambio di orientamento da parte della Suprema Corte, nell’attuale status interpretativo. In sintesi possiamo riassumere i nodi cruciali definitori come segue; premesso che la ragione alla base di siffatte posizione presuppone un indagine approfondita che sarà svolta successivamente e che evidenzierà il modus pensandi della Corte di Cassazione, come giudice di legittimità, nel rendere la propria interpretazione autentica.
1. La mancata quanto tempestiva contestazione dell’estratto conto trasmesso, usualmente e nei modi prestabiliti, munito di espressa previsione che indichi al destinatario la possibilità ed i termini della contestazione, da una banca al cliente, rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo strettamente “contabile”, ma non per quanto attiene alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori, dai quali, sostanzialmente, le poste relative ai conti derivano.
2. Non può qualificarsi come “accettazione o confessione” la ripetuta approvazione degli estratti conto da parte del cliente, a fronte delle eccezioni di nullità di clausole contrattuali.
3. E’ nulla per indeterminatezza dell’oggetto, ex art. 1346 c.c., la clausola di applicazione della provvigione delle commissioni di massimo scoperto e delle spese di tenuta del conto.
4. E’ nulla la clausola di rinvio al c.d. “uso piazza” in quanto generico riferimento, per relazione, alle condizioni praticate usualmente dalla Banca sulla piazza, poichè discrezionale e non riferibile ad un accordo di tipo nazionale, sancito da espressa previsione legislativa in tal senso.
5. E’ nulla la clausola di applicazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi per violazione dell’art. 1283 c.c.
Un dato emerge subito con chiarezza: la centralità, nella presente ricostruzione dottrinale, del testo degli artt. 1283 e 1284 del codice civile.
Con più specifico riferimento al punto n.5 rileva produrre di seguito i seguenti orientamenti: “La capitalizzazione trimestrale degli interessi da parte della banca sui saldi di conto corente passivi per il cliente non costituisce un uso normativo, ma un uso negoziale” (Cass. 8442/02; 3096/93). “Si rivela nulla la previsione contenuta nei contratti di conto corrente bancario (di seguito denominato c.c.b.) avente ad oggetto la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, giacchè essa si basa su di un mero uso negoziale e non su di una vera e propria norma consuetudinaria ed interviene anteriormente alla scadenza degli interessi” (Cass. 2374/99).
Quanto sopra delinea un modus interpretativo della Corte dai contenuti schematici che passa in esame singole fattispecie per poi rendere di esse questione. E’ pertanto necessario affrontare in modo altrettanto analitico le singole parti in cui è scomponibile attraverso l’interpretazione attuale della materia in oggetto, ad opera della Corte di Cassazione.
Per quanto concerne la capitalizzazione degli interessi, considerata come uso negoziale e non normativo, sentenzia la Cass. 8442/02: “Dalla sentenza impugnata si ricava che l’art. 7 del contratto di conto corrente stabiliva che “gli interessi dovuti dal correntista all’azienda di credito, salvo patto diverso, si intendono determinati alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito sulla piazza e producono a loro volta interessi nella stessa misura”. La stessa sentenza ha dato atto che nel ricorso per decreto ingiuntivo sono stati indicati gli interessi “dovuti nella misura del 17% annuo”. Nel decreto ingiuntivo era stato ingiunto di pagare il capitale, “oltre gli interessi, nella misura pattuita e menzionata nel ricorso medesimo”. I ricorrenti sostengono che avevano denunciato la nullità di entrambe le clausole alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte. Queste le pretese, cui la Corte replica come segue:
“La censura è fondata.
L’art. 1284 cod. civ. stabilisce che il saggio degli interessi del 5% può essere determinato annualmente in misura diversa secondo apposito decreto ministeriale.
La legge 7 marzo 1996, n. 108, contenente disposizioni in materia di usura, stabilisce il limite entro il quale, nelle operazioni di credito, gli interessi sono sempre usurari (art. 2, u. co.).
Il combinato disposto di queste due norme ha segnato una inversione di tendenza della nozione monolitica del rapporto contrattuale, il quale deve sottostare alle sopravvenute regole imperative, che, invece, sono state ignorate dalla sentenza impugnata.
Infatti, la clausola, contenuta in un contratto di conto corrente stipulato anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina sull’usura e con la quale sono stati pattuiti interessi diventati superiori a quelli della soglia dell’usura, è priva di effetto quanto alla misura degli interessi anteriormente convenuta ed essi possono essere rinegoziati (Cass. 22 aprile 2000, n. 5286).
Ne deriva che, quando si sia verificata una fattispecie del genere di quella indicata, i punti da sciogliere sono i seguenti: individuare il tasso applicabile in luogo di quello non più utilizzabile; individuare il momento al quale riferire la valutazione circa il carattere usuraio degli interessi.
Prosegue la Corte sull’anatocismo trimestrale affermando che: “il problema da risolvere è quello della validità delle clausole contenute nei contratti di apertura di credito in conto corrente nei quali sia prevista la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi del cliente.
L’interpretazione della validità incondizionata di queste clausole in quanto derivanti da usi normativi non è condivisibile.
Infatti, le clausole sulla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi (anatocismo) hanno fonte nelle cosiddette norme bancarie uniformi, le quali non costituiscono uso normativo, ma uso negoziale e, quindi, non danno luogo al fenomeno dell’inserzione automatica del contratto ai sensi dell’art. 1374 cod. civ. (Cass. 17 novembre 2000, n. 14899; 22 aprile 2000, n. 5286; 11 novembre 1999, n. 12507; 30 marzo 1999, n. 3096; 16 marzo 1999, n. 2374).
Sull’applicazione dell’art. 1283 la Corte è precisa e lineare nel seguire il suo iter ragionandi quando afferma che “il ricorrente, deducendo l’erronea interpretazione dell’art. 1283 c.c., lamenta che sia stata ritenuta legittima l’applicazione dell’anatocismo, nella forma della capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati a suo carico. Secondo il ricorrente, anche in presenza di usi contrari, gli interessi anatocistici non sarebbero “in ogni caso” dovuti per un periodo superiore ai sei mesi, perché l’art. 1283 c.c. è norma imperativa e non dispositiva. Comunque, la prassi bancaria della capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici non sarebbe basata su un uso normativo, ma su un semplice uso negoziale, mancando nel cliente la convinzione di adempiere a un obbligo giuridico ed essendo invece diffusa la convinzione che si tratti di clausola vessatoria imposta dal cartello bancario.
Ha carattere logicamente preliminare il secondo profilo, in quanto se dovesse condividersi la tesi secondo cui l’uso bancario della capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente ha natura negoziale e non normativa, rimarrebbe assorbita la questione relativa ai limiti temporali di operatività dell’anatocismo.
L’art. 1283 c.c., in conformità con una tradizione legislativa risalente alla codificazione napoleonica, supera l’antico divieto, di origine cristiano – giustinianea, e ammette l’anatocismo a determinate condizioni.
La disposizione, che pacificamente è ritenuta di carattere imperativo e di natura eccezionale, contiene due norme: con la prima si limita la possibilità che interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi alla sola ipotesi di interessi dovuti per almeno un semestre, con la seconda la produzione di ulteriori interessi è subordinata alla proposizione di una domanda giudiziale (che ne determina anche la decorrenza) ovvero al perfezionamento di una convenzione successiva alla scadenza degli interessi stessi.
Le finalità della norma sono state identificate, da una parte, nella esigenza di prevenire il pericolo di fenomeni usurari, e, dall’altra, nell’intento di consentire al debitore di rendersi conto del rischio dei maggiori costi che comporta il protrarsi dell’inadempimento (onere della domanda giudiziale) e, comunque, di calcolare, al momento di sottoscrivere l’apposita convenzione, l’esatto ammontare del suo debito.
Richiedendo che l’apposita convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi, il legislatore mira anche ad evitare che l’accettazione della clausola anatocistica possa essere utilizzata come condizione che il debitore deve necessariamente accettare per potere accedere al credito.
Finalità, va anche detto, che lungi dall’apparire anacronistiche, per quanto riguarda gli intenti antiusurari, sono di grandissima attualità, perché la lotta all’usura ha trovato in tempi recenti nuove motivazioni e nuovi impulsi e ha portato all’approvazione della legge 7 marzo 1996, n. 108, che ha radicalmente innovato la disciplina preesistente, rendendo più agevole l’applicazione delle sanzioni penali e civili (con la modifica del secondo comma dell’art. 1815 c.c.) anche con l’introduzione di un meccanismo semplificato di accertamento della natura usuraria degli interessi, consistente nel mero superamento obiettivo di un tasso – soglia determinato dal Ministro del tesoro per ogni trimestre.
Ora, pur rimanendo nei limiti del tasso – soglia, le conseguenze economiche sono diverse a secondo che sulla somma capitale si applichino gli interessi semplici o quelli composti. È stato, infatti, osservato che, una somma di denaro concessa a mutuo al tasso annuo del cinque per cento si raddoppia in venti anni, mentre con la capitalizzazione degli interessi la stessa somma si raddoppia in circa quattordici anni”.
La Corte fissa pertanto due principi interpretativi dell’articolo 1283, l’uno di carattere storico e l’altro attuariale, pur non evidenziando formalmente questo distinguo esso emerge dalle reali intenzioni sottese all’andamento stesso della delucidazione che ripercorre tappe univoche cercando di essere il più esplicita e concordante possibile. E’ evidente che la Corte conosce il rischio di incertezza dubitativa che potrebbe originarsi qualora non fosse assolutamente esaustiva nel rendere le proprie conclusioni e difatti ella argomenta come segue nel proseguo: “Ora, con un orientamento giurisprudenziale che ha avuto inizio con la sentenza n. 6631 del 1981 (secondo la quale “nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, l’anatocismo trova generale applicazione, in quanto sia le banche sia i clienti chiedono e riconoscono – nel vario atteggiarsi dei singoli rapporti attivi e passivi che possono in concreto realizzarsi – come legittima la pretesa degli interessi da conteggiarsi alla scadenza non solo sull’originario importo della somma versata, ma sugli interessi da questo prodotti e ciò anche a prescindere dai requisiti richiesti dall’art. 1283 c.c.”), questa Corte ha ripetutamente affermato l’esistenza di uso normativo che consente di derogare, nei rapporti tra banche e clienti, secondo la stessa volontà del legislatore, ai limiti posti all’applicazione dell’anatocismo (v. in senso conforme cass. n. 5409/83, 4920/87, 3804/88, 2644/89, 7571/92, 9227/95, 3296/97, che si limitano a richiamare i precedenti, senza aggiungere proprie argomentazioni).
Ritiene tuttavia la Corte che il tradizionale orientamento debba essere rivisto, anche alla luce delle obiezioni sollevate da una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, in quanto l’esistenza di un uso normativo idoneo a derogare ai limiti di ammissibilità dell’anatocismo previsti dalla legge appare più oggetto di una affermazione, basata su un incontrollabile dato di comune esperienza, che di una convincente dimostrazione”.
La Corte, consapevole dell’importanza che la propria interpretazione riveste, si dimostra, correttamente, esaustiva e ripercorre con semplicità, ma precisione l’iter ragionandi. La ricostruzione storica è alle porte: “Gli “usi contrari”, ai quali il legislatore fa riferimento , sono i veri e propri usi normativi, di cui gli articoli 1, 4 e 8 delle disp. prel. al c.c che, secondo la consolidata nozione, consistono nella ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratti di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, e cioé conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento (opinio juris ac necessitatis).
Agli usi normativi, che costituiscono fonte di diritto obbiettivo, come è noto, si contrappongono gli usi negoziali, disciplinati dall’art. 1340 c.c., consistenti nella semplice reiterazione di comportamenti ad opera delle parti di un rapporto contrattuale, indipendentemente non solo dall’elemento psicologico, ma anche dalla ricorrenza del requisito della generalità. L’efficacia di detti usi é limitata alla creazione di un precetto del regolamento contrattuale, che si inserisce nel contratto salvo diversa volontà delle parti. Ancora diversi, infine, sono gli usi interpretativi (art. 1368 c.c.), consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo in cui è concluso il contratto o ha sede l’impresa, che non hanno funzione di integrazione del regolamento contrattuale, ma costituiscono soltanto uno strumento di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti.
Consegue da quanto osservato che, in materia, non hanno, quindi, alcun rilievo, in quanto tali (indipendente cioé dalla loro eventuale efficacia probatoria di un preesistente uso normativo conforme, di cui si tratterà oltre), le cosiddette norme bancarie uniformi predisposte dall’associazione di categoria (Associazione bancaria italiana – A.B.I.), che non hanno natura normativa, ma solo pattizia, nel senso che si tratta di proposte di condizioni generali di contratto indirizzate dall’associazione alle banche associate (la cui validità, peraltro, in relazione alla disciplina comunitaria e interna della concorrenza, è stata di recente, per alcuni aspetti non secondari, messa in discussione dalle autorità amministrative di vigilanza). Come tali, quindi, le c.d. norme bancarie uniformi assumono rilevanza nel singolo rapporto contrattuale con il cliente in quanto siano richiamate nel contratto stesso, secondo la disciplina dettata dagli articoli 1341 e 1342 c.c..
L’indagine alla quale la Corte è chiamata non può, inoltre, essere limitata a rilevare se nei rapporti tra banca e cliente esista un generico uso favorevole all’applicazione dell’anatocismo, essendo evidente che la specifica e puntuale disciplina limitativa legale può essere sostituita, per volontà del legislatore, solo da una normativa consuetudinaria altrettanto specifica e puntuale e non da una generica prassi derogatoria, che, proprio a causa della sua genericità, non potrebbe mai costituire fonte di diritto obbiettivo.
D’altra parte, se l’unico contenuto di una regola consuetudinaria fosse quello di ammettere l’anatocismo nei rapporti tra banca e cliente, si tratterebbe di una regola inutile, in quanto puramente ripetitiva della norma di legge, che, si ripete, non contiene un divieto assoluto, ma, all’opposto, afferma l’ammissibilità dell’anatocismo, sia pure nei limiti della stessa norma indicati.
Lo specifico oggetto di indagine è, pertanto, come esattamente propone il ricorrente, l’esistenza o non di una consuetudine in base al quale nei rapporti tra banca e cliente, gli interessi a carico del cliente possano essere capitalizzati (e quindi possano produrre ulteriori interessi) ogni trimestre.
Ora, dall’orientamento giurisprudenziale richiamato, non emerge che questa Corte abbia in precedenza affermato l’esistenza di una norma consuetudinaria di questa precisa portata, essendosi limitata ad affermare, sulla base di un dato di comune esperienza, che l’anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti.
Anzi, la dottrina formatasi nel vigore della disciplina anteriore all’entrata in vigore del nuovo codice, anche sulla base della giurisprudenza dell’epoca, affermava che gli usi normativi in materia commerciale, fatti salvi dall’art. 1232 del c.c. del 1865, erano nel senso che i conti correnti venivano chiusi ad ogni semestre e che al momento della chiusura potevano essere capitalizzati gli interessi scaduti. Inoltre, anche tra i primi e più autorevoli commentatori dell’art. 1283 del codice vigente, si affermava che l’uso contrario richiamato da detta disposizione prevedeva che divenisse produttivo di interessi solo il saldo annuale o semestrale del conto corrente.
Non v’é alcun elemento, quindi, che autorizzi a ritenere esistente, prima del 1942, un uso normativo che autorizzava la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito.
È, comunque, decisivo un ulteriore rilievo, puntualmente messo in evidenza da una parte della dottrina. La capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista in realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposti dall’ABI con effetto dal 1° gennaio 1952. La clausola sei, dopo avere affermato che in via normale i rapporti di dare e avere sono regolati annualmente, portando in conto (e cioé capitalizzando) gli interessi al 31 dicembre di ogni anno, disponeva che i conti che risultino anche saltuariamente debitori dovevano essere regolati invece, in via normale. ogni trimestre e con la stessa cadenza gli interessi scaduti producevano ulteriori interessi, al tasso da determinarsi tenendo conto delle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito operanti sulla piazza.
Non è stata mai accertata, invece, dalla Commissione speciale permanente presso il Ministero dell’industria, ai sensi del d. Lg.vo del C.p.S., 27 gennaio 1947, n. 152 (modificato con la legge 13 marzo 1950, n. 115) l’esistenza di uso normativo generale contenuto corrispondente alla clausola di cui si è detto. Tale uso generale è stato oggetto di accertamento e pubblicazioni in raccolte di natura meramente privata.
Per quanto riguarda, inoltre, l’accertamento di usi locali da parte di alcune Camere di commercio provinciali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 34, 39-40 del r.d. 20 settembre 1934, n. 2011 e dell’art. 2, del d. Lg.vo luogoten. 21 settembre 1944, n. 315, deve rilevarsi che si tratta di accertamenti avvenuti tutti in epoca successiva al 1952 e ciò esclude che, in concreto, possa essere attribuita alla indicata clausola delle c.d. norme bancarie uniformi in vigore dal 1952 una funzione probatoria di usi locali preesistenti. Peraltro, la presunzione derivante dall’inserimento nelle raccolte delle camere di commercio, di cui all’art. 9 delle disp. prel. al c.c. riguarda l’esistenza dell’uso e non anche la natura, normativa o negoziale. Anzi, in concreto, il rapporto temporale che è intercorso tra la predisposizione delle c.d. norme bancarie uniformi in tema di conti correnti di corrispondenza e le deliberazioni camerali con le quali sono stati accertati usi locali di contenuto corrispondente, può autorizzare la presunzione che l’accertamento dell’uso locale, sia conseguenza del rilievo di prassi negoziali conformi alle condizioni generali predisposte dall’ABI, prassi alle quali mai potrebbe riconoscersi efficacia di fonti di diritto obbiettivo, se non altro per l’evidente difetto dell’elemento soggettivo della consuetudine, potendo al massimo ritenersi che si possa trattare di clausole d’uso ai sensi dell’art. 1340 c.c.. A conferma della fondatezza di tale presunzione può ricordarsi che nella raccolta degli usi bancari curata dalla Camera di commercio di Firenze, edizione 1960, l’uso relativo alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente è espressamente definito come uso negoziale.
Infine, non appare irrilevante anche quanto può desumersi dalla concreta esperienza giurisprudenziale e dalla dottrina più volte richiamata, circa l’elemento psicologico che si accompagna al generalizzato inserimento nei concreti regolamenti contrattuali di clausole (la cui validità, alla stregua dell’art. 1283 c.c. e in mancanza di un uso contrario, non potrebbe certo essere data per scontata) conformi alle condizioni generali predisposte dall’ABI, che prevedono la capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente, mentre gli interessi a carico della banca sono capitalizzati annualmente. Dalla comune esperienza, infatti, emerge che l’inserimento di tali clausole è acconsentito da parte dei clienti non in quanto ritenute conformi a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile che fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Atteggiamento psicologico ben lontano da quella spontanea adesione a un precetto giuridico di cui, sostanzialmente, consiste l’opinio juris ac necessitatis, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente.
Su questo aspetto soggettivo, peraltro, l’orientamento di questa Corte non aveva fatto alcuna specifica considerazione, essendosi limitata ad osservare che sia le banche che i clienti chiedono e riconoscono come “legittima” la pretesa degli interessi anatocistici.
Ma tale osservazione non è rilevante, perché la legittimità della pretesa della corresponsione degli interessi anatocistici deriva direttamente dalla circostanza che il legislatore del ’42 non ha ripetuto l’antico divieto ma, al contrario, ha ritenuto ammissibile l’anatocismo, sia pure nei limiti segnati dall’art. 1283 c.c.. Il punto da decidere era, invece, di vedere se tali limiti erano superabili, per l’esistenza di una norma di diritto obbiettivo consuetudinario di contenuto diverso, mentre su tale aspetto il citato orientamento non esprime alcuna valutazione.
Sulla base dei rilievi formulati si deve, quindi, ritenere che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, in quanto basata su un uso negoziale, ma non su una vera e propria norma consuetudinaria è nulla, in quanto anteriore alla scadenza degli interessi.
Un ulteriore ragione di invalidità della clausola, quanto meno per i contratti bancari stipulati dopo l’entrata in vigore della legge, deriva inoltre dall’art. 4 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (trasfusa poi nel t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d. Lg. 1° settembre 1993, n. 385), che vieta le clausole contrattuali di rinvio agli usi”.
La sentenza sopra riportata si segnala, oltre che per la sua precisa ricostruzione dei fatti anche per alcuni passaggi che rileva siano messi in evidenza allo scopo di poter successivamente argomentare su di essi.
La Corte ha difatti sopra precisato che:
1. L’anatocismo trova generale applicazione nel campo delle relazioni tra istituti di credito e clienti.
2. La capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti a debito del cliente è stata prevista in realtà per la prima volta dalle c.d. norme bancarie uniformi in materia di conto corrente di corrispondenza e servizi connessi predisposti dall’ABI con effetto dal 1° gennaio 1952
3. L’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente.
Per quanto riguarda il ruolo delle N.B.U. è esplicita la Cass. 12507/99: “La clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale (ex art. 1340 c.c.) e non su un uso normativo (ex art. 1 ed 8 delle preleggi al c.c.), come esige l’art. 1283 c.c., laddove prevede che l’anatocismo (salve le ipotesi della domanda giudiziale e della convenzione successiva alla scadenza degli interessi) non possa ammettersi, “in mancanza di usi contrari”. L’inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle cosiddette norme bancarie uniformi, predisposte dall’A.B.I., non esclude la suddetta nullità, poichè a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali non quello di usi normativi.
La configurabilità di un uso normativo richiede due requisiti, l’uno – di natura oggettiva – consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento, l’altro – di natura soggettiva o psicologica – consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, di modo che venga a configurarsi una norma – sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai regolamenti – avente i caratteri della generalità e della astrattezza. L’esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi. (Nell’affermare tale principio la S.C. ha escluso la natura di uso normativo delle norme bancarie uniformi emanate dall’A.B.I., qualificandole come usi negoziali ex art. 1340 c.c., perchè imposte al cliente in base ad una prassi, sia pure ineludibile in quanto richiesta dall’istituto bancario mediante clausole uniformi e predisposte)”.
Sulla violazione delle norme sulla concorrenza ed il mercato e sulla contrarietà alla Costituzione ex art. 76 Cost. si esprime la Cass. 4490/02: “La legge 10 ottobre 1990, n. 287, sulla tutela della concorrenza e del mercato, si applica anche alle aziende e agli istituti di credito (arg. ex art 20 legge cit.).
L’art. 2, della stessa legge vieta, sancendone la nullità, “le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente la concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”, ricomprendendo espressamente tra tali intese quelle che detto risultato perseguano o determinino “attraverso attività consistenti nel … fissare direttamente o indirettamente prezzi d’acquisto o di vendita” dei rispettivi prodotti o servizi.
Eventuali accordi interbancari, diretti a fissare i tassi d’interesse attivi e passivi, rientrano certamente tra le “intese” considerate dalla norma in esame. Non vi è quindi dubbio che se, come si assume, tali accordi sono dotati di efficacia vincolante sull’intero territorio nazionale, debbono essere ritenuti nulli, in applicazione del principio sancito dal citato art. 2. E che a non diverse conclusioni deve pervenirsi quando i tassi non siano predeterminati in modo assolutamente rigido (e sia quindi lasciata alle singole banche la possibilità di determinarne concretamente l’ammontare entro margini predeterminati), tenuto conto dell’estrema latitudine del dettato normativo, che annovera tra le intese vietate anche quelle che (solo) indirettamente sono dirette a fissare i prezzi di acquisto o di vendita.
Va in ogni caso considerato che, con riferimento alle obbligazioni sorte a partire dal 9 luglio 1992, detta clausola era da ritenersi inoperante anche per altra (e più assorbente) ragione. In tale data era infatti entrata in vigore la legge 17 febbraio 1992, n. 154, sulla trasparenza bancaria, il cui art. 4, dopo aver stabilito che i contratti “devono indicare il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora” ha testualmente stabilito che le clausole di rinvio agli usi “sono nulle e si considerano non apposte”. Tale contenuto normativo è stato poi recepito dall’art. 117, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (recante il nuovo testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), il cui art. 161, sesto comma, ha abrogato la disposizione in esame.
Orbene è certo esatto che, in base ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, il giudizio circa la conformità (o meno) di un atto alla legge non può che essere riferito al momento in cui è stato posto in essere e che, conseguentemente, il sopravvenire di nuove norme imperative, non può incidere sulla validità dei contratti già conclusi (Cass. 21 febbraio 1995, n. 1877; 27 ottobre 1995, n. 11196). Le nuove norme, pur non potendo determinare la nullità di contratti già conclusi, impediscono tuttavia che essi possano produrre per l’avvenire ulteriori effetti in contrasto con quanto da esse stabilito (C. Cost. 27 giugno 1997, n. 204). Invero, il principio di irretroattività non impedisce che la legge nuova si applichi ai rapporti che, pur avendo avuto origine sotto il vigore della legge abrogata, siano destinati a durare ulteriormente e ne modifichi l’assetto con effetto ex nunc, vale a dire dal momento della sua entrata in vigore (Cass. 15 gennaio 1996, n. 267; 28 gennaio 1998, n. 841; 21 novembre 2000, n. 15204)”.
Sul vizio di illegittimità Costituzionale: “il legislatore era intervenuto stabilendo:
– da un lato, che le nuove modalità e criteri per la capitalizzazione degli interessi sarebbero stati fissati con delibera del Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio, assicurando in ogni caso la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori (art. 25, secondo comma, d.lgs. 342/99);
– dall’altro, che le clausole stipulate prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina sarebbero state valide ed efficaci fino a tale data (art. 25, terzo comma, d.lgs. 342/99).
Quest’ultima disposizione è stata però dichiarata costituzionalmente illegittima dal Giudice delle leggi, il quale ha ritenuto che la norma fosse viziata da eccesso di delega (sent. 425/2000).
Orbene, non vi è motivo di discostarsi dall’orientamento seguito da questa Corte con le citate sentenze 2374/99 e 3096/99, in quanto, come si è già osservato, la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi è fondata su un mero uso “negoziale”, come tale inidoneo a fondare la legittimità di una disciplina diversa e più favorevole (per il debitore) di quella dettata dall’art. 1283 c.c. L’infondatezza del mezzo di gravame è quindi evidente, dal momento che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima, quale che sia la natura del vizio accertato, cessa di avere efficacia (e non può quindi più essere applicata) dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136, primo comma, Cost.). Il venir meno di tale disposizione, eliminando l’eccezionale salvezza della validità e degli effetti delle clausole già stipulate, lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c”.
Come già in precedenza anche questa pronuncia si segnala per aver riferito che: “è certo esatto che, in base ai principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, il giudizio circa la conformità (o meno) di un atto alla legge non può che essere riferito al momento in cui è stato posto in essere e che, conseguentemente, il sopravvenire di nuove norme imperative, non può incidere sulla validità dei contratti già conclusi”.
Avendo quindi ricostruito, attraverso i termini della Corte di Cassazione l’interpretazione attuariale è necessario porre un particolare rilievo (ai fini delle successive deduzioni) su quanto segue:
Sulla convenzione relativa agli interessi anatocistici Cass. 6735/88 “deve risultare per iscritto, posteriore alla scadenza degli interessi, come richiesto dal combinato degli art. 1283 e 1284 c.c. e deve essere esplicita nel senso che dalla stessa deve risultare la piena consapevolezza del debitore in ordine all’assunzione del relativo obbligo”. Il disposto dell’art. 1284 c.c.: “il saggio di interessi legali è determinato in misura pari al 5% annuo (comma 1°), sul cui punto interviene anche il D.M. 11 dicembre 2001 il quale prevede che il saggio annuo di interessi legali è stato fissato nella misura del 3% con decorrenza dal 1° gennaio 2002. “gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto altrimenti sono dovuti nella misura legale (comma 4°)”.
Sulla sostituzione di diritto Cass. 280/97: “Risultano utilmente ricordate al riguardo la sentenza di questa Corte 15 gennaio 1962 n. 50 e 16 marzo 1987 n. 2690, le quali affermano con chiarezza che – poiché la scrittura concernente alla determinazione degli interessi superiori alla misura legale è costitutiva del relativo rapporto obbligatorio e non già dichiarativa dello stesso, deve ritenersi privo di rilevanza giuridica un riconoscimento che di esso il debitore faccia ex post.
L’interpretazione delle menzionate sentenze non è affatto contraddetta dalla sentenza 5 agosto 1991 n. 8561, secondo cui gli interessi superiori alla misura legale possono essere stabiliti, con la decorrenza dalla data in cui è sorta l’obbligazione principale, anche con convenzione successiva purché scritta ed anteriore alla data di scadenza del debito principale cui gli interessi ineriscono”. Fondatamente, però, si oppone dal ricorrente che la corte di appello, ritenendo non valida per difetto della prescritta forma ad substantiam (v. sent. 13 febbraio 1968 n. 487) la convenzione sugli interessi ultralegali, avrebbe dovuto riconoscere gli interessi legali.
Come già ritenuto da questa Corte, tale convenzione, in difetto dell’atto scritto, è colpita da nullità solo per una parte (corrispondente alla differenza fra il tasso legale e quello convenuto), con riferimento alla quale l’ordinamento interviene, non per espungerla dal regolamento pattizio senza riconnettervi alcun effetto, bensì per sostituirla con una disciplina legale (v. sent.6 dicembre 1969 n. 3896).
Ciò si evince, del resto, dal chiaro disposto dell’art. 1284, ult. comma, c.c., per quale, se ecceda la misura legale, l’interesse convenzionale è dovuto nella sola misura legale, ove l’eccedenza non risulti da atto scritto, richiesto a pena di nullità.
Al riguardo questa Corte ha più volte affermato che la promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, non costituisce autonoma fonte di obbligazione, ma ha soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, venendo ad operarsi, in forza dell’art. 1988 c.c. – nella cui previsione rientrano anche le dichiarazioni titolate – un’astrazione meramente processuale dalla causa, comportante l’inversione dell’onere della prova, ossia l’esonero del destinatario della promessa dall’onere di provare la causa o il rapporto fondamentale, restando a carico del promittente l’onere di provare l’inesistenza, l’invalidità o l’estinzione di detto rapporto, sia esso menzionato oppure no, nella promessa unilaterale di pagamento (v. sent. 9 settembre 1991 n. 9480; 8 maggio 1984 n. 2800; 5 gennaio 1966 n. 116; 14 giugno 1966 n. 1539)”.
Sulla vacuità del c.d. uso piazza, Cass. 13823/02: “È sufficiente, sul punto il richiamo ai precedenti giurisprudenziali di questa Corte, tra le tante, alle sentenze n. 6247 del 1998 e n. 5675 del 2001 secondo le quali “ai fini dell’assolvimento” (imposto dalla norma dell’art. 1284 c.c.)” dell’obbligo di determinazione del tasso convenzionale, il riferimento “per relationem” può considerarsi sufficiente soltanto se esistano vincolanti discipline del saggio, fissate su scala nazionale con accordi di cartello, e non già ove tali accordi contengano diverse tipologie di tassi o, addirittura, non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante”, restando in ogni caso escluso la validità di un richiamo generico al tasso praticato su piazza.
La clausola pattizia è nulla in tali casi, a nulla rilevando la mancata contestazione degli estratti conto periodici, circostanza questa che se può valere ai fini di una presunzione di conformità al criterio adottato dalla banca del concreto ammontare degli interessi di volta in volta computato dalla banca (v. Cass. n. 4605 del 1996), non può invece valere a salvare la clausola pattizia dalla nullità suddetta, che può essere fatta valere dal correntista in ogni tempo, prescindendo dalle prescrizioni dell’art. 1832 c.c., atteso che è in gioco non già corretta tenuta del conto bensì la validità e l’efficacia, nel caso di specie, della clausola pattizia che costituisce la fonte del credito della banca relativo agli interessi ultralegali iscritti nel conto (Cass. 6548 del 2001). Nemmeno salva dalla nullità la clausola in questione la circostanza che i tassi applicati dalla Banca fossero stabiliti uniformemente su tutto il territorio nazionale: la circostanza è irrilevante a fronte delle ragioni che determinano la nullità della clausola relativa alla pattuizione di interessi legali in difetto della predeterminazione del tasso secondo criteri e discipline generali e generalmente vincolanti”.
Seconda parte:
Analisi delle conseguenze immediate derivanti dalla nuova interpretazione. Posizioni contrastanti in giurisprudenza.
Nella prima parte sono stati riportati punto per punto i tratti principali comuni alla richiesta risarcitoria che dal cliente è avanzata nei riguardi dell’istituto di credito. Nel proseguo si constatano gli effetti che il nuovo orientamento produce sulle precedenti pronunce, la cui applicazione è chiara nella sentenza Cass. 9465/00 nella quale la S.C. cassa una sentenza di merito che aveva invece applicato differenti quanto precedenti orientamenti, dal disposto si coglie appieno il dato delle ripercussioni che la nuova dottrina esprime: “La Corte di merito, con riferimento a quello che era il contenuto del secondo motivo di appello, ha affermato che, accertata la validità e l’efficacia del patto scritto che determinava la misura degli interessi con riferimento ai tassi medi praticati su piazza, riliquidati anno per anno secondo le indicazioni della banca d’Italia trasfuse nell’acquisito prospetto che la Corte dichiara di avere direttamente verificato, “tanto basta per ritenere soddisfatta, avuto riguardo al grado di univocità della fonte richiamata, l’esigenza riflettente la concreta determinabilità dell’indicato tasso convenzionale”. E ha correttamente rilevato che, in considerazione della irretroattività dell’art. 4 della legge 17 febbraio 1992 n. 154, il quale ha dettato le norme regolatrici delle clausole contrattuali relative alla misura degli interessi bancari con la previsione della nullità di quelle difformi, “prima della entrata in vigore di detta disciplina è stato ritenuto lecito ed efficace dalla giurisprudenza il patto scritto tra banca e cliente che determinava la misura degli interessi con riferimento a quelli praticati su piazza”.
Non è certamente applicabile, ratione temporis, alla fattispecie in esame il disposto del terzo comma dell’art. 4 della L. 17 febbraio 1992 n. 154 secondo cui “le clausole contrattuali di rinvio agli usi sono nulle e si considerano non apposte”. Ma il contenuto della censura investe un altro problema: quello -che ovviamente si pone proprio se ed in quanto la clausola si sottragga in se stessa alla nullità comminata dalla citata disposizione- della corretta applicazione di principi giuridici che vengono in considerazione in sede di verifica della sussistenza o meno dei requisiti necessari per l’assolvimento dell’obbligo della forma scritta sancito per la validità della pattuizione di interessi ultralegali.
La giurisprudenza di legittimità, pur riconoscendo che tale elemento formale non postula necessariamente che il documento contrattuale contenga l’indicazione numerica del tasso convenuto ma può essere integrato anche per relationem, precisa peraltro che in questo caso occorre che le parti facciano riferimento, espresso in forma scritta, a criteri prestabiliti e ad elementi anche estrinseci al documento negoziale oggettivamente individuabili che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale: a tal fine, il rinvio, contenuto in un contratto bancario, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito su piazza, può essere considerato sufficiente ove esistano fonti vincolanti disciplinatrici del saggio in ambito nazionale (accordi di cartello), ma non anche quando in tali accordi siano contemplate diverse tipologie di tassi o, addirittura, essi non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante: in quest’ultimo caso il giudice del merito non può sottrarsi all’accertamento in concreto del grado di univocità della fonte richiamata al fine della verifica della idoneità di essa alla individuazione della previsione alla quale le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi e, quindi a una oggettiva determinazione del tasso di interesse o quanto meno a una sicura determinabilità controllabile pur nell’ambito di una variabilità dei tassi nel tempo, tale da resistere a eventuali modificazioni unilaterali e discrezionali, da parte del la banca (v. in tal senso, Cass. 12 gennaio 2000 n. 2206, e i precedenti ivi menzionati).
In assenza di siffatto accertamento, l’affermazione da parte del giudice del merito della validità della convenzione si risolve in falsa applicazione dell’art. 1284 C.C. a una fattispecie non ricompresa nell’area di applicazione della norma. La suindicata esigenza non può ritenersi soddisfatta dalla riferita espressione della ratio decidendi della Corte territoriale nella quale, a ben guardare, l’asserita verifica con esito positivo del requisito della determinabilità a priori del saggio convenzionale degli interessi è solo apoditticamente affermata, e resta priva di motivazione, non potendosi di essa individuare la giustificazione razionale nella conoscenza a posteriori acquisita dal giudice e dal giudice ritenuta attendibile in considerazione del l’autorevolezza della fonte ufficiale compulsata. Il primo motivo in esame merita quindi accoglimento.
Coerente con quanto sopra la Corte rimanda il gravame al giudice di merito cui esplicita il principio al quale dovrà attenersi: “In tale nuovo esame il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: “la validità della determinazione convenzionale solo per relationem del saggio degli interessi ultralegali postula che le parti facciano riferimento, espresso in forma scritta, a criteri prestabiliti e ad elementi, anche estrinseci al documento negoziale purché oggettivamente individuabili, che consentano la concreta determinazione del tasso convenzionale: in particolare, il rinvio, contenuto in un contratto bancario, alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito su piazza, può essere considerato sufficiente ove esistano fonti vincolanti disciplinatrici del saggio in ambito nazionale, ma non anche quando in tali accordi siano contemplate diverse tipologie di tassi o, addirittura, essi non costituiscano più un parametro centralizzato e vincolante: in quest’ultimo caso assume rilevanza in concreto il grado di univocità della fonte richiamata al fine della verifica della idoneità di essa alla individuazione della previsione alla quale le parti abbiano potuto effettivamente riferirsi e quindi a una oggettiva determinazione del tasso di interesse o quanto meno a una sicura determinabilità controllabile pur nell’ambito di una variabilità dei tassi nel tempo”.
Sulla stessa linea Cass. 11042/97 , come pure Cass. 4696/98.
Per tutto quanto sopra riportato emerge con evidenza, dopo aver già lungamento argomentato sul contenuto degli art. 1283 e 1284, un riferimento agli “usi” come pure all’art. 117 T.U.B.
In materia di usi è necessario fare chiarezza in modo tale da poter agevolmente distinguere quali e quanti sono, onde evitare una indebita commistione dei medesimi che non facilità l’interpretazione univoca, parto inequivoco di codesta nuova tendenza interpretativa della Suprema Corte. In primo luogo devono essere citati gli usi normativi che costituiscono fonte del diritto obiettivo i quali com’è noto in giurisprudenza e in dottrina si contrappongono agli usi negoziali disciplinati dall’art. 1340 c.c. consistenti nella semplice reiterazione di comportamenti ad opera delle parti, di un rapporto contrattuale, indipendentemente non solo dall’elemento psicologico, ma anche dalla ricorrenza del requisito della generalità. L’efficacia di detti usi è limitata dalla creazione di un precetto del regolamento contrattuale che si inserisce nel contratto salva diversa volontà delle parti. Ancora distinti sono invece gli usi interpretativi (art. 1368 c.c.) consistenti nelle pratiche generalmente seguite nel luogo in cui è concluso il contratto o la sede dell’impresa, che non hanno funzione di integrazione del regolamento contrattuale, ma costituiscono soltanto uno strumento di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti. Le norme bancarie uniformi non hanno valore normativo, ma solo pattizio.
La clausola contrattuale di rinvio agli usi è da considerarsi come espressamente nulla in forza di due previsioni dispositive, l’una di carattere generale quale certamente è l’art. 4, comma 3° L.154/92 E l’altra previsione, di tipo specifico, contenuta nell’art. 117 del D.Lgs 385/93 (c.d. Testo Unico Bancario) .
Il presupposto fondante di un richiamo esplicito ad un uso negoziale non può che segnare un evidente collegamento al dato economico, giacchè è chiaro a tutti che il negozio ha radici evidentemente riconducibili in parte alla certezza, ma con un particolare rilievo del dato economicamente apprezzabile. Richiamare perciò un uso negoziale e non normativo significa chiamare in causa un comportamento che non può prescindere dall’atteggiamento economico sul quale, del resto è evidente a tutti, si fonda il rapporto banca/cliente. In gioco c’è la certezza e la trasparenza delle transazioni e ancor di più la solidità del sistema economico. Emerge con estrema chiarezza come il comma 6° del citato art. 117 faccia espresso riferimento solo alle clausole economiche .
Le norme bancarie uniformi sono riconducibili alle condizioni generali di contratto con due precisazioni : 1) I modelli predisposti dall’Associazione Bancaria Italiana costituiscono delle mere proposte di condizioni generali e tali possono qualificarsi soltanto gli schemi negoziali in concreto utilizzati dalle singole banche e non quelli predisposti da un organo di categoria. 2) Una volta che le N.B.U. sono adottate appaiono più riconducibili alla tecnica propria della contrattazione su modulo o formulario data la trasposizione degli stessi contenuti effettuata dalla Banca stessa. In forza di tale qualificazione deriva l’assoggettare le N.B.U. alla disciplina generale sul contratto ex. Art. 1341, 1342, 1370 come pure quella sulle clausole abusive con la L. 52/1996
L’art. 117 chiarisce che il testo contrattuale fornisca, fin dall’origine, un quadro chiaro ed esaustivo del disciplinare economico, indicando specificamente “il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora”. In aggiunta a ciò va sottolineato che in caso di mancanza o di nullità delle clausole contrattuali che determinano gli interessi questi sono determinati sul tasso nominale dei buoni del tesoro emessi nei 12 mesi precedenti la conclusione del contratto.
Un altro dato oggettivamente apprezzabile è rappresentato dal fatto che il cambio di rotta della Cassazione non è stato immediato bensì articolato nel corso di un decennio a mente del quale non ha sempre e comunque necessariamente influenzato i giudizi di merito, difatti non sono mancate posizioni contrastanti che legittimavano il fenomeno anatocistico a capitalizzazione trimestrale. Scrive il Trib. di Roma, sent. 14/04/1999: “per quanto concerne il motivo vertente sull’applicata capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, va rammentato che la giurisprudenza di legittimità ha finora reputato sussistere in materia usi conformi, costanti e considerati necessari che consentirebbero l’anatocismo ex art. 1283 c.c. in quanto identificati in comportamenti mantenuti dalla generalità degli interessati con il convincimento di adempiere a un precetto di diritto e ravvisabili nelle relazioni tra istituti di credito e clienti, in tutte le operazioni di dare e avere, posto che sia le banche che i clienti chiedono e riconoscono come legittima la pretesa di nuovi interessi sugli interessi scaduti (Cass. 9227/95).
Peraltro questo giudice reputa di dover prescindere da siffatto indirizzo giurisprudenziale e osserva che le parti, in forza dell’art. 1831 c.c. hanno la facoltà di richiedere l’immediata chiusura del conto con la liquidazione del saldo (nel termine stabilito dal contratto o dagli usi o, in mancanza, al termine di ogni semestre) e che ciascuna di esse, ex art. 1833 c.c. ha il diritto di recedere dal contratto di conto corrente a tempo indeterminato a ogni chiusura di conto (salvo il preavviso pattuito).
In siffatta situazione, la mancata richiesta di pagamento del saldo al verificarsi della chiusura del conto pone il saldo medesimo quale prima rimessa di un nuovo conto (con rinnovazione del contratto a tempo indeterminato: art. 1823, 2° comma c.c.) sulla quale, a mente dell’art. 1825 c.c. decorrono gli interessi convenzionali o, in mancanza, quelli legali. Consegue che la capitalizzazione degli interessi a favore della banca si pone come naturale conseguenza della periodica chiusura del conto corrente, tenuto conto della facoltà della banca di recedere ad nutum del relativo contratto contratto a tempo indeterminato” sulla scorta di tale deduzione il tribunale prosegue affermando che: “anche se il convincimento generalizzato che induce il cliente della banca ad accettare come un obbligo giuridico la pattuizione della capitalizzazione degli interessi trova la sua radice nella stessa disciplina degli istituti contrattuali considerati, si ritiene che sia ininfluente la sussistenza o meno di un uso normativo in tal senso e che si possa prescindere dall’accertamento di un tale convincimento”. Conclude il tribunale affrontando il periodo della capitalizzazione trimestrale degli interessi: “il fatto poi che la capitalizzazione degli interessi venga prevista in favore del cliente sulle poste in attivo verso la banca, generalmente per chiusure contabili annuali, non può che costituire un elemento rafforzativo di tale inquadramento giuridico, a nulla rilevando che per le situazioni debitorie le chiusure periodiche siano stabilite in tempi più ravvicinati, trimestrali o semestrali, dal momento che nel contemporaneo degli opposti interessi le parti avranno voluto considerare il costo del servizio e del rischio d’impresa dell’istituto di credito, non rinvenendosi carattere di inderogabilità nemmeno nel disposto dell’art. 1831c.c né carattere di esclusività al richiamo effettuato dall’art. 1857 circa le norme applicabili alle operazioni bancarie regolate in conto corrente che non per questo sottrae il rapporto di conto corrente alla disciplina sistematica che gli è propria”.
La pronuncia non è isolata, sulla stessa linea sempre il Trib di Roma con sentenza 26/05/1999 che pur conoscendo il recente nuovo orientamento della Corte di Cassazione non ritiene di doversi ad esso uniformare, sostiene il tribunale: “il via generale è possibile affermare che la possibilità della preventiva pattuizione dei termini di chiusura del conto ex. Art. 1831 c.c. e l’equiparazione del saldo alla prima rimessa di un nuovo conto con decorrenza su di esso degli interessi nella misura stabilita, costituisce elemento attinente alla struttura stessa del conto corrente dettata non solo per costituire la disponibilità dei saldi nei conti correnti ordinari ma anche per rendere possibile, nell’interesse sopratutto del correntista bancario, la normale capitalizzazione annuale degli interessi creditori; ciò nelle ipotesi, largamente più diffuse di conto correnti attivi.
Diversamente, la capitalizzazione degli interessi (annuali) degli stessi conti creditori dovrebbe a sua volta considerarsi illegittima e le parti dovrebbero pattuire ex novo, a scadenza annuale o semestrale, la capitalizzazione degli interessi già maturati. Risponde quindi ad evidenti esigenze di correttezza che le chiusure contabili siano anticipatamente negoziate e che la manutenzione di nuovi interessi sui saldi debitori e creditori sia anticipatamente prevista senza onere per le parti di dover ad ogni scadenza pattuire la capitalizzazione degli interessi maturati. Di quì la sicura applicabilità dell’art. 1831 c.c. ai conti correnti bancari con eccezione anche per questi al principio della posteriorità delle pattuizioni anatocistiche” Prosegue il disposto della sentenza affermando che, con riferimento all’art. 1815: “alla luce di tale previsione il divieto di anatocismo costituisce norma riferita non alla misura dell’interesse applicabile, ma alle modalità della sua indicazione, essendo indifferente, dal primo punto di vista che lo stesso sia determinato con riferimento ad un determinato periodo di capitalizzazione piuttosto che a un altro”
Conclusioni e valutazioni
Il trapasso interpretativo da un principio, consolidatosi in giurisprudenza e reiteratamente avvalorato dalle pronunce dei giudici di circa un ventennio, caposaldo di innumerevoli sentenze della Cassazione fra le quali si possono citare a titolo di ricostruzione esegetica: 6631/81; 54091/83; 4920/87; 3804/88; 2444/89; 7575/92; 3296/97; 12675/98 cede il passo, in un periodo molto più breve, a una distinta interpretazione che, come in precedenza, provocando un effetto domino è reiterato e avvalorato con sempre maggior frequenza, nelle sentenze: 12597/99; 6263/01; 1281/02; 4490/02; 4498/02; 8442/02; 2593/03; 12222/03; 13739/03, stabilendo il precetto tale per cui gli “usi contrari”, idonei ex art. 1283 c.c. a derogare il principio ivi stabilito sono solo gli usi normativi in senso tecnico; dovendosi desumere, conseguentemente, la nullità delle clausole bancarie anatocistiche, la cui stipulazione risponde ad un uso meramente negoziale ed incorre quindi nel divieto di cui al citato articolo 1283.
Il dettato della Corte quindi è confermato con esplicito vigore, teso senz’altro a stabilire una rotta univoca d’interpretazione, tale per cui si riafferma il principio di una distinzione netta fra gli usi negoziali ex art. 1340 e gli usi normativi di cui invece agli art. 1 e 8 disposizioni preliminari del codice civile i quali, a differenza dei primi, consistono nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento accompagnato dalla convinzione che tale debba considerarsi come giuridicamente obbligatorio in quanto legittimato da una norma già esistente o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (c.d. opinio juris ac necessitatis).
A differenza di quanto sottolineato invece, la clausola anatocistica è stata nel tempo accettata ed assimilata nei comportamenti dei clienti non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti, ma in quanto compresa nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva, al tempo stesso, presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari. La mezzaria che separa l’atteggiamento giuridicamente accettato dal cliente in quanto psicologicamente convinto dello stesso, fra l’altro, è fortemente infettata dall’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti alla banca e interessi dovuti al cliente.
La Cassazione pertanto accoglie un impostazione che da un dato oggettivo, certo ed apprezzabile, perchè riveniente tanto dalla prassi quanto dalla storia, indagata come testimone occulto del passato evolutivo del nostro sistema del credito, si sposta a una considerazione del tutto psicologica relativa all’utenza. Difatti ella sottolinea che la convinzione degli utenti a che tale indirizzo di capitalizzazione trimestrale fosse legittimato da una norma di legge è venuto progressivamente meno esattamente come, nel corso del tempo, in forza di quello stesso mutamento di prospettiva nel processo di scienza e consapevolezza, la stessa Cassazione ha cambiato il proprio punto di vista.
Giacchè il sistema bancario italiano non è creatura morta, fossile immoto al trascorrere degli eventi bensì un essere senziente, frutto di realtà multiformi e parto del pluralismo, a volte irrazionale, che ha accompagnato l’Italia dal dopo guerra, ai giorni d’oggi, non può non cogliersi un dato temporale che segna una forte discrasia nell’impostazione così come prospettata, laddove la Cassazione, che per un ventennio ha seguito una determinata linea di indirizzo ne ha controvertito i contenuti in poco meno di 5 anni. Alcuni interrogativi si pongono come spontanei per meglio comprendere il significato e la portata di codesto orientamento, nell’interesse della certezza del diritto; la consapevolezza di un sistema delle fonti di investimento altamente diversificato ha forse influito su codesto annoso argomento al punto tale da far si che una visione, per molti versi auspicata, della tipologia “risparmio” abbia indotto la Suprema Corte a constatate eventi oggettivamente apprezzabili, solo se osservati nell’ottica d’insieme di un mondo, quello finanziario, che sempre più spesso evidenzia le falle maturate nel ventennio, dagli anni 80 al nuovo secolo? Potremmo noi assurgere a parallelo dominate l’interpretazione fornita dalla non ultima riforma sostanziale del pubblico risparmio in conseguenza del crollo dei mercati denominati New Economy e dei crack finanziari di stampo tipicamente nostrano? Se rispondessimo di no a codesti interrogativi negheremmo quanto la stessa Cassazione afferma laddove sottolinea che il consumatore, in questo caso cliente, ha maturato una rinnovata consapevolezza dei limiti e dei costi di un sistema che evidentemente sente come ingiusto. Ma il giudice di legittimità non interpreta i malumori più o meno condivisi, dovendosi invece attenere esclusivamente ai fatti, oggettivamente certi. L’interrogativo sorge pertanto del tutto spontaneo laddove lo stesso cliente, che lamenta la mancanza di un sentore normativo certo e acquisito nel corso degli anni, è il medesimo consumatore che sottoscrive, sempre con la banca, un profilo dell’investitore tale definito come prudente, moderato o aggressivo. Potremmo prescindere da tutto ciò o per estensione di questo ritrovato sentore della stessa utenza assumere che al mutamento di ogni assunto da parte della clientela si debba pervenire ad una ipotesi di mancanza di opinio juris?
Naturalmente la risposta non può che essere negativa giacchè l’opposto significherebbe negare di per se stessa la capacita consuetudinale di un uso di assumere e in talune occasioni divenire, norma di legge. Non v’è dubbio che il rilievo della Corte sia meritevole di unanime plauso, per la straordinaria dote progressista e garantista espressa nel considerare una fattispecie attuale e carica di evidenti riscontri giuridici, ma nel contempo negare che il “sistema” in precedenza instauratosi, prima cioè di quella riforma datata 1993 con il Testo Unico Bancario, non avesse esso stesso acquisito informazioni a sufficienza per statuire, con forza di legge, altro se non le impressioni e il sentore condiviso di quella stessa clientela, svuoterebbe di contenuti l’opera del legislatore che cerca di dotare il “sistema” di quei meccanismi che gli sono necessari per la sopravvivenza. Dobbiamo infatti rammentare che la stipula del contratto in sè considerato con l’organismo bancario non è limitato a un “dare ed avere”, bensì ad un anamnesi antecedente, del rischio/opportunità. Su questo presupposto è stato realizzato l’importante trattato di Basilea sul credito e oggi, a distanza di anni, proprio perché questo stesso “sistema” maturato grazie agli interventi legislativi occorsi si è adeguato, si sta per introdurre un nuovo parametro, Basilea 2, che difatti considera nuove voci statistiche, circostanze e opportunità. Può tutto questo essere ridotto ad una mera consapevolezza ritrovata del cliente e quindi ad una semplice per quanto complessa, nei fatti, separazione fra uso normativo e negoziale? Ad opinione di chi scrive se così fosse potremmo noi oggi cercare disperatamente di voler curare un presunto male, con una cura che potrebbe rivelarsi peggiore del male stesso.
Del resto proseguendo nella lettura del testo della sentenza resa il 4 novembre 2004 la stessa Suprema Corte non smentisce l’importanza del dato storico volendolo difatti quantificare e considerare laddove ella attesta che: “l’evoluzione del quadro normativo impressa dalla giurisprudenza e dalla legislazione degli anni 90 in direzione della valorizzazione della buona fede come clausola di protezione del contraente più debole, della tutela specifica del consumatore, della garanzia della trasparenza bancaria, della disciplina dell’usura ha innegabilmente avuto il suo peso nel determinare la ribellione del cliente relativamente a prassi negoziali, come quella della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti alle banche, risolvendosi in una non più tollerabile sperequazione di trattamento imposta dal contraente forte in danno della controparte più debole. Ma ciò non vuol dire che, in precedenza, prassi siffatte fossero percepite come conformi a jus e che sulla base di tale convinzione venissero accettate dai clienti”.
Tuttavia una siffatta impostazione non è nemmeno in grado di negare in modo sufficientemente plausibile che questo non avvenisse o almeno non si verificasse in parte. Occorrerebbe pertanto quantificare in che misura tale sperequazione fosse sentita come non necessariamente giustificata dal punto di vista giuridico, ma nemmeno come contra jus. Quantificando codesto passaggio, donandogli cioè quel valore che la stessa pretesa di parte attrice nella maggior parte dei casi cita, nel ricorso alla citazione contro gli istituti bancari, apostrofando in sostanza un sistema del “prendere o lasciare”, dandogli cioè quell’inquadramento logico che lo contenga e nel medesimo tempo lo assimili all’unicum del sistema di gestione del credito, allora otterremo una risposta certa che esprima non solo il malessere, ma anche l’esatta quantificazione della necessità, a monte, che giustificava, nel concorso di norme ex. 1340 e 1283, 1284 del c.c., l’accettazione della capitalizzazione trimestrale degli interessi. Ancora una volta la Cassazione stessa conferma codesto irrinunciabile sentore storico affermando: “la ricognizione correttiva deve avere una portata naturaliter retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze, che erroneamente presupponendola, l’avrebbero con ciò stesso creata”.
Del resto i mercati di categoria sono spesso associati a delle definizioni altamente condivise dalle utenze che testimoniano da un lato il sentore di queste nei confronti di una categoria e dall’altro un malessere condiviso, o forse meglio lo si potrebbe definire come un dubbio. Non è infatti sbagliato pensare che nel mondo finanziario d’oltreoceano nel mentre dei copiosi rialzi che investivano la c.d. New Economy c’era chi sottolineava la celebre frase: “who watch the guardians?” domandandosi per l’appunto chi controllasse i guardiani. Anche nel nostro piccolo Bel Paese ci sono frasi e leggende metropolitane, una delle quali è stata per decenni ripetuta con assidua frequenza: “le banche e le assicurazioni sono ladri legalizzati”. La frase, in sé offensiva, certamente testimonia un malessere nei confronti di questi istituti, cosa che la stessa Cassazione ripete nelle sue sentenze, ma aggiunge il termine “legalizzati” proprio perché ottemperando a quanto veniva richiesto, il cliente aveva la certezza di eseguire una prassi normativa, di qui il termine “legalizzati”. Difficile smentire questo sentore, fra l’altro ripreso da innumerevoli programmi televisivi che nel corso degli anni si sono occupati dei tassi c.d. usurai.
Osservando quindi una parte delle fondamenta del costrutto logico che la pretesa di parte attrice solitamente fa valere nei confronti dell’istituto di credito, emergono con chiarezza tre punti salienti:
1. La dicitura riportata nel contratto che regola il rapporto di apertura di credito con affidamento mediante scoperto su c/c, laddove esso prevede: “gli interessi dovuti al correntista, producono a loro volta interessi nella stessa misura. I conti che risultano, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente” è nulla e improduttiva di ogni effetto per violazione del disposto di cui agli artt. 1283 e 1418 c.c.
2. La convenzione anatocistica, preventiva e trimestrale potrebbe essere consentita ai sensi dell’art. 1283 c.c. solo in presenza di un uso normativo che espressamente preveda la preventiva pattuizione della capitalizzazione trimestrale degli interessi scaduti, ma questo non si verifica perchè non esiste tale uso normativo anteriore nè posteriore all’entrata in vigore del vigente codice del 1942.
3. Le norme bancarie uniformi predisposte da un associazione di categoria non hanno forza normativa.
Il punto n.3 è pacifico e confermato da eminente dottrina e giurisprudenza .
Nel merito degli altri due punti qualche perplessità per il giudizio espresso emerge dalla lettura dei rilievi poco sopra esposti e in particolare dalla scarsa plausibilità nel voler considerare una “prassi come una tendenza”, giacchè sappiamo che la stessa, per sua natura, dovrebbe affermarsi come temporanea e nulla vieta di considerare il sentimento “a contrari” cioè quello di avulsione nei confronti del sistema stesso, anche e sopratutto alla luce delle recenti posizioni, non ultime riguardanti il mercato delle polizze assicurative e dei prodotti bancari. In realtà non esistono prove oggettivamente apprezzabili che affermino, al di là di ogni ragionevole dubbio, che non sia questa fase una tedenza che si inserisce/oppone alla prassi, similarmente ad una parentesi pirandelliana. Se fosse tendenza pertanto, potrebbe creare commistione di valori e sopratutto di interessi. Se pertanto, indagando l’evoluzione del sistema bancario nostrano volessimo sposare l’ipotesi che non si tratta di prassi, tendenza e nemmeno uso normativo, come potremmo ammettere che ciò si risolva in un mero uso negoziale? Del resto la giurisprudenza stessa si è dimostrata analitica nel considerare la fattispecie in esame, come testimonia la sentenza 352/2004 del trib. di Lecce datata 7 gennaio 2004, quando prevede che: “la giurisprudenza della Suprema Corte ha valutato la sussistenza della mutatio libelli ogni qual volta vi sia mutazione della causa petendi con l’introduzione di fatti costitutivi completamente diversi da quelli originari (Cass. 1610/82)” con ciò il tribunale ha respinto i motivi presentati da parte attrice con memoria giudicati come tesi ad allargare il “thema decidendum” mutando la domanda iniziale. Quanto riportato può testimoniare, in parte, quanto sopra evidenziato, circa la fallacità del rapporto tendenza/prassi e di contro uso negoziale/uso normativo?
Il c.d. riferimento agli interessi uso piazza viene pertanto definitivamente apostrofato, giusto il disposto della S.C. come del tutto illegittimo poichè esso “non consente la determinazione di un tasso d’interesse basato su di un criterio prestabilito e riferito ad elementi estrinseci al documento negoziale si da assicurare la determinazione del saggio di interesse in modo oggettivo ed al di fuori della discrezionalità rimessa all’arbitrio del creditore (Cass. 9080/02; 4490/02) logica e susseguente determinazione da parte del tribunale è: che nessun tasso di interessi ultralegale può ritenersi convenuto dalle parti sicchè l’unico tasso sul quale la Banca opposta può conteggiare gli interessi deve ritenersi quello legale”. Il testo in esame si segnala, fra l’altro, perchè, come in una partita a scacchi, la ricostruzione dei fatti è analitica e conseguenziale, esattamente come già rilevato nell’anamnesi effettuata in apertura del presente parere delle precedenti sentenze.
Pertanto da un lato l’assenza di un uso normativo che legittimi la capitalizzazione trimestrale e dall’altro la vacuità dei contenuti della c.d. clausola uso piazza, fanno si che al tasso originario sia applicato quello legale, con conseguente sconto degli interessi trimestralmente, indebitamente, percepiti e anatocistici.
Ben inteso che il fenomeno in quanto tale non è giudicato come illegittimo, solo che in assenza di una giustificazione giuridicamente accettabile, l’uso che ne è stato fatto viene censurato.
In forza di quanto evidenziato in precedenza è impossibile non argomentare come segue, per trarre delle conclusioni che siano anche un interrogativo ponderato sul quale riflettere.
L’interpretazione data dalla Corte di Cassazione si segnala per l’importante passaggio da un uso normativo ad uno negoziale, con ciò dovendosi evidenziare che i contenuti di quest’ultimo sono a carattere inevitabilmente economici sicché una compiuta ed esaustiva analisi delle pretese risarcitorie di parte attrice non può prescindere da una valutazione dell’atteggiamento che, a monte, ha originato il rapporto, giacchè pare del tutto evidente che la constatazione dell’elemento psicologico storico è direttamente in grado di influire sull’interpretazione attuale di alcune norme del c.c. Come già in precedenza rilevato, il negozio ha una componente economica.
Il principio alla base del rapporto fra banca/cliente si estrinseca nella “richiesta”, conseguenza di una “necessità” da parte del secondo e rivolta al primo. Tecnicamente lo stimolo nasce e si evolve dal sentimento di “necessità” la quale a sua volta altro non è se non la sommatoria di una serie di input e output provenienti da un “sistema” all’interno del quale il soggetto agisce. Potremmo definirlo come sistema familiare, lavorativo, sociale e via discorrendo, ciascuno di questi ha la capacità di originare una necessità. La stessa tuttavia trova forma e sostanza “dopo” il contatto con l’istituto di credito quando in esso avviene la “quantificazione”.
Il cliente si presenta con uno stimolo, testimoniato da un esigenza cui vorrebbe far fronte, ma i termini, il perimetro, come pure la disciplina interna vengono definiti in ambito bancario, ove tale operazione trova la propria giustificazione nella casistica e nel dato oggettivizzante del “fornire un servizio” esattamente come nella celebre favola degli orafi già studiata dai giovani apprendisti del diritto il ruolo della sede fisica, identificabile come filiale è, in questo frangente, quello di quantificare e come tale trasformare la necessità del cliente. Alla base c’è la storia della legislazione bancaria italiana fino all’odierna disciplina del promotore finanziario e della tutela dei servizi a 360°.
Richiesta alla banca, quindi, come sintesi di questo percorso, ma in sè considerata non può essere apostrofata come identica, indipendentemente dai soggetti che la presentano; subentrano su ciascun cliente dei fattori in grado di influenzare il comportamento soggettivo, tali sono:
1. La territorialità, intesa come area di sviluppo a quantificazione del reddito procapite.
2. Lo sviluppo dell’area, l’ambiente e la politica ivi presente (sviluppo, ambiente, politica: SAP).
3. Il mercato di riferimento, inteso come area di implementazione, laddove vi sono zone prevalentemente agricole con un implementazione orientata allo sviluppo dell’economia agricola ed altre per esempio industriali, è un dato di fatto che in entrambe si sviluppano diverse richieste, sia per quanto riguarda le forme di finanziamento, basti ipotizzare ad esempio la formula “mezzanine” sia per quel che attiene al reinvestimento, essendoci diverse culture di clientela.
Il cliente è accomunato quindi dal fatto di veicolare il sentimento della necessità, ma è inevitabilmente influenzato dai fattori sopra esposti.
In particolare il mercato.
La banca come istituto focalizza la propria attenzione fortemente in base alle attese, frutto della pianificazione e ovviamente delle aspettative. Inutile sottolineare che un attività bancaria presente nella regione Basilicata sarà differente, per impostazione e carattere, rispetto a quella in Piemonte e ciò non in deroga alle norme di legge, ma proprio perchè il tratto negoziale è distinto.
Differenti pianificazioni.
Difformi attese.
Negozi inevitabilmente distinti.
Quale altro stimolo se non quello giuridico di rilevanza sarebbe in grado di affermare in tutte le aree di mercato un determinato meccanismo? Se sposassimo la teoria prospettata dalla Corte di Cassazione tale per cui trattasi di clausole ad uso negoziale dovremmo ammettere che non ci sono state diversità di mercato, territorio, ambiente e quant’altro in oltre 50 anni su tutta la penisola. Dovremmo ammettere che tutti e comunque, malgrado le evidenti diversità della clientela, infinitamente ipotizzabili e la storia della legge sportelli in Italia, non abbiano minimamente influito perchè sempre tutti erano impegnati in un uso negoziale? Se così fosse tale non sarebbe potuto durare che pochi anni, solo la penetrante convinzione opinio jus ac necessitati poteva permeare tutto il territorio nazionale e portare ad unire le diversità, a congiungere le necessità, sotto un unica alea di quantificazione della richiesta del cliente.
Domandiamoci inoltre perchè mai una banca dovrebbe legittimamente scegliere di non essere competitiva su di un mercato laddove è evidente che la stringente prassi prospettata dalla parte attrice, quando si manifesta come vincolista, arrecherebbe un danno all’istituto stesso sotto il profilo della diversificazione. Ogni area infatti presenta delle alternative che sono conosciute e sfruttate dal cliente, il principio stesso della diversificazione ponderata degli impieghi del risparmiatore legittima codesta impostazione. La richiesta di attivare un conto corrente è una manifestazione di questa disponibilità e della diversificazione stessa (di quì, fra l’altro, l’interpretazione legata alla possibilità di chiudere il c.c. che abbiamo prima rilevato come sinonimo di tale garanzia), se la banca stessa strangolasse il proprio cliente non solo creerebbe il rischio di non ottenere quanto concesso (fattispecie nota come crediti in sofferenza che incidono nella presentazione del bilancio bancario), ma altresì precluderebbe lo sviluppo del mercato, affossando la diversificazione, che è fonte di guadagno, perchè apre a nuovi scenari. L’ipostazione univoca e vincolistica trova evidenti limiti di fronte proprio all’assunto che trattasi di un uso negoziale perchè giammai un istituto di credito concluderebbe un contratto che sia pregiudizievole per i propri interessi e lo farebbe non una, ma innumerevoli migliaia di volte sul territorio nazionale.
Le interpretazioni sopra svolte non negano che vi sia stato un uso negoziale, ma che lo stesso non necessariamente debba essere valutato come un antitesi insopportabile alla coesistenza di un uso normativo. In un momento in cui emerge una lacuna, testimoniata da un ritardo cui il sistema stesso, per effetto di una domanda, in un mercato caratterizzato non dall’essere chiuso bensì aperto, supplisce affiancando un uso che è negoziale laddove colma la mancanza della sutura normativa. Immancabilmente le due fattispecie non potranno essere considerate l’una l’alternativa dell’altra bensì una conseguenza. In quest’ottica attribuire all’uso negoziale il significato che la Corte pare essere orientata a seguire, per il futuro, potrebbe statuire un precedente assai fuorviante per quanti condividessero l’ipotesi che trattasi di un addebito mosso al sistema, attraverso lo strumento dell’uso negoziale, per attualizzarlo, senza prima aver sufficientemente elaborato i contenuti di questa interpretazione.
Un ulteriore rilievo non può essere taciuto con riferimento alla storia stessa, più recente, del nostro sistema bancario nel merito soprattutto della legislazione in materia. Prima del T.U.B. spesso si è assistito alla presenza di un vero e proprio arcipelago normativo che agiva soprattutto ex post, al verificarsi cioè di una lacuna da colmare. L’avere l’A.B.I. predisposto, attraverso le norme bancarie uniformi, un modello inviato a tutti gli istituti di credito rientra necessariamente fra le attività cui l’Associazione è necessariamente tenuta nei confronti dei propri associati. Oggi potremmo, per esempio, scaricare dal sito delle associazioni di categoria commerciali i modelli dei contratti di agenzia; non esiste motivo alcuno di censura per il fatto che nel 1952 le norma bancarie uniformi prevedessero una siffatta metodologia, anche e soprattutto perché era chiara la difficoltà legislativa in materia. Il mercato aveva una marcia in più rispetto a una legislazione che tardava a cogliere alcuni presupposti fondanti il mercato bancario. Per esemplificazione si pensi che solo nel 1977 la Dir. 780 qualificava l’ente creditizio definendolo: “un impresa la cui attività consiste nel ricevere depositi o altri fondi rimborsabili e nel concedere prestiti per conto proprio”. Principio che trovava conferma nel 1989 con la Dir. 646 e che trovava definitivo accoglimento con il D.Lgs 481/92 e quindi nell’art. 11 del T.U.B. con riferimento al concetto di raccolta fra il pubblico. La percussione temporale è evidentemente, dilatata nel tempo e lo stesso dicasi nel dopo guerra.
Negare il fondamento della necessità che le N.B.U. dovevano assolvere all’epoca sarebbe come chiedere ai banchieri di incrociare le braccia per un ventennio in attesa di una legislazione adeguata. Rammentiamoci che il mercato bancario è competitivo. Ciò a significare che se qualcuno non fa, c’è qualcun altro che cercherà di fare.
Se oggi, si verificasse il medesimo intento di ieri, certo non potremmo che attribuire agli usi, valore negoziale, ma il dubbio, alla luce della ricostruzione della storia del diritto bancario italiano e di provenienza europea permane, con riferimento agli anni 50.
Ad ulteriore riprova della difficoltà storica si propone un ulteriore scansione per periodi:
1. 1936-38: Le aziende di credito non possono costituirsi ne iniziare le operazioni se non ne abbiano ottenuto l’autorizzazione dalla Banca d’Italia (due autorizzazioni, l’una per la costituzione e l’altra per iniziare l’attività).
2. Delibera Cicr 1966: Blocco generalizzato all’ingresso dei nuovi operatori bancari.
3. Delibera Cicr 1971: Eccezione per i piccoli comuni e le casse c.d. artigianali.
4. Dir. Comunitaria 780/1977: Gli Stati non possono negare l’autorizzazione in vista di una razionalizzazione del sistema bancario.
5. 15 dicembre 1989: l’autorizzazione è rilasciata in base ai requisiti fissati dal D.P.R. 350/1985.
Anche in questo caso emerge come la storia del sistema bancario italiano sia stata tutt’altro che un lungo fiume tranquillo, idea che invece trapela dalla lettura di alcune sentenze, ove pare che l’istituto di credito sia stato, sempre e comunque, un contraente forte, insensibile a qualsivoglia tendenza. Ma così non è e si pensi a quando sono state introdotte le leggi sul bilancio, dapprima con Dir. 660/1978 e successivamente con Dir. 349/1983 (la prima con riferimento ai conti annuali delle società e la seconda in merito al bilancio consolidato) ambedue le quali necessitavano di un ulteriore coordinamento giunto con la Dir. 635/1986 i cui contenuti furono la delega attuativa operata dal Governo con il D.Lgs 87/1992. Il risultato era che le banche dovevano in generale garantire un informazione orientata alla tutela, oltre che dei socie e dei terzi, dei creditori depositanti, dei debitori e del pubblico in genere perseguendo condizioni di equità concorrenziale e di compatibilità dei bilanci all’interno della comunità economica europea . Fra l’altro l’art. 157 del T.U. prevede che le banche “si attengono alle disposizioni che la Banca d’Italia emana relativamente alle forme tecniche” le quali possono essere agevolmente ricondotte a: bilancio, segnalazioni su situazioni patrimoniali e situazione dei conti.
La lettura della ricostruzione storica del dettato legislativo giustifica pienamente l’intervento dell’Abi, non volendo alle N.B.U. attribuire quel valore di legge che necessariamente non può competergli, ma facendo sì che in un clima di incertezza legislativa per anni abbiano avuto, data la loro riproduzione su vasta scala, unica soluzione alternativa all’ingessatura del sistema intero, un adesione psicologica che difficilmente potrà non essere qualificata come non normativa, ma semplicemente negoziale e ciò proprio perché c’era incertezza e lacuna normativa. Cosa poteva colmarle se non il sentore di aderire ad un norma di legge? Interrogativo legittimo la cui risposta necessiterebbe di essere elaborata alla luce di tutto quanto sopra espresso.
La ragion d’essere del pragmatismo ci impone di riflettere attentamente sulle conseguenze che una mozione è in grado di originare, prima di dargli un seguito apparentemente incontrollato, onde evitare che da un sassolino gettato nello stagno si propaghino una serie di onde anomale in grado di spazzare via proprio quelle certezze che si vorrebbero invece tutelare.
Un ringraziamento speciale alla Professoressa Avvocato Elena Paolini, presso il cui studio svolgo l’attività di praticantato e al Professor Renzo Costi per essere stato il mio relatore durante la tesi di laurea in Diritto dei Mercati Finanziari con titolo: L’attività di collocamento dei prodotti finanziari.
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