© Tutti i diritti riservati. Vietata la ripubblicazione cartacea ed in internet senza una espressa autorizzazione scritta. È consentito il link diretto a questo documento.
Di Stefano Stefanelli
17 luglio 2000
Tesi di Laurea in Diritto Bancario
Università degli Studi di Foggia
Facoltà di Giurisprudenza
Anno Accademico 2002 – 2003
I N D I C E
Premessa
Capitolo 1
Quadro evolutivo del rapporto banca-impresa
Rapporto banca-impresa: una ricognizione storico- dottrinale
1.1.1 Il quadro storico
1.1.2 Il quadro teorico
Altre possibili relazioni banca-impresa: ”Da una fisiologica simbiosi ad una mostruosa fratellanza siamese?”
1.2.1 Sinossi delle prospettive di sviluppo del rapporto banca-impresa
1.3 L’azione di vigilanza prudenziale e sua evoluzione secondo la proposta “Basilea 2”
1.3.1 Casi di rischio operativo: illegittime segnalazioni alla Centrale dei rischi
Capitolo 2
Incidenza del nuovo sistema bancario sui rapporti banca-impresa
Trasformazioni nel sistema creditizio italiano
Aggregati bancari quale nuovo ostacolo nell’accesso al credito delle PMI
Ruolo della contiguità territoriale tra banca e impresa nel processo di finanziamento
2.4 Difficoltà nelle relazioni creditizie e possibili correttivi
Capitolo 3
Responsabilità della banca per danni causati al cliente ed ai terzi nell’esercizio dell’attività
Evoluzione del soggetto banca: da una posizione privilegiata ad una attribuzione di responsabilità
Il ruolo della banca nell’insolvenza delle imprese
Un chiarimento sul concetto di insolvenza
Responsabilità della banca per revoca ex abrupto dell’affidamento
3.4.1 Profili di responsabilità “contrattuale” della banca per revoca della concessione di fido
3.5 Responsabilità della banca per concessione “abusiva” del credito
3.5.1Profili di responsabilità “extracontrattuale” per comportamenti abusivi della banca
Capitolo 4
Capacità riorganizzative del sistema bancario volte alla ripresa delle attività imprenditoriali del debitore
4.1 Crisi d’impresa e soluzioni stragiudiziali
4.2 Il ruolo delle banche nei risanamenti aziendali
Conclusioni
Giurisprudenza
Bibliografia
“I banchieri agevolano il pagamento delle merci allo stesso modo in cui le ferrovie ne agevolano il trasporto. Ma, in più, essi trasferiscono da soggetto a soggetto il controllo del capitale, e l’aiuto che in tal modo danno agli uomini nuovi con scarso capitale proprio è forse la forza più importante che contrasti la moderna tendenza alla concentrazione della produzione nelle mani di poche grosse imprese.”
Alfred Marshall
The Economics of Industry, London, 1879
PREMESSA
Cerchiamo di considerare il rapporto tra banche e imprese, con particolare attenzione a quello oggi intercorrente tra sistema creditizio e sistema delle piccole e medie imprese (PMI), in specie nell’area dell’Italia del Sud.
Questa particolare attenzione rivolta alle PMI non rappresenta più un caso limite, neanche dal lato rischio visto che il sistema creditizio si è spesso “incagliato” assecondando incautamente dei piani di sviluppo di imprese tutt’altro che piccole o medie. La dimensione delle imprese italiane è essenzialmente medio-piccola, vi è una “frammentazione del nostro tessuto produttivo”, infatti dal censimento del 2001 si rileva che “le unità locali nell’industria impiegano in media 6,3 addetti.” A seguito della decimazione non recente di grandi imprese o di presunte tali e con l’esplodere della crisi della Fiat che ha resa evidente la parabola declinante della grande impresa, le PMI vanno considerate come il fattore (95% degli esercizi industriali) che contribuisce in Italia in modo rilevante alla determinazione del prodotto industriale nazionale.
La tesi si propone di valutare il comportamento del sistema bancario nei momenti di crisi aziendali, quando maggiormente si renderebbe necessario un intervento tempestivo per compensare quella che, se individuata e gestita con professionalità e buona fede da
entrambi i soggetti interessati, potrebbe essere solo una “fase di discontinuità” dell’impresa.
È evidente che trovandoci di fronte ad un rapporto bilaterale che, come tutti i rapporti sociali, nasce e si alimenta dalla comunicazione intersoggettiva, cercheremo di inquadrare nel capitolo 1, con riferimenti storico-dottrinali, la nascita e lo sviluppo di questo rapporto cercando anche di individuare se e come si instaurano asimmetrie informative e a chi sono ascrivibili o, per essere più franchi, si cercherà di capire chi e perché ha “barato” all’apertura del gioco (concessione del credito) oppure nel corso della partita (gestione del rapporto creditizio).
Alla luce della forte e, per tradizione, consolidata relazione di dipendenza dal sistema bancario da parte delle imprese si potrebbe facilmente ravvisare in queste ultime il “soggetto debole” da tutelare rispetto al “soggetto banca” in posizione privilegiata, tuttavia oggi questa condizione non è più da inquadrare in modo così netto e il rapporto banca-impresa verrà riconsiderato nel capitolo 2, innanzitutto, in base ai mutamenti normativi, ad alto tasso civilistico, intervenuti nell’attività bancaria e creditizia, in secondo luogo tenendo conto della crescente tendenza al miglioramento del livello culturale e del modus operandi nell’imprenditore, e, infine considerando la prossima applicazione del New Basel Capital Accord (Basilea 2), una vera e propria rivoluzione nel credito, che ridefinirà i confini dei rapporti di relazione informativa ed operativa tra banca e impresa; quindi, per tutto questo si auspica un cambiamento d’ordine relazionale più che transazionale tra banche e PMI. Per definire trasparente e corretto un tale rapporto occorre, da un lato, una assoluta responsabilità imprenditoriale e manageriale delle banche e, dall’altro, una attenzione maggiore da parte degli imprenditori delle nuove generazioni verso la funzione finanziaria che è importante quanto quella commerciale, organizzativa e tecnologica nella conduzione dell’impresa.
Tuttavia, considerata l’estrema variabilità delle situazioni su accennate e in attesa che vengano recepiti e assimilati i consistenti mutamenti di scena d’ordine normativo e comportamentale che potranno contribuire al contenimento di rischi ma non certo alla loro radicale eliminazione, nel capitolo 3 si esaminerà lo stato della valutazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di riconducibilità nell’area dell’illecito sia contrattuale sia extracontrattuale delle ipotesi limite concernenti la revoca ex abrupto dell’affidamento e la concessione abusiva di credito da parte delle banche nei confronti di imprese in crisi. Per completare infine il quadro si considereranno, nel capitolo 4, altri rapporti creditizi tra banche e imprese in crisi e l’eventuale funzione del sistema bancario nei risanamenti aziendali.
1
Quadro evolutivo del rapporto banca-impresa
1.1 Rapporto banca-impresa: una ricognizione storico-dottrinale
In Italia, in linea di massima, il rapporto tra piccole-medie imprese e banche nasce geneticamente tarato per una intrinseca debolezza della ossatura finanziaria delle PMI che fenotipicamente si manifesta in due caratteristiche: la prima, d’ordine strutturale, è la sottocapitalizzazione delle imprese che induce queste a ricorrere in modo contraddittorio ad una pluralità di fonti di finanziamento ai fini di contenere lo squilibrio verso l’indebitamento bancario a breve termine, causa frequente di conflittualità con gli istituti di credito; il secondo fattore, d’ordine acquisito per il limitato accesso al mercato dei capitali, è il ruolo di supplenza finanziaria assunto dalle banche che comporta una allocazione del credito non corrispondente alle esigenze delle imprese di minori dimensioni e non collegata ad una possibile partnership, ad una collaborazione in funzione di possibili e sostenibili prospettive di sviluppo dell’impresa, bensì connessa soltanto alla illusione di poter in qualsiasi momento recuperare il proprio credito revocando il fido ai primi segni di crisi dell’impresa.
A partire da questa istantanea c’è da chiedersi se vi siano state modifiche nel rapporto tra banche ed imprese o se, pure sotto altre forme, le relazioni tra datori e prenditori di fondi siano rimaste essenzialmente invariate; in definitiva se, anche ai fini di un contenimento dei rischi e delle responsabilità ascrivibili ai soggetti interessati, sia possibile intravedere uno spostamento dell’attività bancaria dal lending tradizionale all’offerta di servizi di corporate finance .
1.1.1 Il quadro storico
La relazione banca-impresa, per ragioni storiche connesse alla stessa struttura della economia italiana, ha assunto sin dalla nascita della nazione un carattere vitale a motivo di un sistema produttivo fondato sulla piccola impresa e di un sistema bancario radicato localmente; a questo si aggiunga che la congenita carenza, almeno fino alla seconda metà del ‘900, di un mercato finanziario per offrire alternative al semplice prestito bancario ha reso ancor più non allentabile questo legame. A conferma di ciò, anche “…per le imprese di notevoli dimensioni nel periodo 1992-2001, [si conferma] l’esistenza di una forte relazione di dipendenza dal sistema bancario.”
Una qualche parvenza di mutamento nella domanda di servizi finanziari da parte delle imprese maggiori si è notata a partire dagli anni ‘980 e va posta in connessione con la crescita del mercato mobiliare e con la spinta della pressione competitiva estera. Nei piani strategici delle grandi imprese si è riservata nuova attenzione alla funzione finanza assurta ai livelli di importanza della produzione, del marketing, etc.; perciò si è assistito, da un lato al ricorso a specialisti esterni per acquisire il know how carente all’interno dell’impresa, mentre, dall’altro lato, per compensare questo inizio di disintermediazione, si ponevano in atto da parte del sistema bancario delle nuove strategie per soddisfare i fabbisogni dei grandi clienti.
Se prendiamo in considerazione le PMI si constata, purtroppo, che “la finanza è stata, ed è tuttora, un ostacolo da superare piuttosto che un’opportunità da cogliere.” Gli imprenditori minori sono ancorati a sistemi tradizionali di finanziamento e temono il mercato azionario. Le ragioni di questo atteggiamento sono da ricollegare a vari fattori: a) l’assetto proprietario e il modello di gestione della PMI si presentano ancora fortemente dominati dalla struttura e dai legami della famiglia fondatrice; b) una bassa propensione al ricorso al mercato dei capitali e all’intervento di intermediari specializzati per proteggere il modello di controllo di tipo familiare; c) oneri contabili e complessità fiscale. D’altronde, le banche non brillano, e continuano a non brillare, per innovazioni e incentivi, e il colloquio con le imprese non riesce, a volte, neanche ad avviarsi; è significativa una recente indagine del maggio 2003 volta a valutare la risposta del sistema bancario a proposte nuove (start up) di imprenditori ricadenti sia nell’old economy che nella new economy. Su otto istituti interpellati solo tre si son detti disponibili al finanziamento, e dei tre progetti accolti due appartengono alla old economy. Lo “scalpore” di questo risultato non deriva dal fatto che le banche interpellate siano localizzate al Sud bensì che si trovino in aree produttive altamente sviluppate quali Milano e il suo hinterland! In pratica di fronte ad una nuova idea d’impresa, la banca assume un atteggiamento che ci richiama alla mente le parole rivolte da Pio VII agli emissari di Napoleone Bonaparte: “non dobbiamo, non possiamo, non vogliamo.”
Quindi, al presente, i rapporti tra PMI ed intermediari finanziari continuano a non essere collaborativi e si rifanno ad operazioni tradizionali quali apertura di credito o anticipazione in conto corrente, crediti che prescindono totalmente dallo scopo e che per essere statuiti dal codice civile come operazioni garantite (artt.1842 ss. cod. civ.) inducono la banca ad un totale disinteresse per le vicende dell’impresa. L’imprenditore, una volta imparata la lezione che il finanziamento, pur nelle sue varie forme tecniche è un bene alla pari di tanti altri e che lo si può ottenere da una pluralità di fornitori tra loro intercambiabili, ritiene che la uscita di sicurezza dallo stagnante singolo rapporto banca-impresa sia il ricorso alla prassi dei pluriaffidamenti in conto corrente. La prassi dei fidi multipli risulta congeniale anche per le banche per una funzione, da un lato, “precauzionale” perché polverizza i rischi tra più finanziatori e, dall’altro, di contenimento dei costi informativi e dei costi di recupero crediti. Tuttavia, tale fenomeno come effetto collaterale provoca un inquinamento del rapporto banca-impresa, infatti non rende possibile un rapporto organico tra banca e clienti con conseguente notevole riduzione della essenziale capacità della prima a monitorare i secondi. Ed ecco bella e pronta un’altra particolarità tipicamente italiana, cioè “una imprenditoria che” –con un indebitamento bancario pari al 70% circa dei debiti finanziari– “non è mai riuscita ad allacciare con i propri finanziatori un legame stretto e costruttivo.” Comunque, un avvicinamento tra responsabili delle banche e imprenditori può realizzarsi soltanto che non ci si concentri solo e sempre sulle garanzie necessarie per l’ottenimento del fido ma si tenda ad elevare la trasparenza informativa e la qualità del rapporto. La prima mossa su uno scacchiere del genere, a mio modesto avviso, dovrebbe essere fatta dal banchiere in un modo “comprensivo” verso l’imprenditore, in specie nel caso delle piccole imprese il cui successo è spesso legato alle capacità personali, umane e professionali, di chi le guida più che diretta conseguenza di una robusta condizione di bilancio. La strategia che può portare, da una lato, ad aumentare la fidelizzazione della clientela e, dall’altro, ad individuare una “banca di riferimento” dovrebbe prendere spunto da esempi di successo industriale delle imprese impegnate in una effettiva cooperazione, che possono essere replicati anche nel rapporto tra finanza e industria.
1.1.2 Il quadro teorico
La staticità del tradizionale rapporto banca-impresa caratterizzato da elementi quali le asimmetrie informative, i costi di transazione e le incertezze di varia natura, hanno portato ad elaborare una teoria dell’intermediazione finanziaria. Questa teoria ha trovato fondamento empirico nella globalizzazione dei mercati, nella pressante competività, nella innovazione tecnologica, nella deregolamentazione che hanno ridimensionato i vantaggi tradizionali degli intermediari creditizi e hanno spinto verso una sostituzione dell’attività di lending con quella dei mercati finanziari. La domanda di strumenti finanziari ha assunto caratteristiche sempre più precise e impegnative, più propriamente, i fabbisogni finanziari delle imprese si sono man mano affinati ed hanno raggiunto un maggior grado di sofisticazione. In un contesto caratterizzato, dal lato delle imprese, da una sempre più elevata richiesta di competenza e professionalità per cogliere al volo le opportunità presenti sul mercato sia interno che esterno e contraddistinto, dal lato degli intermediari, dal ruolo di questi in continua evoluzione rispetto ai tempi e alle esigenze, le istituzioni creditizie dovrebbero riposizionarsi concettualmente in un processo che le indirizzi “verso un crescente impegno in attività più ‘leggere’, come ad esempio la consulenza e l’assistenza finanziaria alla clientela corporate.” Di fronte a queste trasformazioni si è andata imponendo la necessità di passare da una intermediazione creditizia ad una intermediazione finanziaria capace di offrire nuovi strumenti più flessibili. Le banche, inoltre, pur in questo cambiamento possono contare su alcuni elementi per loro specifici e riportabili ad un consolidato rapporto con la clientela che rende l’intermediazione compatibile con lo sviluppo dei mercati finanziari. Infatti, per la loro posizione le banche, potenzialmente, possono disporre di informazioni riservate fondamentali che accrescono lo spessore dei rapporti finanziari e quindi migliorano l’efficienza dei processi allocativi del credito. I vantaggi informativi se ben utilizzati sono utili alle banche anche per la tradizionale attività di lending che può essere avvantaggiata in termini di costo del prestito e di garanzie collaterali. Ma è stato notato che se il mercato funziona l’impresa è disponibile a far circolare informazioni che la riguardano per assicurarsi un accesso al venture capital, incrementando così l’efficienza dello stesso mercato che diventa una alternativa netta alla presunta superiorità del credito bancario. Si ripropone così la netta distinzione tra sistemi orientati agli intermediari e sistemi orientati al mercato secondo la classica definizione di banking economies, caratterizzate da bassa presenza di imprese quotate, relazioni articolate e di lungo termine tra banche e imprese, e market economies, caratterizzate da un elevato numero di imprese quotate sul mercato, forte incidenza del mercato borsistico e relazioni di breve periodo tra banche e imprese. Non vi è possibilità di collocare con sicurezza il sistema finanziario italiano in uno di questi due modelli teorici, resta comunque il dato di fatto che alla fine di marzo 2002 presso la borsa italiana erano quotate 265 società italiane contro 276 alla fine del 2001, e la tendenza è verso il basso dato che nel 2002 vi sono stati solo 5 nuovi ingressi al listino principale e nessuno al Nuovo Mercato (invece, nel 2001 sono stati, rispettivamente, 13 e 4).
Quindi, la contrazione del mercato azionario imprime ancora una volta uno spostamento della struttura finanziaria delle imprese verso l’indebitamento con un leverage attestato intorno al 53 per cento. Ma la cosa ancor più grave, comportante gravi conseguenze e responsabilità, è nel calare vertiginoso della qualità delle relazioni tra banca e impresa man mano che si scende lungo la scala dimensionale delle imprese. Per concludere questa breve istantanea d’ordine teorico c’è da dire che in questo quadro relazionale è difficile dire chi e come sia responsabile del corrente stato di cose perché in definitiva bisognerebbe dare risposta alla secolare questione di causalità se nel mondo è comparso prima l’uovo o la gallina, parafrasandola, per l’occasione, nel quesito: “il credito precede o segue lo sviluppo?” Pur facendo riferimento ad un classico quale Schumpeter circa l’importanza degli effetti attribuibili alle banche sulla crescita della produttività e sull’innovazione tecnologica, resta tuttora senza risposta la questione circa la direzionalità causale nel binomio crescita↔sistema creditizio(finanziario). In specie nel contesto italiano, per i suoi divari territoriali (Nord-Sud) e per una evoluzione del sistema bancario non autonoma bensì pilotata dall’alto con riforme legislative risalenti appena al 1993, è ben difficile nella stretta relazione credito-sviluppo attribuire il ruolo di variabile esplicativa ossia “comprendere con chiarezza se il credito ha stimolato lo sviluppo o è stato dallo sviluppo stimolato; è semmai probabile che valga una direzione bidirezionale non facile da scomporre.”
1.2 Altre possibili relazioni banca-impresa: ”Da una fisiologica simbiosi ad una mostruosa fratellanza siamese”?
Il tema della partecipazione diretta delle banche italiane al capitale di piccole e medie imprese ha acquistato, negli ultimi anni, sempre maggiore importanza, in virtù sia di singoli processi interni relativi ai settori creditizi e industriali sia di un conseguente processo di evoluzione strutturale del rapporto banca-impresa. La possibilità per le banche di acquisire partecipazioni di minoranza nel capitale di rischio delle imprese offre loro l’opportunità di riqualificare il tipo di rapporto da prevalentemente o esclusivamente di natura creditizia ad un’assistenza di tipo globale nell’ottica della finanza d’impresa. D’altronde, da parte delle stesse autorità creditizie si sono sottolineati i vantaggi dell’assunzione di partecipazioni in vista della possibilità per la banca di acquisire informazioni e di esercitare una ottimale funzione di stimolo nei confronti delle imprese.
I legami strettissimi fra banca e impresa risalgono agli anni intercorrenti fra la fine della prima guerra mondiale e il grande crack del 1929. In quell’arco di tempo, per avere una idea del peso che aveva la Banca Commerciale Italiana nella economia del paese, basti dire che ad essa faceva capo un quarto di capitale di tutte le società italiane. Le cose cambiarono nel 1933 con l’istituzione dell’IRI e con la statuizione di una rigida separazione fra banche e imprese, di modo che le prime si dovessero comunque limitare al credito commerciale (a breve tempo) e che fosse compito dello Stato fissare le grandi linee della politica economica.
A partire dalla seconda metà degli anni ‘980, dopo oltre cinquant’anni di rigida separatezza tra banca e impresa, il legislatore italiano ha gradualmente riammesso la possibilità per gli istituti di credito di entrare a far parte del capitale azionario di imprese non finanziarie. Dapprima indirettamente, attraverso la costituzione di apposite società finanziarie, e poi nell’ambito dell’ordinaria attività svolta dagli istituti di credito, si è così giunti, con l’introduzione del D. Lgs. 1° settembre 1993, n.385, recante il Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (da ora in avanti, T.U. bancario), a prevedere anche nel nostro sistema economico “la despecializzazione temporale, funzionale e territoriale dell’attività creditizia”. Naturalmente la possibilità per le banche di acquisire capitale di rischio nelle imprese è prevista nell’ambito di limiti volti a tutelare un servizio che la “nuova” banca, pur con il nuovo carattere di “impresa”, svolge sempre coinvolgendo primariamente l’interesse della collettività risparmiatrice. I limiti si riferiscono sia alle dimensioni ed alla operatività della banca sia, in modo particolare, al capitale dell’impresa partecipata. Per quanto concerne il primo limite si deve tener presente che l’acquisizione di partecipazioni implica, rispetto al tradizionale rapporto di finanziamento, l’assunzione di un maggiore rischio, visto che il rimborso dei diritti patrimoniali dei soci avviene in via residuale rispetto a quello dei creditori; tra l’altro, il Supremo Collegio ha negato la compensabilità tra debito per sottoscrizione di aumento di capitale e credito verso la società che ha deliberato l’aumento di capitale. Per quanto concerne il limite alle partecipazioni detenibili riferito al capitale dell’impresa partecipata (il c.d.“limite di separatezza”), bisogna rilevare che esso non è previsto esplicitamente né dalla direttiva comunitaria, che pone limiti alle partecipazioni solo con riferimento ai fondi propri della banca, né dal T.U. bancario, che si limita a rimettere la regolamentazione delle partecipazioni detenibili alla normazione secondaria. In pratica la legge bancaria ha optato per una soluzione intermedia: mantenere fermo il principio della separatezza, ma con ampie deroghe. La banca italiana si trova oggi a dover assimilare nella sua cultura il concetto di assunzione del rischio nella sua accezione più ampia, e soprattutto differente rispetto al mero rischio di credito, infatti l’art.10 del T.U. bancario afferma espressamente che “l’attività bancaria ha carattere di impresa” e quindi come tale non può sottrarsi al rischio insito nell’attività esercitata. In questo contesto, l’assunzione di partecipazioni in imprese dinamiche e con ampie potenzialità di crescita, rientra a pieno titolo nella gamma di prodotti-servizi offribili al cliente-impresa, potendo costituire una sistematica, seppure non esclusiva, modalità di impiego. Le motivazioni sopra esposte possono costituire la base per un avvicinamento degli istituti di credito al capitale di piccole e medie imprese, e porrebbe la banca nelle condizioni di effettuare una più completa valutazione delle prospettive di lungo periodo delle imprese, rafforzando la relazione di clientela. L’utilizzo più efficiente e completo delle informazioni delle imprese partecipate di cui la banca entrerebbe in possesso può consentirle, innanzitutto, di evitare di incappare in situazioni di responsabilità quali sono quelle che vaglieremo nel terzo capitolo e quindi avere la possibilità di sorvegliare con maggiore serenità alcune situazioni di difficoltà aziendale ed evitare che degenerino in insolvenza, di agevolare i processi di ristrutturazione finanziaria, e di favorire il ricambio di assetti proprietari inadeguati. Nel contempo differenti processi stanno giocando un importante ruolo per uno speculare movimento dell’impresa verso la banca, intesa come partner finanziario. Dal lato delle imprese si va oggi riconoscendo l’esigenza di poter ridimensionare il numero degli interlocutori, fino al punto di poter disporre di un interlocutore unico, in grado di soddisfare completamente le necessità finanziarie o comunque di svolgere una valida attività di indirizzo in tal senso, ponendo sempre attenzione a che non si verifichi che il “rapporto fisiologico” tra banca e impresa si tramuti in una “mostruosa fratellanza siamese”. Il mixing ideale per un rapporto banca-impresa ottimale dovrebbe basarsi su tre ingredienti:
– il minor costo dell’indebitamento bancario;
– la certezza dell’accesso al credito bancario;
– la concessione di finanziamenti da parte delle banche in base a criteri di redditività e avendo valutato le prospettive economiche dell’impresa.
Sempre più consulenza e interazione e sempre meno rapporti di esclusiva natura creditizia: questo appare l’orientamento dello sviluppo futuro nelle relazioni banca-impresa.
1.2.1 Sinossi delle prospettive di sviluppo del rapporto banca-impresa
Il caso italiano:
– Caratteristiche del mercato del credito:
– povertà di fonti alternative;
– credito bancario caratterizzato da appiattimento forme tecniche (a breve, anticipazione c/c);
– debolezza contrattuale delle banche;
– prassi dei fidi multipli.
– Dicotomia del mercato del credito:
– grandi imprese;
– piccole e medie imprese: dipendenti dal credito bancario, squilibrio nella struttura finanziaria.
– In determinate fasi congiunturali questa differenziazione si accentua.
I “modelli” che oggi vengono maggiormente proposti all’attenzione dei management imprenditoriali e bancari sono:
– Relationship banking
– Transactions banking
Tali modelli provengono dall’osservazione operativa e quindi prescindono dal tipo di banca e dalla struttura del sistema finanziario come pure non sono necessariamente riferiti alle modalità tecniche con cui le imprese si finanziano.
Il primo modello è caratterizzato da relazioni di lungo periodo, da servizi “strutturati” sulle esigenze dell’impresa e da una elevata fedeltà reciproca dell’impresa e della banca. I vantaggi che derivano da questo modello per la banca sono la redditività della relazione e la minore rilevanza delle pressioni concorrenziali; per l’impresa, invece, i vantaggi consistono nella disponibilità di consulenza sulle problematiche di gestione finanziaria, nell’accessibilità a credito e finanza con le connesse informazioni, in un minore costo dell’indebitamento e, ultimo ma non meno importante, avere come testimonial sui mercati la banca partner. Il secondo modello, che ha maggior applicazione nelle aree anglosassoni dove maggiore è lo sviluppo dei mercati e di intermediari specializzati, implica una pluralità di rapporti bancari (il c.d. shopping around) ed una rilevante capacità di offerta specializzata, il che comporta per la banca i vantaggi della specializzazione e un più agevole sganciamento dall’impresa nei periodi di crisi; per l’impresa, invece, i vantaggi consistono nell’evitare la “cattura” e nella mobilità verso chi offre servizi adatti.
Le banche tendono comunque a sviluppare un approccio di relazione pur se tramite una selezione effettuata fra una clientela segmentata per dimensioni e pur dovendo sviluppare servizi di corporate banking che richiedono delle professionalità ben diverse da quelle richieste per la tradizionale concessione di credito. In conclusione, il modello di relationship banking implica: credito breve, medio, lungo; partecipazioni; presenza nei consigli di amministrazione; presentazione/assistenza dell’impresa sui mercati; consulenza; servizi di collocamento.
1.3 L’azione di vigilanza prudenziale e sua evoluzione secondo la proposta “Basilea 2”
Rivestendo la banca il ruolo primario e più delicato nel rapporto con l’impresa è evidente che debba svolgere un’azione di vigilanza motu proprio nei confronti dei terzi affidati, ma siccome ciò non basta perché alla base dell’attività bancaria vi è il principio di servizio al risparmiatore che va tutelato, la legge ed in particolare l’art.5 del T.U. bancario esplicita le finalità dell’attività di vigilanza esercitata dalle autorità creditizie e le individua nella sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, nella stabilità complessiva, nell’efficienza e competitività del sistema finanziario e nell’osservanza delle disposizioni in materia creditizia. A sottolineare la necessità e l’importanza di una tale vigilanza basta tener presente quanto si evince dall’Analisi trimestrale condotta da Mediobanca al 31 dicembre 2002 secondo la quale i 13 maggiori gruppi bancari italiani registravano un free capital (capitale libero) negativo per 16 miliardi di euro. La gravità di tale dato rileva dal fatto che il capitale libero – che si ricava depurando il patrimonio netto degli immobilizzi materiali e immateriali, delle partecipazioni e della quota di crediti di dubbia esigibilità – è essenziale per operazioni quali acquisizioni e fusioni che favoriscono la crescita delle banche. Ebbene, da ciò si evince che per tutte le operazioni di capitale le maggiori banche italiane utilizzano in genere il denaro dei depositanti.
La normativa sulla vigilanza è volta al perseguimento degli scopi della stabilità e dell’efficienza delle banche, tuttavia non permette ingerenze negli atti di gestione e in particolare nelle singole operazioni con la clientela, a tal riguardo la Banca centrale ex artt. 115 e ss. del T.U. bancario ha il compito esclusivo di verifica del rispetto delle disposizioni sulla trasparenza delle condizioni contrattuali. Riferendoci in questo contesto al problema dell’incidenza dei crediti in sofferenza e delle conseguenze connesse, rileva, sotto il profilo di vigilanza, il concetto di sana e prudente gestione che nella nuova legge bancaria ha il ruolo di parametro fondamentale ai fini dei provvedimenti di vigilanza. Punto basilare per una prudente e corretta gestione nell’erogazione del credito resta il criterio secondo cui il patrimonio delle banche deve essere proporzionato ai rischi sopportati. Va rilevata l’importanza e l’efficacia di tale criterio perché esso continua a svolgere la sua funzione anche nella nuova regolamentazione prudenziale delle banche.
Il Nuovo Accordo di Basilea sul Capitale (c.d. “Basilea 2”), a partire dal 2007, apporterà molti elementi innovativi nello scenario del mercato finanziario e nelle relazioni creditizie tra banche e imprese. Esso introdurrà delle nuove tecniche che rivoluzioneranno il comportamento delle banche nella gestione del rischio di credito e avranno un impatto significativo sul rapporto banca-impresa e in modo particolare su quello con le PMI. Anche queste ultime riceveranno un rating a seconda del loro grado di solvibilità, in base al quale vedranno modificarsi i criteri di erogazione dei crediti e degli interessi praticati. La nuova proposta del Basilea 2 contiene, da un lato, le nuove modalità di valutazione e concessione del credito allo scopo di rendere più trasparente il rapporto intercorrente tra le banche, le imprese e i loro rispettivi investitori e, dall’altro, pone le basi per una revisione del sistema creditizio incentrata verso una sempre maggiore solidità e stabilità del sistema bancario, conseguibili rispettivamente con nuove regole in materia di patrimonio di vigilanza e con una sensibilizzazione delle banche verso la gestione delle componenti del rischio: Credito (rischio di perdita per controparte insolvente), Mercato (rischio di perdita per variazione valore strumenti finanziari), e Operativo (rischio di perdita per “non aver fatto le cose in materia corretta”). In pratica, sia le imprese di qualsiasi ordine e dimensione, sia le istituzioni e le banche verranno direttamente coinvolte in un processo di “efficientamento”, fonte di significativi cambiamenti e trasformazioni. Per raggiungere tale obiettivo, l’accordo prevede l’azione congiunta di tre forme di controllo del sistema bancario. I tre “pilastri” costituenti l’Accordo sono i seguenti:
• Requisiti patrimoniali minimi
Ogni attività posta in essere da una banca (mutui, prestiti a società, investimenti in azioni e obbligazioni e così di seguito) comporta l’assunzione di tre ordini di rischi: di mercato, di credito e operativi. In sostanza, si è di fronte ad un affinamento della misura prevista dall’accordo del 1988 (Basilea 1). Le norme sui coefficienti patrimoniali delle banche ora in vigore, riguardanti il rapporto patrimonio/crediti globali, subiranno modifiche, specie in relazione al cosiddetto ‘coefficiente di solvibilità’ che, al momento, stabilisce l’adeguatezza del patrimonio(Total Capital Ratio) in misura non inferiore all’8%, compresi rischi di mercato e operativi, dei crediti concessi alla clientela. Le banche potranno utilizzare metodologie diverse di calcolo dei requisiti, fra queste quelle più avanzate permettono di utilizzare sistemi di rating interno, con l’obiettivo di garantire una maggior sensibilità ai rischi senza innalzare né abbassare, in media, il requisito complessivo. In breve, una volta quantificati i rischi, l’importo rappresentativo del rischio va coperto da patrimonio. È da rilevare come ora si tenga conto in modo particolare del rischio operativo (risultante da cattive procedure interne, errori del personale, sistemi inadeguati, etc.). La particolarità di questo rischio è nel fatto che esso pervade tutta la banca, non è tipico del sistema bancario ed è caratterizzato da un insieme di strumenti di copertura dei quali una parte è peculiare e non disponibile per gli altri rischi: i controlli. L’importanza del controllo di tale rischio si evince da vari fattori, tanto che è prevista la necessità che le banche sviluppino dei database dei rischi operativi unitari e codificati utilizzando delle coerenti definizioni di tipologia di rischio e di linee di business. La definizione di rischio operativo comprende anche i rischi legali derivanti da comportamenti non corretti e conseguenti responsabilità con risarcimento danni causati nell’esercizio dell’attività.
• Controllo prudenziale da parte delle Autorità di Vigilanza
I requisiti patrimoniali verranno integrati con un controllo da parte sia della banca stessa sia della Banca Centrale che avrà una maggiore discrezionalità nel valutare l’adeguatezza patrimoniale delle banche, potendo imporre una copertura superiore ai requisiti minimi.
• Disciplina di mercato e trasparenza
Sono previste, inoltre, regole di trasparenza per l’informazione al pubblico sui livelli patrimoniali, sui rischi, nonché sulle tecniche di allocazione del capitale regolamentare.
Al documento originario di Basilea 2 sono state rivolte numerose critiche che una volta recepite dovrebbero attenuare le conseguenze negative derivanti dall’applicazione dell’accordo, tra le quali spicca la penalizzazione del finanziamento alle piccole e medie imprese indotto dal sistema dei rating interni. Legando con maggiore aderenza il fabbisogno di capitale al rischio sottostante a un finanziamento o ad un investimento si determina inevitabilmente che il prezzo di quel finanziamento o di quell’investimento divengano maggiormente sensibili al rischio implicitamente contenuto. In seguito al recepimento delle nuove disposizioni regolamentari il legame fra rating interno e pricing si farà più solido, più strutturato e più trasparente. Ciò potrà indurre un effetto di carattere restrittivo nei confronti delle PMI, in quanto i prenditori di minore qualità creditizia (tipicamente le piccole e medie imprese) vedrebbero peggiorare le condizioni loro praticate con un effetto di compressione della loro capacità di indebitamento e di revisione delle opportunità di indebitamento. Il cambiamento è ormai deciso ed il rating, che potrebbe presentarsi in questa rivoluzione del credito come una ghigliottina per le imprese di qualità media e inferiore, può invece svolgere, da un lato, un compito di ridefinizione dei rispettivi confini nelle relazioni tra banche e imprese, e, dall’altro lato, potrà divenire uno strumento preciso di valutazione delle possibilità di crescita e di diversificazione per il management imprenditoriale.
1.3.1 Casi di rischio operativo : illegittime segnalazioni alla Centrale Rischi della Banca d’Italia
Nel paragrafo precedente dicevamo dell’importanza che si va attribuendo da parte del sistema bancario ad una tipologia di rischio prima mai considerata, cioè il rischio operativo. Le cause di tale rischio sono da ravvisare in tutto il contesto dell’istituto bancario, potendo concretizzarsi nelle persone (errori, infedeltà, frode), nelle procedure (cattive procedure interne), nei sistemi inadeguati, in eventi esterni (rischi legali). Gli effetti economici si possono concretizzare in perdite o danni a beni, in cause legali, in risarcimento danni e così via.
Nell’ambito delle Autorità di Vigilanza in Italia con deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) del 29 marzo 1994, è stato istituito il servizio della Centrale Rischi della Banca d’Italia “…al fine specifico di consentire la conoscibilità, da parte degli istituti di credito, del rischio complessivo collegato ad un cliente e dare, quindi, la possibilità di valutare l’affidabilità del cliente stesso sia ex ante, cioè al momento della verifica dell’opportunità di concludere un contratto che preveda un’esposizione della banca, sia nel corso dell’esecuzione di un rapporto già concluso”. È il caso di rilevare, anche, che possono tra l’altro essere oggetto di segnalazione alla Centrale dei rischi le posizioni di rischio definibili come “a sofferenza”, vale a dire i crediti nei confronti di soggetti che si trovino in stato di insolvenza, ovvero in “situazioni sostanzialmente equiparabili” all’insolvenza. La finalità volta a garantire da parte delle banche concrete informazioni circa la posizione debitoria e patrimoniale dell’utente non esclude a priori, in merito alla segnalazione di posizioni anomale, di valutare il comportamento dell’istituto di credito come oggetto di condotta illecita, sia sotto il profilo della responsabilità per inadempimento contrattuale, sia sotto l’aspetto della eventuale responsabilità per fatto illecito, ai sensi degli artt.2043 ss. cod. civ. Secondo una interpretazione di recente giurisprudenza di merito sono state individuate le seguenti fattispecie di contegni implicanti l’uno o l’altro profilo di responsabilità: 1) la segnalazione da parte della banca alla Centrale dei rischi di un affidamento del cliente per un credito superiore a quello effettivamente in essere; 2) la segnalazione alla Centrale di un affidamento del soggetto per un credito inesistente; 3) la segnalazione, infine, di una posizione di rischio definibile come “sofferenza”, a fronte della piena capacità del soggetto, cliente o terzo, di far fronte regolarmente all’eventuale rischio con il suo patrimonio. Altresì è stato individuato, sempre nella ordinanza del Tribunale di Cagliari, un ulteriore profilo di violazione dell’anzidetto principio di liceità e correttezza del trattamento, e cioè quello relativo alla ipotesi di intenzionalità della segnalazione alla Centrale dei rischi di situazioni non veritiere, come nel caso che, a fronte di fondate contestazioni del cliente in ordine ad una pretesa della banca, quest’ultima utilizzi proprio lo strumento della segnalazione come mezzo di pressione rivolta ad una definizione più sollecita e a condizioni gradite della controversia.
Ad ulteriore conferma che non sussiste alcun automatismo per la segnalazione alla Centrale dei rischi e che, invece, la segnalazione in sofferenza da parte della banca deve essere subordinata alla presenza del requisito soggettivo del debitore di trovarsi nell’incapacità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni con il suo patrimonio (art. 5 legge fallim.) o in un uno stato oggettivo di difficoltà economico-finanziaria, il Tribunale di Roma osserva che:“ … il mero inadempimento del debito verso la banca, eventualmente anche accompagnato da un esplicito rifiuto ad adempiere, se non è correlato ad un oggettivo stato di difficoltà di adempiere alle proprie obbligazioni, non comporta la qualificazione della posizione del credito come ‘in sofferenza’. L’eventuale iscrizione, da parte della banca, del credito in tale categoria, nonostante il mero inadempimento senza insolvenza, costituisce un comportamento illecito suscettibile della conseguenza del risarcimento del danno”. Sempre il Tribunale di Roma ha correttamente ritenuto che la segnalazione a sofferenza implica una valutazione globale, da parte della banca o di altro intermediario, della condizione economico-finanziaria del cliente, ovvero della capienza e consistenza del suo patrimonio considerato in toto. Ad ulteriore conferma dell’indirizzo assunto dalle Corti di merito secondo il quale la segnalazione alla centrale dei rischi deve scaturire solo in caso di insolvenza, il Tribunale di Brindisi afferma che: “…l’apposizione di un credito a sofferenza e la conseguente segnalazione presso la centrale dei rischi può avvenire solamente in caso di insolvenza, anche se non accertata giudizialmente.”
Quindi, sia in caso di segnalazione erronea (per negligenza o imperizia nella valutazione della sussistenza dei presupposti prescritti per la segnalazione), ovvero “abusiva” (per l’intenzionalità della comunicazione di dati non veritieri) alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, l’istituto di credito è tenuto a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale, se la segnalazione è avvenuta nell’ambito di un rapporto negoziale già operante tra le parti o, altrimenti, a titolo di responsabilità extracontrattuale i danni causati all’imprenditore per lesione del diritto di impresa, creandogli difficoltà insormontabili per accedere al credito bancario o potendo addirittura determinare la repentina revoca del credito già concesso. Ma, siccome oggi tutto si svolge in un sistema informativo generalizzato, vi è da considerare una conseguenza ancor più nociva. Infatti, una errata o, ancor più grave, intenzionale segnalazione può incidere anche sul regime della libera concorrenza e sullo stesso sistema creditizio: il mancato accesso al credito di un’impresa o la revoca degli affidamenti porta ad avvantaggiare le altre imprese operanti nel medesimo settore, così come può essere fuorviante per le stesse altre banche condizionandone la loro politica creditizia. Dato che la Banca d’Italia nelle sue Istruzioni di vigilanza non si assume alcuna responsabilità per le conseguenze derivanti da un uso incauto delle informazioni scambiate con gli intermediari, è evidente che in tali casi di ‘rischio operativo’ soltanto la banca dovrà assumersi la responsabilità che può essere sia contrattuale, se la segnalazione è avvenuta nell’ambito di un rapporto negoziale già operante tra le parti, ovvero aquiliana se individuata nell’ingiustizia del danno che provoca la lesione della cosiddetta reputazione economica. È chiaro che “qualora il cliente della banca assuma l’illegittimità della segnalazione ‘a sofferenza’ del proprio nominativo alla centrale dei rischi, egli deve dar la prova di aver subito di conseguenza di ciò un pregiudizio.”
Per concludere, bisogna far notare che con la legge n. 675/1996 sono previsti dei vincoli e degli obblighi a carico delle banche perché non venga distorto il rapporto tra il continuo sviluppo dei sistemi informativi e l’imprescindibile esigenza di protezione dei soggetti i cui dati personali, compresi quelli di ordine economico-patrimoniale, siano oggetto di raccolta, elaborazione e diffusione. In particolare, l’art. 9, c), della legge richiamata stabilisce che i dati personali oggetto di trattamento vengano usati “in modo lecito e secondo correttezza”, registrati per “scopi determinati espliciti e legittimi”, “pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti e successivamente trattati”, rappresenta una ulteriore conferma delle ragioni che giustificano la responsabilità della banca per aver contribuito, violando proprio questi canoni, alla diffusione di notizie non veritiere inerenti ai debitori. La banca operante una segnalazione errata di un nominativo alla Centrale dei rischi, quindi, sarebbe soggetta alle sanzioni ex art.18 legge n.675/96 nel caso in cui cagioni un danno al soggetto indebitamente segnalato. Comunque, c’è da evidenziare anche la tendenza a definire la segnalazione “a sofferenza” come gravemente lesiva del diritto alla riservatezza a causa dell’ingiustificato unilaterale potere delle banche di segnalazione delle posizioni ritenute scomode, oppure, in subordine, si auspica una modalità di uso della segnalazione tramite la figura di un Garante che assicuri, attraverso l’esame soggettivo ed oggettivo dell’utente bancario, la neutralità e necessità della segnalazione.
2
Incidenza del nuovo sistema bancario sui rapporti banca-impresa
2.1 Trasformazioni nel sistema creditizio italiano
Nell’ordinamento italiano del 1936(R.D.L. 12.3.1936, n.375 convertito nella L. 141/1938) si trova la prima riforma bancaria nata come risposta delle autorità governative dell’epoca alle pesanti conseguenze della crisi mondiale del 1929 che aveva travolto banche e imprese. A fronte di tale situazione la riforma si poneva come obiettivo primario la stabilità del sistema creditizio, invece che la sua efficienza. La banca veniva inquadrata come istituzione con finalità pubbliche, cioè con il compito di erogare credito al sistema industriale alla pari di una comune fornitura di servizi come l’approvvigionamento di gas, acqua, elettricità o trasporti. L’impostazione del sistema creditizio secondo una logica di erogazione di un servizio di pubblica utilità “ha stimolato la crescita di quella piccola imprenditoria diffusa, che sola è in grado di creare condizioni di effettiva competività dei mercati”. Col passare del tempo, ha preso forma un male oscuro di questo sistema contrassegnato da una polverizzazione funzionale e territoriale dell’attività creditizia oltre che da una tralignamento della presenza pubblica. A discapito del sistema produttivo la qualità del servizio del sistema bancario è andata peggiorando ed ha innescato il fenomeno del pluriaffidamento che ha ostacolato la formazione di un rapporto organico tra banca e imprese ed ha annullato la capacità di monitoraggio della prima rispetto alle seconde.
A partire dagli anni ‘980, i mutamenti pratici e teoretici, in campo economico, tecnologico e di mercato, a livello internazionale e interno hanno decretato la fine di quel sistema creditizio che erogava tramite la “banca istituzione” un servizio di pubblica utilità per passare alla “banca impresa” il cui target esclusivo è quello di massimizzare il più possibile la redditività dell’investimento.
Un primo importante fattore di cambiamento è costituito dalla profonda deregolamentazione dell’attività creditizia : a differenza che in passato, quando le banche operavano in ambiti protetti, gli intermediari creditizi si confrontano attualmente sui mercati aperti alla concorrenza, interna ed estera. I mutamenti normativi hanno eroso la demarcazione tra i comparti tradizionali dell’industria finanziaria (bancario, finanziario e assicurativo), inducendo le banche a modificare la propria attività. Esse hanno ampliato la gamma dei servizi offerti nei settori con migliori prospettive di sviluppo e redditività (ad esempio, la gestione del risparmio, la prestazione di servizi finanziari alle imprese) e ridotto il peso di comparti con basso valore aggiunto (ad esempio la custodia titoli, in misura crescente effettuata da operatori specializzati). Una spinta fondamentale al cambiamento dell’attività bancaria è inoltre venuta dal progresso nel campo dei sistemi informatici e delle telecomunicazioni, che consente alle banche di servire clienti localizzati in località prima difficilmente raggiungibili, abbattendo barriere geografiche alla concorrenza. L’utilizzo delle nuove tecnologie può accrescere in misura considerevole l’efficienza sia nella fase di produzione (selezione della clientela, gestione del rischio, back office), sia nella distribuzione di servizi. Un terzo fondamentale fattore è costituito dall’avvio dell’Unione monetaria. L’eliminazione del rischio di cambio ha favorito, nell’area dell’euro, l’espansione dell’attività delle banche in mercati diversi da quello di origine, rimovendo barriere alla concorrenza tra i sistemi bancari nazionali. Come già accaduto in altri settori economici e produttivi il cambiamento di forme ed etichette non è indolore e comporta una drammatizzazione di tutta una serie di elementi che nel caso del settore creditizio ha comportato la scelta di obiettivi il cui conseguimento in altri tempi poteva essere segno di sviluppo ma che al momento diveniva una necessità inderogabile per la sopravvivenza stessa della banca. L’esasperato conseguimento della redditività ha comportato come prima vittima sacrificale proprio l’attività di erogazione del credito alle piccole-medie imprese. La scarsa redditività di questo segmento di mercato è stata evidenziata ancor di più dalla tendenza alla divisionalizzazione delle aree di attività dei gruppi bancari e dall’aumentata occasione di confronti tra i risultati ottenuti dai vari segmenti dell’attività creditizia. A fronte delle difficoltà che si sono presentate per accrescere le quote di mercato con le proprie forze, gli istituti di credito hanno imboccato la strada più agevole della fusione o dell’acquisizione di partecipazioni in altre banche.
2.2 Aggregati bancari quale nuovo ostacolo nell’accesso al credito delle PMI
I processi di aggregazione e di concentrazione hanno problematizzato ulteriormente il rapporto tra banche e PMI a causa dello stravolgimento nella collocazione territoriale delle prime. Infatti la liberalizzazione e la deregolamentazione hanno spinto le banche a cercare in ogni dove le migliori opportunità di investimento. Così facendo si è creato un problema locale di osmosi tra il flusso di risorse generate in loco sotto forma di risparmio e un flusso adeguato di ritorno, sempre in loco, sotto forma di investimenti. Per il Sud, fra i risultati dell’evoluzione del sistema creditizio, è stata esiziale la scomparsa di numerose piccole banche locali che rappresentavano per le PMI i principali interlocutori finanziari.
Nell’ultimo decennio del ‘900 il sistema bancario italiano è stato protagonista di una trasformazione epocale. Una valanga di fusioni, acquisti e alleanze ha travolto il panorama delle istituzioni creditizie che non si presentavano più in grado di reggere all’ondata della globalizzazione. Dalla scena sono scomparse piccole banche popolari e minuscole casse di risparmio che per decenni avevano accompagnato e sostenuto l’attività economica di distretti agricoli e di modesti centri manifatturieri.
Tra il 1990 e il 2001 si sono avute 386 operazioni di fusione o incorporazione tra banche e 166 acquisizioni della maggioranza del capitale. In particolare, quasi tutte le maggiori banche del Sud, che si trovavano in precarie condizioni finanziarie, hanno subito il processo di riallocazione proprietaria (159 fusioni o acquisizioni di banche) da parte di istituti localizzati nel Centro e nel Nord Italia. Ancor più che nelle altre regioni italiane, nel Sud il processo di concentrazione ha mostrato un’accelerazione nella seconda parte del periodo: tra il 1996 e il 2001 si sono registrate 138 fusioni, incorporazioni e acquisizioni del controllo, il 70 per cento in più rispetto a quelle registrate nel periodo 1990-95.
Come conseguenza del processo di concentrazione, il numero delle banche operanti in Italia si è fortemente ridotto. Da 1.061 intermediari nel 1990 si è scesi a 918 nel 1995 e ancora a 769 nel 2001, con un calo di oltre un quarto rispetto all’inizio del periodo La diminuzione ha riguardato tutte le aree del Paese, ma è risultata accentuata nel Sud , dove il numero di banche si è pressoché dimezzato (da 313 a 168), a fronte di un calo del 20 per cento (da 748 a 601 banche) nelle restanti regioni italiane. Inoltre, alla fine del 2001 tra le 48 banche, diverse da Banche di Credito Cooperativo con sede legale nel Mezzogiorno, oltre la metà(56,7%) faceva capo a gruppi bancari del Centro Nord; non vi sono invece esempi del caso opposto, ovvero di banche con sede legale nel Centro Nord controllate da gruppi creditizi meridionali. Non va sottovalutato il numero di filiali di banche estere, in particolare europee, che nello stesso periodo è aumentato del 20% , il che potrebbe voler dire ulteriori difficoltà per il sistema creditizio italiano non allenato a simili sfide.
Tutte queste trasformazioni volte ad accrescere l’efficienza delle banche, secondo alcuni Autori, hanno portato ad un ulteriore indebolimento del tessuto produttivo meridionale che con la scomparsa delle banche a vocazione locale ha perso l’interlocutore privilegiato, il banchiere comprensivo e si è ritrovato un più severo banchiere conquistatore del Sud. Inoltre, i grandi aggregati bancari perdono ancor di più la conoscenza del territorio su cui operano affidandosi ad una meccanicistica modalità di erogazione del credito bancario. Infatti, oggi accade che l’istruzione di una pratica di fido sia delegata a sistemi informatizzati e standardizzati di valutazione automatica (credit scoring) del cliente. Siffatti automatismi non trovano rispondenza nella realtà della piccola imprenditoria che non può fornire indici del proprio stato economico e patrimoniale adatti ad essere elaborati dal sistema informatico o, cosa ancor più grave, uccidono sul nascere le imprese che senza alcuna colpa non possono fornire dati significativi riguardo al loro bilancio.
2.3 Ruolo della contiguità territoriale tra banca e impresa nel processo di finanziamento
In The Economics of Industry, il celebre economista inglese Alfred Marshall affermava che sono le “industrie ausiliarie che facilitano la comunicazione tra i vari rami di attività”, fornendo in modo efficiente i beni e i servizi per i quali. vi sono economie di scala. Tra queste, secondo Marshall, le banche svolgono un ruolo primario, ed infatti riferendosi alle imprese ausiliarie egli affermava che “i banchieri agevolano il pagamento delle merci allo stesso modo in cui le ferrovie ne agevolano il trasporto. Ma, in più, essi trasferiscono da soggetto a soggetto il controllo del capitale, e l’aiuto che in tal modo danno agli uomini nuovi con scarso capitale proprio è forse la forza più importante che contrasti la moderna tendenza alla concentrazione della produzione nelle mani di poche grosse imprese.”
Questa metafora dell’ausiliarietà ritengo possa ben inquadrare l’importanza del radicamento territoriale che crea condizioni ambientali favorevoli all’attività di intermediazione finanziaria, e che vengono prese in considerazione dalla banca al momento di decidere un affidamento. La banca locale, intesa come “nata e cresciuta” in zona, sfruttando la rete di relazioni e informazioni ha un grosso vantaggio nel fornire credito perché “…può dare molto più peso alle qualità personali di chiunque domandi credito, e alle effettive prospettive di un determinato investimento”. La vicinanza sul territorio, oltre che la “dimestichezza”, tra creditore e debitore consente al primo di disporre, praticamente a costo zero, di informazioni “di prima mano” che mettono la banca locale in condizione di svolgere una erogazione del credito più sicura e competente, valutando, da un lato, la rischiosità dei prenditori e la qualità dei progetti da finanziare e controllando, dall’altro, che l’affidato non assuma, ex post, comportamenti opportunistici modificando le decisioni di investimento che erano a monte della richiesta di fido. Gli aspetti relativi alla verifica di destinazione economica dei prestiti sono stati oggetto del modello di peer monitoring proposto da Stiglitz: esso consiste in un meccanismo di controllo abbinato ad una pressione d’ordine etico-sociale che tenderebbe a disincentivare i comportamenti di azzardo morale. In pratica, le banche operanti in comunità ristrette hanno la possibilità di mettere in atto forme di sanzioni sociali tali da dare origine ad una specie di “ostracismo sociale” per il debitore inaffidabile. È chiaro che la perdita di reputazione a seguito di comportamenti scorretti costituisce anche un deterrente al verificarsi di comportamenti irregolari messi in atto da parte degli amministratori degli intermediari creditizi.
Recenti studi hanno approfondito gli aspetti inerenti ai rapporti tra banche e imprese nei sistemi locali. Lo sviluppo di intermediari creditizi minori potrebbe essere visto, per un certo verso, come la risposta alla necessità di creare un mercato locale dei capitali capace di mobilizzare proficuamente il risparmio notevole della comunità locale. Nei sistemi locali si andrebbe attenuando quella netta separazione tra banche e industria –una delle pietre angolari della vigilanza bancaria– in ragione degli stretti legami intercorrenti tra i decisori dell’affidamento e i prenditori finali. Gestendo in modo razionale questa rete di relazioni tra banche locali e piccole-medie imprese si eviterebbe per le prime il rischio di un “peggioramento” della qualità del credito erogato alle seconde che assumerebbero, invece, il ruolo di indispensabile, se non unico, interlocutore finanziario in loco.
2.4 Difficoltà nelle relazioni creditizie e possibili correttivi
Dato che una relazione creditizia, alla pari di qualsiasi tipo di relazione sociale o individuale, per nascere e svilupparsi bene ha un assoluto bisogno che tra i contraenti si instaurino reciproca fiducia e trasparenza, tale clima si riesce a creare solo se il creditore dispone di un fascio di informazioni abbastanza complete e affidabili riguardo all’affidato sia al momento della decisione di concedere il finanziamento sia nell’arco temporale del rapporto. Purtroppo la realtà è tutt’altra cosa, infatti nella relazione creditizia il creditore come il debitore restano incatenati insieme da una asimmetrica distribuzione delle informazioni che li riguardano e da una diversa (seppure in parte) prefigurazione dei costi e dei benefici che si son fatta come contraenti. L’istruzione della pratica di finanziamento e il conseguente monitoraggio sull’attività dell’affidato implicano dei costi che risultano particolarmente gravosi per gli operatori economici minori. In pratica svolgendo un’analisi econometrica su di un ampio campione di singoli contratti di mutuo si è potuto notare che il costo unitario del credito a carico di una banca è per oltre il 50% da riferire ai costi operativi, e tutto questo si ripercuote necessariamente sui tassi di interesse sia a breve che a medio e lungo termine che diventano più alti per le piccole-medie imprese, specie se collocate al Sud.
All’interno della categoria delle piccole-medie imprese, sono svariati i motivi che contribuiscono a presentare una loro immagine distorta al sistema bancario. Innanzitutto vi sono motivi d’ordine comportamentale che tendono a far sì che, in genere, il piccolo imprenditore cerchi di mimetizzare lo stato complessivo della propria ricchezza arrivando al punto di evitare la prossimità territoriale nella richiesta di credito onde evitare che il creditore e gli impiegati della banca conoscano il suo stato patrimoniale, mentre affida la gestione del proprio patrimonio alla grande banca ubicata al di fuori della località di residenza e che sembra possa assicurargli meglio l’anonimato. In secondo luogo, per motivi fiscali, per regime di contabilità semplificata, per carenza di piani aziendali, i piccoli imprenditori non danno la possibilità a coloro che devono valutare le operazioni di affidamento di stimare la reale situazione economica dell’impresa con conseguente rischio di mancato finanziamento oppure di un affidamento concesso a condizioni molto gravose.
Una ulteriore figura, che spesso entra in scena a complicare le cose per la piccola imprenditoria, è quella del commercialista di fiducia dell’imprenditore. Infatti, pur dotato di notevolissime e originali conoscenze e inventive sul piano produttivo, il piccolo imprenditore si sente come un pesce fuor d’acqua nell’ambito della gestione finanziaria della sua impresa e dei relativi problemi, pertanto egli finisce per delegare al proprio commercialista le questioni finanziarie; questi si sentirà onorato da tanta incombenza, ma per deformazione professionale continuerà a vedere tutto in prospettiva fiscale lasciando scoperto il fronte delicato della struttura finanziaria dell’impresa.
Per la piccola imprenditoria è certo importante produrre e al contempo proteggersi dalla avidità del fisco, ma i tempi sono cambiati e bisogna con decisione dedicarsi anche ad una corretta gestione dell’impresa sul piano finanziario. Da questo punto di vista le PMI sono ben lontane dal considerare il mercato finanziario come una possibile alternativa al credito bancario. In una recente analisi comparativa emerge, da un lato, che è molto scarsa l’attività di assistenza da parte delle banche in termini di sostegno e consulenza finanziaria, mentre, dall’altro, le imprese medie non presentano ancora una più elevata maturità nelle scelte finanziarie e al contempo sono scarse le emissioni di valori mobiliari. Tuttavia, nell’ambito delle fonti di finanziamento il credito bancario presenta un netto spostamento da quello di breve periodo a quello di medio-lungo termine. Da ciò si potrebbe dedurre una tendenza al miglioramento dei rapporti tra banche e imprese, in quanto vi è una progressiva riduzione del pluriaffidamento e dell’utilizzo dello scoperto di conto corrente a fronte di un aumento di relazioni più solide e durature alle quali contribuiscono gli intermediari che sembra cerchino di collaborare in modo più fattivo nelle scelte e nel sostegno finanziario alla crescita aziendale.
Se è vero, come è vero, che tali segni positivi ci sono, sarebbe molto utile da parte delle organizzazioni competenti intraprendere o consolidare una “opera educativa” verso la piccola imprenditoria in modo che questa prenda coscienza di alcune necessità da tener presente nel rapporto con l’istituto di credito. Innanzitutto nel perorare la propria richiesta di credito l’imprenditore deve mettere maggiormente in risalto che egli tende alla redditività della propria azienda più che all’aumento del fatturato. Infatti, le prospettive di redditività sono la vera variabile strategica che fa capire all’intermediario se il credito vada o meno concesso. In secondo luogo, il piccolo imprenditore non si rende conto che la banca finanzia la redditività dell’impresa e non il patrimonio della famiglia, per questo si meraviglia che la banca, pur ampiamente fornita di garanzie, continui a tenere sotto controllo prospettive di crescita e guadagno dell’impresa. Sempre a proposito dei nessi intercorrenti tra piccola impresa e famiglia, bisogna far capire al titolare che non si deve confondere contabilità aziendale con contabilità privata, perché attingere a piene mani al capitale d’impresa per le “spese di famiglia” non è un segnale positivo per la banca creditrice. Un altro segnale negativo per il mondo bancario è dato dalla tendenza del piccolo imprenditore ad investire cifre modeste nella propria impresa; addirittura sono stati pochissimi i titolari che hanno ricapitalizzato la propria azienda facendo ricorso ad una recente riforma del sistema fiscale italiano che ha introdotto la Dual Income Tax , cioè l’applicazione di una aliquota di imposta ai fini IRPEG differenziata in funzione della capitalizzazione dell’impresa.
A completamento dell’acquisizione dei fattori psicologici, formali, operativi che contribuiscono alla nascita di una relazione stabile con una banca, l’imprenditore non deve più percepire il sistema bancario come un qualcosa di monolitico e indistinto bensì deve rendersi conto che oggi egli ha a che fare con un comparto affollato di operatori in feroce concorrenza tra loro e che per questo vanno affrontati con idee e prospettive ben chiare. Pertanto la scelta delle forme tecniche di finanziamento può essere finalmente frutto di un confronto e di un compromesso tra la volontà del cliente e quella della banca erogatrice con tutto ciò che ne consegue per una corretta gestione del rapporto tra affidato, coperto dalle regole a tutela della clientela, e operatore bancario che si trova a dover rispondere di mancata diligenza professionale (art.1176 co.2° cod.civ.) sfociante in responsabilità per mendacio e falso interno bancario ex art.137 del T.U. bancario.
3
Responsabilità della banca per danni causati al cliente ed ai terzi nell’esercizio dell’attività
3.1 Evoluzione del “soggetto banca”: da una posizione privilegiata ad una ascrizione di responsabilità
Della responsabilità civile della banca, a partire dagli anni ‘980 in poi, si può parlare come dell’insorgere di una mutazione genetica indotta nell’organismo creditizio da variazioni ambientali quali, da un lato, le numerose disposizioni, sia nazionali che comunitarie, intervenute per la regolamentazione dell’attività bancaria e, dall’altro, gli interventi fondamentali da parte della dottrina e della giurisprudenza rivolti a dare una risposta chiarificatrice, se pur non esaustiva, al quesito: “la banca è soggetta al regime di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale così come previsto dall’ordinamento giuridico? Ad essa si applicano le norme di diritto comune?”
Le cosiddette ‘aree di irresponsabilità’ della banca hanno iniziato a sfaldarsi con l’intervento del legislatore sollecitato dall’incalzare della istanza proveniente dal contesto sociale che chiedeva fosse dato, in generale, il giusto rilievo al tema della tutela del consumatore. L’incipit risale all’art.25 della Legge 52/1996 che, a seguito del recepimento della direttiva 93/13/CEE, introduceva nel codice civile gli artt.1469-bis ss. costituenti il Capo XIV-BIS “Dei contratti del consumatore” nel libro IV del codice civile. Ai fini del nostro discorso bisogna precisare che pur rilevando nell’art.1469-bis il contraente ‘consumatore’, definito come ‘la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta’ e non essendo compresa dunque la tutela dell’impresa, anche nell’ipotesi di impresa ‘debole’ che contratta con imprese ‘forti’, ciò non esclude in ogni caso l’applicabilità della disciplina nei confronti delle imprese in veste di ‘consumatore’: è d’uopo fare osservare che non sempre è facile discernere, nel ricorso al credito, i motivi personali da quelli inerenti all’attività imprenditoriale.
A seguito di questa innovazione normativa si è posta in essere una analisi serrata delle ‘norme uniformi bancarie’ (n.u.b.). Tali norme introducono una serie di deroghe, per ridurre al massimo i rischi ai quali può andare incontro l’azienda di credito, prevedendo, per esempio, la possibilità di recedere dal contratto a tempo determinato prima dei quindici giorni previsti dalla disciplina legale e che nel contratto a tempo indeterminato si receda ad nutum. Queste, come altre previsioni in passato sono state ritenute legittime dalla giurisprudenza in quanto ‘espressione dell’autonomia negoziale’. A seguito dell’apertura alla concorrenza, interna ed estera, nel sistema bancario e con l’introduzione delle norme di tutela dei consumatori, la giurisprudenza ha iniziato a far ricadere la maggior parte delle n.u.b. fra le clausole vessatorie, dichiarando tali quelle che concernono istituti importanti, quali, per esempio, il recesso o la limitazione di responsabilità della banca. A tal proposito, merita di essere menzionata una nota decisione del Tribunale di Roma, in una causa che aveva come parti due banche e l’ABI e che era stata promossa da due associazioni di consumatori, il giudice, in questa occasione, ha letteralmente ‘falciato’ un gran numero delle n.u.b. sottoposte al suo esame ed ha anche riconosciuto che l’A.B.I. (associazione di categoria) “è legittimata passivamente nel procedimento giudiziario –avente ad oggetto l’azione inibitoria in materia di clausole vessatorie– promosso da una associazione di consumatori, sia ai sensi dell’art.7, co.3°, direttiva 1993/13/CEE in quanto soggetto che ‘raccomanda’ l’inserzione e l’utilizzazione delle clausole, sia ai sensi dell’art.1469-sexies cod. civ., che consente di convenire in giudizio il ‘professionista’ o la ‘associazione di professionisti’ che utilizzano condizioni generali di contratto.” Successivamente all’introduzione delle nuove previsioni, l’ABI è tornata sui suoi passi abbandonando, per esempio, l’ipotesi del recesso senza giusta causa nell’apertura di credito a tempo determinato, ed escludendo il ricorso all’attivazione della facoltà del patto contrario prevista dall’art.1845 cod. civ.
Alla pari del fenomeno di estensione della galassia della responsabilità civile derivante dalla crescita esponenziale degli eventi tecnici, scientifici, economici e sociali, allo stesso modo in tempi recenti si è testimoni di un ampliamento dell’area di responsabilità della banca a seguito di interventi serrati da parte della magistratura sulla problematica dei servizi e dei contratti bancari. Tuttavia, la specifica attività svolta dal sistema bancario, il proteiforme atteggiarsi della
fattispecie entro cui si produce il danno, e la carenza di norme specifiche disciplinanti la responsabilità della banca fanno sì che formalmente “i molteplici casi in cui le banche sono esposte ad azioni risarcitorie possono classificarsi a seconda che costituiscono ipotesi di responsabilità precontrattuale, contrattuale o aquliana. L’ascrizione all’uno o all’altro tipo di responsabilità, rilevante dal punto di vista del regime applicabile, non è sempre incontroversa.” Comunque, pur in carenza di norme ad hoc che disciplinino le varie ipotesi di responsabilità dell’ente bancario, secondo la dottrina ”nell’ambito del diritto comune vi è una disciplina (sempre) generale (ma) applicabile soprattutto agli imprenditori, e quindi anche ai banchieri, responsabili per i fatti dei loro ausiliari (artt.1228, 1229 co.2°, 2049 cod. civ.). Al di fuori pertanto di norme specifiche, relative a determinati rapporti, può sembrare che il tema della responsabilità civile del banchiere non debba suscitare una problematica particolare.” Tuttavia, a fronte del proliferare di tendenze interpretative volte ad aggravare in genere la posizione dell’imprenditore sia sul piano contrattuale che extracontrattuale, sorge un problema che è quello di “stabilire se tali risultati interpretativi, ove accolti, siano applicabili anche all’attività del banchiere, al quale quindi addossare un particolare rischio professionale.” La giurisprudenza già propensa ad affermare che l’applicazione delle norme di diritto comune di ampia portata concernenti la buona fede, la correttezza, la diligenza nell’adempimento delle obbligazioni, comportano in ogni caso il delinearsi del regime di responsabilità dell’ente bancario ha, altresì, fatto derivare la responsabilità civile della banca dallo status della persona giuridica: “Nell’ordinamento giuridico vigente, pur non esistendo un generale dovere a carico di ciascun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, vi sono molteplici situazioni dalle quali possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile; in particolare, dalla disciplina normativa che regola il sistema bancario, vengono imposti a tutela del sistema stesso e dei soggetti che vi sono inseriti, comportamenti, in parte tipizzati, in parte enucleabili caso per caso, la cui violazione può costituire culpa in omittendo.” Da una tale decisione si deduce che il sistema bancario imporrebbe all’istituto di credito “una diversa e più rigorosa valutazione della sua condotta nell’ambito del traffico giuridico, così radicalizzando il dovere di diligenza che gli incombe al fine di evitare il verificarsi di eventi dannosi a carico di terzi.”
A conclusione di questa breve disamina dell’incrinarsi di quella situazione, avallata dalla dottrina e legittimata dalla giurisprudenza dell’epoca, che per decenni ha fatto ritenere che l’impresa bancaria, per la sua intrinseca attività, dovesse essere collocata e considerata giuridicamente in una posizione sui generis e le dovesse essere riservata una protezione speciale e più intensa di quella già prevista dal diritto comune, ritengo sia corretto ricorrere a due notazioni affinché i piatti della bilancia siano in equilibrio per la banca. Innanzitutto, cito le parole severe ma non animose di autorevole dottrina, secondo la quale “l’attività bancaria nei suoi profili privatistici ha oggi ben poco in comune con il sistema che è stato per decenni e fino a pochi anni or sono, sia nel contenuto, sia negli strumenti utilizzati per disciplinarla. Le banche hanno ormai perso la fisionomia, che per tanti anni hanno avuto, di imprese meritevoli di protezione speciale, per divenire, e anzi ora più di altre imprese, soggette a scrutinio severo da parte di una pluralità di fonti, nella soddisfazione di esigenze, ormai univocamente riconosciute come irrinunciabili, di trasparenza, competività ed efficienza, nell’interesse del mercato.” In secondo luogo, ad ulteriore riprova di come i tempi siano cambiati, riferisco incidentalmente del cambiamento intervenuto nella giurisprudenza in merito ad un problema che fino a pochi anni fa aveva dato del filo da torcere agli istituti di credito, mi riferisco alla “controversa questione se agli agricoltori ammessi a godere delle provvidenze di cui alle Leggi 31/91, 185/92 e 237/93 competa o meno un vero e proprio diritto potestativo ad ottenere il finanziamento a tasso agevolato ex art.4 L.31/91, con conseguente proroga della scadenza delle cambiali agrarie sottoscritte per precedenti prestiti agrari, sicché per converso gravi sulla banca un corrispondente obbligo di concedere tale finanziamento.” La tesi affermativa, sostenuta al riguardo per anni dalle corti di merito, melius re perpensa, non appare oggi più convincente alla stregua anche delle calzanti considerazioni di segno opposto svolte dal supremo Collegio con pronuncia del 26.3.2001. Infatti, anche se la L.31/91 mirava a soccorrere aziende agricole site in territori colpiti da calamità naturali, si inseriva comunque in un tessuto di misure già in atto (mutui agevolati, crediti di esercizio e così via). Pertanto, “la banca che riceve una domanda di finanziamento di soccorso ex art.4 L.31/91 si trova, anzitutto, quanto all’esercizio del credito, nella medesima condizione nella quale si sarebbe trovata prima che tale legge fosse emanata ovvero nel vigore delle norme da essa stessa richiamate.[…] la posizione dell’ente creditizio non è, come pare ritenere la sentenza impugnata, meramente esecutiva di deliberazioni regionali, ovvero meramente esecutiva rispetto all’esercizio da parte del richiedente il finanziamento di ciò che, così come delineato dalla corte di merito, pare un diritto potestativo al credito. Essa, invece, è negozialmente autonoma.”
3.2 Il ruolo della banca nell’insolvenza delle imprese
Come già evidenziato nel capitolo 2, con la mutazione del sistema bancario italiano si sono attivate delle conseguenze di vario ordine che influiscono, principalmente attraverso il meccanismo del finanziamento, su molti aspetti del rapporto banca-impresa. Che questo rapporto stia sempre sotto la minaccia di una spada di Damocle è cosa risaputa ma è bene ricapitolarne brevemente alcuni fattori che determinano una tale situazione: a partire dagli inizi degli anni ‘990 nelle imprese il rapporto tra autofinanziamento ed investimenti tende progressivamente a diminuire; la scarsa possibilità di reperire capitali sul mercato mobiliare rende ancor più precari gli equilibri e accentua i limiti dei modelli di sviluppo finanziario delle imprese; la riduzione dei flussi di cassa alimenta l’indebitamento che si presenta con una dislocazione e delle condizioni molto variegate. Con questi pochi elementi si può già prevedere il circolo vizioso in cui entra l’impresa: investimenti sacrificati per paura di ulteriori rischi finanziari, incapacità, o peggio, disordinata capacità di far fronte ai debiti in essere.
A complicare il quadro, naturalmente, ci si mette anche il sistema banca che oggi si presenta con un potere contrattuale sempre più ridimensionato e che, per far fronte alla concorrenza, mette in secondo piano quella che una volta era una sua spiccata capacità di selezione della domanda. Ciò comporta, per la banca, una crescente creazione di impieghi a rischio e una impellente necessità di incrementare gli impieghi per far fronte alla crescita dei costi fissi in relazione al fenomeno della “polverizzazione” degli sportelli. Date queste premesse, il rischio di “incidenti di percorso” nello svolgimento del rapporto banca-impresa aumenta di molto e in modo rilevante proprio a carico dell’ex privilegiato “soggetto banca” cui potrebbero essere imputate responsabilità nei confronti dell’impresa affidata come pure nei confronti dei terzi.
Le due ipotesi limite, che valuteremo nel prosieguo, sono rappresentate dalla responsabilità per la “rottura brutale” della concessione di fido e dalla responsabilità per concessione “abusiva” di credito ad una impresa in crisi con suo conseguente “forzato mantenimento in vita” a danno di altri creditori. È principio applicato sin dal XIX secolo in altri ordinamenti (in specie, francese e belga) quello secondo il quale la banca compie un illecito quando, senza avere dato alcun avvertimento o preavviso, chiude il credito che aveva fino a quel momento accordato al cliente. Infatti la banca, avendo, per suoi precedenti comportamenti, indotto nel suo cliente imprenditore la convinzione di poter far conto con una certa stabilità sul credito accordatogli, sarà responsabile non solo per il fatto in sè della chiusura del credito ma a maggior ragione per aver determinato un pregiudizio effettivo all’impresa sovvenzionata che, trovandosi con l’acqua alla gola, dovrà nel giro di giorni, o peggio di ore, cercare altre fonti di liquidità per sopravvivere (oltre che per far fronte al debito derivante dall’improvvisa chiusura del credito).
Il suddetto principio ha iniziato ad essere recepito dalla dottrina italiana allorché ha teorizzato la responsabilità della banca per l’interruzione inopinata della concessione di fido, facendo un netto richiamo agli artt.1175 e 1375 cod. civ. Infatti tali norme attinenti all’esecuzione del contratto forniscono un criterio di valutazione del comportamento delle parti attraverso l’applicazione dei principi di correttezza e buona fede. È assurto agli onori della cronaca uno dei primi casi in cui la giurisprudenza ha riconosciuto una tale responsabilità di un istituto di credito: “Non può non convenirsi che il caso Caltagirone è insorto soltanto per l’inatteso comportamento dell’I.C.C.R.I. che dopo avere elargito credito più di ogni altro, ha ritenuto suo interesse revocare in un unico contesto, tale credito, esigendo l’immediato rientro delle centinaia di miliardi erogati senza alcuna cautela”. Il rilievo dato, nella motivazione di questa sentenza, alla reiterazione del credito non vuol certo significare che il cliente, sol per il fatto della concessione del fido,
acquisisca un diritto alla prosecuzione del rapporto; la responsabilità della banca, quindi, non scaturisce sic et simpliciter dalla chiusura del credito, bensì dai comportamenti tenuti dalla banca, tali da far sorgere nell’imprenditore la convinzione di poter contare su quella fonte di credito.
L’operatività del principio codicistico di buona fede nell’esecuzione del contratto è stata espressamente confermata nella seguente pronuncia della Corte Suprema: “Resta pur sempre da rispettare il fondamentale principio dell’esecuzione dei contratti secondo buona fede, alla stregua del quale non può escludersi che, anche se pattiziamente consentito in difetto di giusta causa, il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito sia da considerare illegittimo, ove in concreto esso assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari”, dato che un tale comportamento lede la ragionevole aspettativa di chi, sulla base di quanto normalmente accade nei rapporti commerciali, abbia fatto affidamento sulla disponibilità della provvista per il tempo previsto. Una tale responsabilità è configurabile per la banca oltre che nei confronti dell’affidato anche verso i terzi per aver causato l’insolvenza con il suo brusco abbandono. A partire da questa sentenza si è iniziata a configurare la proponibilità di una exceptio doli allorquando il recesso della banca dal rapporto con il cliente avvenga in contrasto con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto. In pratica, atteso che oltre la legittimità del recesso per giusta causa, anche la legittimità del recesso ad nutum è sindacabile da parte del giudice di merito – dato che, secondo autorevole dottrina, la differenza tra quest’ultimo ed il recesso per giusta causa sarebbe di ordine processuale, poiché nel primo caso è la parte che ha interesse ad impedire l’effetto risolutivo del recesso a dover provare che esso è privo di ragioni giustificatrici, invece nell’altro caso è il recedente che ha l’onere di provare la sussistenza della giusta causa – potrebbe sostenersi che il recesso puro e semplice non possa essere considerato tout court come rimesso alla libera determinazione della banca.
D’altra parte, la banca può decidersi per una seconda ipotesi limite, cioè continuare a concedere credito all’impresa in crisi, il che rappresenterebbe di certo una encomiabile decisione quale aiuto all’affidato perché esca indenne da uno stato di difficoltà transitorio, ma che, d’altronde, si potrebbe trasformare in una responsabilità extracontrattuale nei confronti dei terzi che, fidandosi della esperienza e della professionalità della banca persistente nel sostegno creditizio, continueranno ad essere convinti che l’impresa finanziata sia meritevole ancora di credito e fiducia.
A seguito delle numerose nuove disposizioni regolanti l’attività bancaria e in conseguenza della evoluzione del dibattito dottrinale e giurisprudenziale, lo scenario per la banca si presenta abbastanza inquietante: infatti, è estremamente esile la linea di delimitazione tra comportamenti ‘abusivi’ riconducibili nell’area dell’illecito e comportamenti non solo ammessi per legge, ma oltretutto imposti dallo specifico oggetto dell’attività bancaria. La legittimità del comportamento della banca bisogna andarla a ricercare in quell’incerta terra di nessuno che divide l’area della temporanea difficoltà dell’impresa dall’area dell’insolvenza. Infatti, la responsabilità della banca finanziatrice può escludersi quando all’atto della concessione del credito essa poteva senza alcun ragionevole dubbio prevedere che l’impresa fosse in grado di restituirlo. Pertanto, le essenziali valutazioni e decisioni della banca, quale parte maggiormente esposta per i danni materiali e di immagine, devono scaturire da un netto superamento sia di (frequenti) atteggiamenti deresponsabilizzati sia di (pesanti) carenze informative, in definitiva deve essere riconsiderato e migliorato il modo di impostare il rapporto banca-impresa.
3.3 Un chiarimento sul concetto di insolvenza
Prima di affrontare le tematiche relative ai comportamenti della banca forieri di responsabilità nella gestione dei rapporti con imprese sull’orlo di una probabile crisi, è bene dire qualcosa in merito alle impostazioni dottrinali e alle posizioni giurisprudenziali relative al ricorrente concetto di ‘insolvenza’.
Tale complesso concetto presenta, secondo autorevole dottrina, connessioni multiple con settori tanto economici e aziendalistici quanto, e a maggior ragione, con il settore giuridico. Il giurista, però, nella prospettiva del fallimento, non indaga l’insolvenza nelle sue cause economico-aziendali, ma verifica se un certo fenomeno sia o meno sussumibile al di sotto della nozione di insolvenza così come fissata dall’art. 5 legge fallim. Comunque, fermo restando che il concetto di insolvenza è essenzialmente di carattere normativo, non si può escludere che nella fase di accertamento dell’insolvenza si tenga in considerazione la componente dinamica dell’attività imprenditoriale, per cui la situazione economica e finanziaria è soggetta a continui flussi e riflussi, tant’è che alcune tesi della dottrina propongono una valutazione prospettica dell’insolvenza.
Il pensiero della dottrina, secondo una puntuale impostazione ermeneutica del dato normativo, si articola principalmente lungo due direttrici. Secondo la prima, l’insolvenza significherebbe incapacità patrimoniale ad adempiere, cioè, a differenza dell’inadempimento che incide su di un ben preciso rapporto obbligatorio, l’insolvenza è uno stato del patrimonio del debitore tale che l’attivo è insufficiente a coprire il passivo dell’impresa. La tesi patrimonialistica sottolinea anche la differenza tra insolvenza (situazione immutabile e definitiva del patrimonio dell’imprenditore) e temporanea difficoltà ad adempiere che si identifica con una crisi di liquidità temporanea che può essere superata mediante la moratoria dell’amministrazione controllata. Di tutt’altro avviso è la seconda impostazione dottrinaria che è proclive ad una tesi personalistica tendente a valorizzare la condotta del debitore che darebbe luogo all’insolvenza laddove non fosse capace di adempiere alle proprie obbligazioni in modo prolungato. Una terza ricostruzione del concetto di insolvenza cerca di porre in una prospettiva unitaria le tesi patrimonialistica e personalistica, dato che nelle loro rispettive argomentazioni sono individuabili delle sovrapposizioni. Infatti pur attenendosi alla definizione di insolvenza quale stato del patrimonio del debitore non si può trascurare la condotta del debitore che, a prescindere dalla dimensione patrimoniale dell’impresa, è carente di solerzia nel soddisfacimento dei creditori e che, pertanto, alimentando il proprio discredito commerciale scatena una situazione di insolvenza rilevante ai sensi dell’art. 5 legge fallim. Secondo autorevole dottrina, “il legislatore, in altri termini, ai fini della valutazione dell’insolvenza, non pretende che il debitore abbia mantenuto e dimostri di poter mantenere una condotta irreprensibile nei confronti di tutti i creditori, ma si accontenta di una più generica regolarità dell’attività solutoria valutata nel suo complesso: singoli ritardi, singole anomalie nell’adempimento vengono tollerate, purché il quadro d’insieme appaia rassicurante, e purché, soprattutto, appaia imminente il ritorno ad una situazione di piena tranquillità.”
In breve, tenendo presente la relazione intercorrente tra insolvenza e impresa, le tre tesi descritte possono così essere sinteticamente schematizzate:
1. se l’impresa è l’attività economica esercitata dall’imprenditore, di per sé contraddistinta da dinamicità, non è possibile valutare lo stato di insolvenza sulla base di parametri patrimoniali e dunque statici,
2. al contrario, bisogna fare riferimento al parametro che misura tale dinamicità e che si identifica appunto con la dimensione finanziaria dell’impresa stessa,
3. oppure, le due prospettive dell’insolvenza, la patrimonialistica e la personalistica, vengono riformulate unitariamente attraverso una valorizzazione della valutazione della condotta del debitore secondo un giudizio prognostico che ne sappia cogliere il prevedibile andamento futuro in rapporto ai tempi di scadenza delle obbligazioni.
A differenza della molteplicità di opinioni che si riscontrano in dottrina, la giurisprudenza, al contrario, utilizza approcci orientati ad un accertamento sulla condotta del debitore più che sulla consistenza del suo patrimonio, secondo una impostazione ermeneutica dell’art. 5 legge fallim. che semanticamente distingue tra insolvenza ed insolvibilità: mentre la prima allude alla condotta del non pagare, la seconda evoca l’impossibilità patrimoniale di pagare. In pratica il decisore applica l’art. 5 legge fallim. attenendosi a tre elementi:
1. l’insolvenza attiene ad un fenomeno dinamico, per cui sarebbe logicamente incongruo ricorrere per il suo accertamento ad un criterio statico, qual è quello patrimoniale,
2. valutazione non delle cause dell’insolvenza, bensì di tutte le esteriorizzazioni negative (inadempimenti, pagamenti anomali, svendita di beni, ecc.) che determinano la lesione delle ragioni creditorie,
3. considerazione dell’insolvenza come impossibilità definitiva di adempiere alle obbligazioni da parte dell’imprenditore a causa di una grave anomalia nell’impresa che genera illiquidità.
La complessità della fattispecie dimostra con quanta cautela la banca che concede un fido ad una impresa debba muoversi nel valutare il punto di non ritorno nel quale effettivamente diventa irreversibile l’incapacità di adempiere da parte dell’imprenditore, onde evitare delle “ingerenze” intempestive e/o imprudenti (improvvisa revoca dell’affidamento/concessione abusiva di credito) nell’impresa, foriere di responsabilità per la banca.
3.4 Responsabilità della banca per revoca ex abrupto dell’affidamento
A questa ipotesi si possono ricondurre dei comportamenti quali, per esempio, il recesso immotivato da un contratto di apertura di credito, l’inatteso ritorno all’osservanza rigorosa dei limiti dell’affidamento concesso, dopo aver tollerato frequenti sconfinamenti dell’affidato. Ad accomunare queste fattispecie, di per sé abbastanza eterogenee, è la possibilità di ascrivere alla banca, a titolo di responsabilità, gli esiti di un dissesto causato da un esercizio un po’ precipitoso della discrezionalità nella concessione del credito. Il problema della responsabilità della banca per il dissesto scaturente dai casi suddetti non poteva non emergere prima o poi in una situazione in cui è sempre prevalente il capitale di credito su quello di rischio con la conseguenza di instaurare una tensione finanziaria di natura ormai endemica nelle imprese italiane, grandi o piccole che siano. Ma se ciò non bastasse, a consolidare questa situazione socio-economica ci si mette anche la dottrina giuridica che va delineando un concetto sempre più sofisticato di insolvenza che viene inquadrata non più come un mero squilibrio patrimoniale tra mezzi liquidi propri e passività, bensì come mancanza di flussi finanziari anche se derivanti da indebitamento a breve. In un tale scenario la revoca o la restituzione improvvisa dell’affidamento determina una crisi che è facile prevedere irreversibile e pertanto basta poco ad indicare la banca quale causa scatenante il dissesto dell’impresa e ad indirizzarle un j’accuse per i danni causati sia all’impresa sia ai creditori di questa, divenuta insolvente per il venir meno delle liquidità necessarie a far fronte alle proprie obbligazioni.
3.4.1 Profili di responsabilità “contrattuale” della banca per revoca della concessione di fido
Per poter valutare i comportamenti della banca nell’ipotesi di responsabilità per inadempimento contrattuale nei confronti dell’imprenditore privato indebitamente dell’affidamento non si può che partire da una accurata analisi svolta non solo sotto il profilo della precisa definizione dei termini del rapporto contrattuale, ma in particolare sotto quello di una loro valutazione alla luce dei principi generali di buona fede e correttezza che devono governare l’esecuzione del contratto. Ad ulteriore sostegno di una definitiva chiarezza del rapporto che si va ad instaurare e per evitare interruzioni immotivate e immediate esigibilità del credito, il legislatore è intervenuto con l’art.117 co. 1° del T.U. bancario che, riproducendo l’art.3 co.1° della L.154/92, sancisce il principio della forma scritta per i contratti relativi alle operazioni ed ai servizi bancari e finanziari, disciplinando le modalità di definizione del contenuto del contratto con particolare riguardo al ‘costo globale’ del credito, alle modificazioni contrattuali e allo jus variandi ; inoltre, tramite l’art.10 L.154/92 si è posto fine alla querelle infinita circa l’invalidità (o meno) della fideiussione omnibus illimitata modificando gli artt.1938 e 1956 cod.civ. che rispettivamente sanciscono la necessaria indicazione dell’importo massimo garantito per fideiussioni condizionali e tutelano la liberazione del fideiussore per obbligazione futura. A proposito del diritto di recesso da parte del fideiussore c’è da osservare che “la clausola contenuta nel modello ABI non attribuisce una efficacia immediata al recesso del fideiussore, neppure quando la comunicazione giunge in possesso dell’ente bancario, poiché esso necessita di un tempo ‘necessariamente ragionevole’ per provvedere. Pare strano che la banca in forza della sua organizzazione e dei mezzi tecnologicamente avanzati dei quali dispone, non possa dare immediata efficacia alla volontà di recedere del fideiussore nel momento in cui riceve la lettera raccomandata [a firma del recedente].” Pertanto “la violazione di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (nella specie tra banca e fideiussore) comporta non l’inefficacia del contratto stesso ma l’obbligo della parte responsabile di risarcire il danno.”
Le suddette innovazioni legislative circa la forma e le modalità del contenuto del contratto vanno senza dubbio ad incidere sulla nascita del contratto e svolgono una azione preventiva sull’insorgenza di intralci nella fase di esecuzione, tuttavia il punto chiave dal quale può sorgere l’affermazione di una eventuale responsabilità per l’interruzione abusiva del credito è da individuare in un dovere di comportamento a carico della banca volto a garantire l’aspettativa di non interruzione del flusso finanziario in assenza di chiari sintomi premonitori di rischio. Avendo, dunque, presente un rapporto creditizio in atto e quindi rispondente ad uno standard esigibile nel suo svolgimento, consideriamo il recesso dall’apertura di credito e come esso è disciplinato dall’art.1845 cod. civ., ai sensi del quale “l’apertura di credito è contratto a tempo indeterminato, per cui ciascuna parte può recedervi mediante preavviso, da darsi con l’osservanza del termine stabilito.”, altresì nel caso in cui la banca si obblighi a mettere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro per un periodo determinato di tempo, salvo patto contrario, la banca può recedere dal contratto prima della scadenza del termine solo per giusta causa (art.1845, co.1°). La dottrina ritiene che sia applicabile per analogia anche all’apertura di credito a tempo indeterminato il primo comma dell’art.1845 cod.civ.; tuttavia, “benché pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, in ragione della durata a tempo indeterminato del contratto, è da considerarsi illegittimo il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari.” In queste due forme di contratto, dunque, l’aspetto che maggiormente ha suscitato l’interesse della dottrina e della giurisprudenza è la modalità dell’esercizio del recesso che rientra tra gli atti unilaterali recettizi e produce effetti solo da quando è pervenuto a conoscenza della controparte cui è destinato. Allorché la banca decide di ricorrere all’esercizio del diritto di recesso, questo deve basarsi su di una giusta causa e deve essere munito di congruo preavviso. Fino a pochi anni or sono la giurisprudenza riteneva non necessaria la sussistenza di una giusta causa affinché la banca potesse esercitare il recesso e per quanto riguardava il preavviso si considerava più che sufficiente il preavviso di un giorno e addirittura con comunicazione verbale. A scuotere la monotonicità delle motivazioni a ciclostile che si stilavano su questo argomento ha provveduto una pronuncia del Tribunale di Roma che ha affermato “la vessatorietà, ai sensi degli artt.1469-bis ss., delle clausole che attribuiscono alla banca il diritto di recedere in mancanza di un giustificato motivo e senza un ragionevole preavviso.[…] il preavviso secondo quanto dispone il 3° co. dell’art.1845, non può essere inferiore a quindici giorni e non v’è alcuna contrattazione individuale che possa giustificare la riduzione di tale termine.” A partire da una sentenza del genere si è iniziato ad evidenziare una condotta arbitraria della banca che esercita il recesso “in tronco” e con un termine di rientro praticamente inesistente, perché il famigerato “preavviso di un solo giorno” indicato nell’art.6 delle n.u.b. in realtà è una richiesta di restituzione immediata delle somme da parte dell’accreditato: quindi, come sottolineato dalla Cassazione, la suddetta clausola “svuota l’apertura di credito delle ragioni stesse per le quali viene normalmente convenuta”. Come conseguenza di tale comportamento la sanzione comminata è il risarcimento del danno economico e talvolta si è ipotizzato anche un danno alla reputazione economica. Tuttavia, si potrebbe condividere anche quanto la dottrina ha ritenuto essere un giusto deterrente per una simile condotta, cioè che “ben più efficace sia il rimedio dell’inefficacia del recesso, privo di un congruo termine di preavviso.” Un secondo aspetto di particolare rilievo nel recesso dal contratto si ha quando per l’efficacia del recesso non è richiesta una giusta causa e si tratta perciò di recesso ad nutum. In tal caso la dottrina ha specificato che “l’effetto estintivo del vincolo contrattuale dovrebbe, a rigore, prodursi per mera volontà del recedente, insindacabile in sede giudiziaria. Ma anche a questo riguardo si è finito con il fare applicazione dell’art.1375 cod. civ., essendo il recesso ad nutum atto di esecuzione del contratto dal quale si recede.” Solo rapportando la disciplina del recesso ad nutum all’art.1375 cod. civ. è possibile verificare se il diritto di recesso è stato esercitato legittimamente o è frutto di un esercizio abusivo del diritto.
Ai fini della questione in esame rileva in modo particolare il problema della decorrenza degli effetti di un recesso immotivato consistenti nella immediata sospensione dell’utilizzazione del credito (ex artt.1845 e 1461 cod. civ.) e nell’obbligo di restituzione delle somme già utilizzate. Per quanto concerne l’obbligo del cliente di restituzione delle somme, nonostante il previsto termine di quindici giorni, viene ritenuto applicabile il principio della decadenza del beneficio del termine ex art.1186 cod. civ. nelle ipotesi in cui il debitore sia divenuto insolvente o abbia diminuito per fatto proprio le garanzie. Comunque, per quanti casi di crisi finanziarie di imprese si possano considerare, per quante siano le cause che le provocano, e le esistenti possibilità di superarle resta il fatto che formule stereotipe quali “notizie preoccupanti circa le condizioni economiche dell’impresa”, “scarsa mobilitazione del conto”, “inattesa scarsa solvibilità dell’accreditato” non possono, in genere, integrare sic et simpliciter l’elemento della “giusta causa” per la revoca dell’affidamento. La questione va ben al di là della configurazione o meno della giusta causa del recesso, perché vi sono problemi ancor più complessi di inquadramento delle ripercussioni sull’equilibrio economico dell’impresa e dei terzi creditori. È calzante la metafora della possibile reazione a catena innescata dalla banca: chiusura degli affidamenti – inevitabile emersione della crisi latente nell’impresa – accelerazione dei tempi di “cottura” dell’impresa – stato di irreversibilità. Alcuni profili di responsabilità della banca nell’insolvenza dell’impresa finanziata sono emersi, ad esempio, in un caso di omesso tempestivo accredito di un assegno che avrebbe permesso di eliminare lo scoperto del conto, da ciò ne era conseguito il protesto di due assegni emessi successivamente dal correntista e di rimbalzo la revoca degli affidamenti presso altre banche. La responsabilità della banca nella fattispecie veniva collegata alla condotta ritenuta illecita della banca ovvero all’inadempimento contrattuale della stessa, da cui era derivato se non tutto, almeno in parte lo stato di dissesto dell’impresa: quindi, rispettivamente rilevavano gli artt.2043 e 1218 cod. civ. Un altro caso di responsabilità, per lesione provocata al diritto di credito del prenditore per mancato pagamento dell’assegno e successivo fallimento del traente, è stato ravvisato per una banca che aveva alterato l’ordine cronologico di pagamento ai rispettivi beneficiari degli assegni emessi da un proprio correntista, lasciando accantonato un titolo che era coperto al momento in cui le era pervenuto, ma non lo era più all’atto della registrazione. Un ulteriore profilo di responsabilità della banca può emergere nei confronti di chi abbia prestato garanzie reali o personali in favore dell’impresa finanziata. È stato descritto il caso della banca che, consapevole dello stato di crisi in cui versa l’impresa, revoca l’affidamento ma non chiede al cliente l’immediato rientro dell’esposizione, e preferisce continuare ad incassare interessi sullo scoperto fintanto che è capiente la garanzia che assiste il finanziamento.
L’altra faccia della medaglia per la banca nella brusca interruzione del credito, ove dovesse intervenire il fallimento dell’accreditato, è da individuare nell’alea della revocatoria delle rimesse effettuate dal debitore sul conto. La giurisprudenza, pur considerando la mancata revoca del fido un argomento contrario alla scientia decoctionis, tuttavia valuta la repentina chiusura degli affidamenti alla stregua di una presunzione di conoscenza della situazione di crisi dell’impresa. Nelle decisioni più recenti la giurisprudenza limita la revocabilità alle rimesse in conto corrente non meramente ripristinatorie ma aventi effettivamente efficacia solutoria, e per questo motivo lesive della par condicio creditorum, e non ai versamenti destinati a ridurre l’esposizione concessa effettuati nel periodo sospetto.
La restituzione del fido revocato può nascondere per l’imprenditore una imputazione di bancarotta preferenziale relativamente ai pagamenti effettuati prima o durante la procedura fallimentare, a condizione che sussista di già uno squilibrio patrimoniale. L’indebita preferenza sanzionata ex art.216 legge fallim. può essere esclusa dalla non intenzionalità di alterare la par condicio creditorum perché l’imprenditore debitore ritiene di riuscire a pagare tutti i creditori, sia pure in ritardo. La dottrina ha anche ipotizzato un concorso doloso del creditore favorito (per es. la banca) nel caso si presupponga “una prognosi infausta sulla situazione patrimoniale del debitore”.
Abbiamo cercato di elencare alcuni comportamenti anomali della banca creditrice forieri di responsabilità per revoca brutale dell’affidamento, tuttavia una volta acquisita la seppur minima certezza della irreversibilità del dissesto dell’impresa finanziata e superando qualsiasi dubbio il comportamento della banca che revoca, in modo più o meno doloroso per il debitore, l’affidamento oltre che essere consentito ex artt.1186 e 1461 cod. civ., risulta in realtà anche stringente per non cadere nella brace della responsabilità per concessione “abusiva” di credito, con annesse eventuali conseguenze anche di ordine penale.
3.5 Responsabilità della banca per concessione “abusiva” del credito
L’improvvisa e ingiustificata revoca dell’affidamento da parte della banca configura un comportamento di per sé deplorevole e sanzionabile perché può rappresentare una condanna definitiva per l’impresa in crisi e allo stesso tempo un danno per i creditori di questa che, a causa del sopraggiunto fallimento, si vedono pregiudicare le aspettative di credito. Tuttavia, già in questa fattispecie di responsabilità della banca si può ravvisare un altro comportamento ancor più inquietante (termine spesso usato fuor di luogo, ma qui mi sembra il più adatto), cioè la concessione abusiva di credito ad un’impresa oramai in stato di insolvenza. Infatti, se a volte una pur vaga parvenza di crisi di una impresa ha posto in stato di panico una banca, alla pari di un elefante al cospetto di un topolino, molte altre volte, invece, il “ceto bancario”, sprezzante del pericolo, ha preferito indossare il camice dello scienziato folle à la Frankenstein cercando di mantenere artificiosamente in vita o di prolungare forzosamente l’attività dell’impresa abusivamente finanziata. In entrambe le fattispecie considerate, i terzi hanno contrattato con un’impresa finanziata, ma mentre nel primo caso è stato leso un diritto di credito dei terzi, pur se nella forma di aspettativa di realizzarlo, nel secondo caso ciò che viene lesa è una aspettativa pura e semplice, cioè la libera determinazione nelle scelte economiche di un soggetto. In dottrina si parla di lesione della libertà contrattuale in senso positivo, quando l’attività del terzo induce a concludere un contratto che altrimenti non si sarebbe concluso, ed in senso negativo quando l’attività del terzo induce a non concludere un contratto che viceversa si sarebbe concluso. In pratica queste due definizioni si adattano perfettamente alle due fattispecie di cui trattiamo, si pensi, nel primo caso, a Tizio che stipula con l’impresa finanziata un contratto dal cui inadempimento gli deriverà un danno per depauperamento, contratto che mai e poi mai avrebbe concluso se non fosse rimasto abbagliato da una situazione economica fittiziamente brillante per il comportamento della banca. Nel secondo caso, invece, a Caio il danno deriverà dalla rottura delle trattative in corso con l’impresa finanziata a causa della notizia circa la presunta insolvenza tirata fuori dal ceto bancario per revocare in modo arbitrario gli affidamenti in essere all’imprenditore preso di mira.
Tuttavia, dato che nell’ordinamento vigente non vi è una norma che imponga, in generale, la non concessione di credito ad imprese in difficoltà economica, l’unico modo perché l’agire ‘abusivo’ della banca risultasse rilevante sul piano della responsabilità civile consisteva nel qualificarlo come violazione del dovere generico di neminem laedere di cui all’art. 2043 cod. civ. e del dovere di correttezza. Infatti, proprio seguendo un tale orientamento la corte di Cassazione, con la sua sentenza del 1993, che si segnala per essere un leading case, inquadrava e delineava la figura di cui stiamo parlando: “Costituendo la corretta erogazione del credito dovere primario nel sistema bancario, l’abusiva concessione del credito ad impresa potenzialmente insolvente, rendendo probabile la lesione di tale sistema, può concretare nei confronti dei terzi colpa extracontrattuale.” Il caso volle che la sentenza riguardasse non i danni subiti dai creditori di un impresa insolvente, bensì gli specifici effetti, nei rapporti tra varie banche, derivanti dal comportamento di una di esse, che, guarda caso, aveva assecondato un uso improprio del conto corrente da parte di un cliente. Questa sentenza, come giustamente si è fatto rilevare, si pone giuridicamente e temporalmente come uno spartiacque tra vecchie e nuove concezioni sulla funzione bancaria: infatti, pur partendo dalla teoria della banca come soggetto investito di una pubblica funzione, necessariamente conclude riconoscendole una responsabilità scaturente dalla violazione dei doveri di correttezza e diligenza insiti in qualsivoglia attività imprenditoriale, e a maggior ragione anche in quella bancaria, proprio per la sua peculiarità. Lo status professionale dell’imprenditore bancario impone una più rigorosa valutazione della sua condotta nell’ambito del traffico giuridico, così innalzando il dovere di diligenza che gli incombe al fine di evitare il verificarsi di dannosi eventi a carico di terzi.
L’argomento, di cui trattasi, non è privo di insidie, poiché da parte del decisore è indispensabile, più che mai, una non comune capacità di valutare una materia complessa e, al contempo, di gestire la propria discrezionalità nel verificare se alla banca sia ascrivibile la responsabilità ex art.2043 cod. civ., senza oscillare da un estremo ampliamento dell’area di sanzionabilità ad una aprioristica esclusione di responsabilità. Perciò, per la considerazione, a tutela comunque della imprenditività della banca e del funzionamento del mercato, di porre ragionevoli limiti all’insorgere di oneri di responsabilità, deriva la necessità, sentita dalla giurisprudenza e da parte della dottrina, di circoscrivere le ipotesi di responsabilità della banca ai soli casi di dolo o “elevato grado di colpa”. Comunque, l’azione di responsabilità per concessione abusiva di credito oltre che un deterrente diretto a costringere le banche al rispetto degli obblighi di comportamento, rileva come strumento adatto a far superare una obsoleta funzionalizzazione dell’impresa bancaria e ad educare ad una imprenditorialità fondata su: a) specializzazione della valutazione del merito creditizio, b) assistenza alle imprese tramite consulenza sulle strategie finanziarie, c) diligenza professionale che sovrintende alla corretta erogazione del credito.
3.5.1 Profili di responsabilità “extracontrattuale” per comportamenti abusivi della banca
Avendo presenti le considerazioni fatte nel paragrafo precedente e per una corretta analisi dei motivi che portano a far definire ‘abusiva’ la concessione di credito terremo presente, nel prosieguo, una sentenza notevole del Tribunale di Foggia sia per il caso paradigmatico deciso (trattasi della nota vicenda concernente l’esito rovinoso dei rapporti intercorsi tra un pool di banche ed il “Gruppo Casillo”) sia per la precisa sistemazione della materia, tanto da poterla definire “una summa sul tema della concessione abusiva di credito”, anche per come in essa la parte di fatto si incastra in modo ben congegnato nella parte strettamente giuridica.
Prima di esaminare la decisione assunta dalla sentenza su citata e di esaminare la motivazione, evidenziamo gli elementi oggetto della decisione del Tribunale di Foggia. Si tratta, come è intuibile, dell’azione con la quale il curatore chiede alla banca il risarcimento del danno subito dai creditori terzi per abusiva concessione del credito al fallito. Tale azione rientra fra quelle derivanti dal fallimento ed è di competenza del tribunale fallimentare dovendosi ritenere il pregiudizio come subito da tutti gli altri creditori (azione di massa), in analogia a quanto previsto circa i presupposti dell’azione revocatoria fallimentare. Inoltre, il curatore, ex art.240 legge fallim., è legittimato a far valere la responsabilità penale degli amministratori della banca che a seguito della concessione abusiva del credito al debitore in seguito fallito ne hanno ritardato il fallimento. Infine, pur prescrivendosi l’azione di responsabilità per risarcimento del danno in cinque anni dalla dichiarazione di fallimento, tale termine viene interrotto da qualsiasi atto idoneo a porre in mora il debitore.
Tra gli elementi individuanti la fattispecie della concessione abusiva di credito, in primo luogo rileva tutta l’incoerenza dell’operazione rispetto alle condizioni patrimoniali dell’impresa affidata. L’elemento incisivo che contraddistingue la condotta della banca convenuta è nell’aver concesso il finanziamento (nell’arco di tempo 1992-1993) in una situazione di insolvibilità conosciuta (dolo) o quantomeno conoscibile (colpa) perché “le prime difficoltà del gruppo risalivano al 1989, ma quanto meno dalla fine del 1991 era noto che ‘la situazione della Casillo Grani era sofferente’, e, quindi, la funzione creditizia a partire da questa data era stata svolta in maniera distorta.” Ma se ciò non bastasse, la situazione d’insolvenza era stata nel 1993 oggetto anche di una ‘pubblica confessione’ da parte della Capo gruppo che anche per conto delle altre società del gruppo aveva comunicato alla Direzione Generale delle Dogane di non poter più effettuare le esportazioni verso l’Algeria, e di tutto questo aveva informato le banche creditrici chiedendo ulteriore finanziamento. A questo punto si venne a creare un pool di banche coordinato dall’A.B.I. che a fronte di una richiesta di circa 210 mld. ne concesse 16 che servirono “considerato l’avanzato stato di decozione[delle società del gruppo], a procrastinare ulteriormente l’evento fallimento, consentire il ‘riordino’ parziale dei rapporti Banche cliente, cercare di sottrarsi alle responsabilità conseguenti.” In pratica, l’insolvenza, già nota al ‘ceto bancario’, essendosi manifestata esteriormente a metà del 1993 segna il momento a quo, nel magma di questa vicenda, inizia a cristallizzarsi a carico degli istituti di credito la responsabilità per aver ritardato il fallimento a proprio vantaggio e viene quindi a delinearsi la lesione della par condicio creditorum. Il nesso causale è da individuare nel collegamento tra la condotta della banca, che violando uno “specifico dovere di astensione” continua ad erogare credito e mantiene artatamente in vita una impresa già in stato di decozione procrastinandone il fallimento, e il danno subito dagli altri creditori sia anteriori che posteriori al finanziamento abusivo.
In merito alla valutazione dell’elemento soggettivo nel comportamento del banchiere che non si astiene dal concedere credito all’imprenditore ormai patrimonialmente compromesso, qualche autore ha accennato alla possibilità di strutturare il comportamento del finanziatore come una fattispecie di “concorso” nella violazione di un obbligo di comportamento posto a tutela della generalità dei creditori ex art.218 legge fall. che considera reato il comportamento dell’imprenditore commerciale “che ricorre o continua a ricorrere al credito dissimulando il proprio dissesto”. A questa tesi, tuttavia, non mancano obiezioni come quella che sostiene che una tale ricostruzione del comportamento del finanziatore è inaccettabile perché tramite un tale ragionamento si andrebbe a configurare un dovere di comportamento come se esistesse una norma che vieta non solo alla banca, ma a chicchessia, di concedere credito, consapevolmente o per colpa, all’impresa in dissesto. Secondo altro autore, la ratio della disposizione dell’art.218 l. fall. è ravvisata nello scopo di salvaguardare il patrimonio di chi concede il credito dal pericolo di inadempimento derivante dallo stato di dissesto dell’imprenditore, per cui nel ricorso abusivo al credito non può in alcun modo ritenersi concorrente colui che concede il credito, assumendo egli, nella struttura del reato, la posizione di soggetto passivo. Tuttavia, anche se la strutturazione comportamentale suddetta non appare convincente, c’è nelle disposizioni penali della legge fallimentare una norma che dispiega un’ampia protezione della sfera giuridica di tutti i creditori, cioè l’art.217, 1° co., n.4 legge fallim., che prevede la punibilità, a titolo di bancarotta semplice, dell’imprenditore insolvente, in seguito dichiarato fallito, che “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”. In pratica, ciò vuol dire che, per inosservanza di questa norma, si può individuare una violazione, provocata o favorita dalla concessione abusiva di credito, in cui prende corpo l’antigiuridicità del fatto costitutivo della responsabilità aquiliana e di conseguenza il danno ingiusto arrecato ai terzi creditori. In breve, nel ricostruire il puzzle dei comportamenti costituenti una tale fattispecie si può benissimo trovare posto per un tassello riguardante la ricorrenza di concorso della banca, che concede o continua a concedere credito all’imprenditore insolvente, nella violazione (sanzionata penalmente nel caso in cui dalla omessa manifestazione dello stato di insolvenza consegua un aggravio del dissesto) dell’obbligo giuridico dell’imprenditore insolvente di presentare istanza di fallimento sua sponte.
Riepilogando, possiamo dire che si presentano ipotesi di concessione abusiva di credito, giuridicamente sanzionate, allorché ricorrano i seguenti elementi :
a) comportamento doloso o colposo grave volto a finanziare un imprenditore non in grado di far fronte all’obbligazione;
b) danno ingiusto consistente in :
1) ritardata dichiarazione di fallimento;
2) pregiudizio economico arrecato ai creditori, diversi da quelli bancari, anteriori e posteriori della società fallita;
c) nesso di causalità tra il danno subito dai creditori e la condotta del banchiere.
Particolare rilievo ha assunto in questa fattispecie la legittimazione attiva del curatore fallimentare nel proporre l’azione di risarcimento dei danni, per concessione abusiva di credito, in favore della massa dei creditori. Per il Tribunale di Foggia “Il ritardo nella dichiarazione del fallimento ha danneggiato tutti i creditori concorsuali.[…] La curatela ha lasciato chiaramente intendere che considera danneggiati tutti i creditori insinuati, fatta eccezione per le banche che hanno causato il danno e, quindi, che esercita un’azione di massa.” Il giudice del Tribunale di Foggia considerando anche le difficoltà di calcolo dell’ammontare del danno subito dai creditori anteriori e posteriori ha ritenuto di richiamare e confermare la più recente giurisprudenza francese che ha considerato il danno arrecato dal comportamento della banca come danno anche alla massa dei creditori del fallimento. Per altra giurisprudenza di merito, la curatela non è legittimata ad esercitare la relativa azione risarcitoria perché la disciplina fallimentare non le riconosce una funzione generale di rappresentanza dei diritti dei creditori fallimentari distinta da quella attribuita in vista della gestione del patrimonio fallimentare. La Cassazione, decidendo su ricorso della banca contro sentenza del Tribunale di Foggia del 11.12.2000, ha precisato che “l’azione proposta dal curatore fallimentare per far valere la responsabilità della banca per concessione ‘abusiva’ di credito all’imprenditore fallito non rientra nella competenza funzionale del tribunale fallimentare.”
In merito alla questione della legittimazione del curatore, la Corte di legittimità, ad avviso del Tribunale di Foggia, “ha liquidato la questione con sorprendente approssimazione” e non ha considerato che se il banchiere è ricorso a comportamenti abusivi foraggiando l’imprenditore in crisi allo scopo di lucrare qualche ben notorio vantaggio, “nemmeno la dottrina più prudente o più vicina alle banche dubita della illiceità del fatto o della legittimazione del curatore, perché in tale situazione il curatore interviene per ristabilire il principio di cui all’articolo 2741 cod. civ.”. Per stabilire se il curatore fallimentare sia legittimato o meno ad esperire l’azione risarcitoria occorre tener presente e valutare precipuamente la finalità dell’azione. Il curatore, quale rappresentante degli interessi del ‘ceto creditorio’ può esercitare le azioni di responsabilità, anche diverse da quelle espressamente previste, perché il suo compito preminente è quello di conservare o ricostruire l’attivo quale sarebbe dovuto essere senza l’illecito sostegno delle banche e senza la conseguente ritardata cessazione dell’attività. In base a quanto disposto dagli art 2394 cod. civ. e art.146 legge fallim., a seguito dell’intervenuta dichiarazione di fallimento le azioni di risarcimento individuali si trasformano da strumenti di tutela del singolo creditore in strumento di reintegrazione del patrimonio del fallito. Pertanto, “l’azione del risarcimento del danno da abusiva concessione del credito all’imprenditore, che consente la continuazione dell’attività imprenditoriale, aggravando il pregiudizio, è una azione di massa, anche sotto il profilo della responsabilità ex art.2394 cod. civ.”. Tale posizione è da condividere come pure sono da valutare positivamente le critiche mosse alla su citata ordinanza della Cassazione di diverso orientamento, infatti nel caso specifico l’azione del curatore volta al risarcimento del danno è senz’altro un’azione di massa, perché il suo risultato ha una ricaduta sull’intera situazione patrimoniale del debitore. Circa la natura dell’azione di danni per abusiva concessione di credito, se si debba ricorrere, anche se analogicamente, agli artt.2394 o 2395 cod. civ. è questione che concerne da un lato i creditori della banca e dall’altro la banca che ha commesso l’illecito, considerando attentamente come si configura il rapporto intercorrente tra l’istituto di credito e l’eventuale responsabilità dei suoi amministratori.
Per concludere, su un tema così delicato e a prescindere (ma obbligati a riflettere) da situazioni ‘degenerate’ come quelle oggetto delle su citate sentenze, ciò che rileva da quanto sin qui detto è l’esistenza di elementi di debolezza nel modello standard di rapporto banca-impresa che pongono nettamente allo scoperto il sistema bancario sul piano della responsabilità. È chiaro che da precedenti decisionali ben calibrati possono anche gemmare affermazioni di responsabilità della banca soltanto fondate su facili e sbrigativi giudizi ex post. Non bisogna sottovalutare l’elemento soggettivo che, prescindendo da conclamati comportamenti censurabili, occorre considerare in modo attento per individuare quanto la banca conosceva o avrebbe dovuto conoscere dello stato di dissesto dell’impresa all’atto del finanziamento. Il momento, e il modo, in cui si decide di concedere il credito è di una tale delicatezza che basterebbe poco a far giudicare la banca ‘amministratore di fatto’ dell’impresa finanziata: in pratica, qualche decisore potrebbe ipotizzare che la banca in virtù del credito concesso abbia condizionato, seppure in modo mediato, le scelte gestionali dell’impresa contribuendo al peggioramento della situazione. Si è prospettato in dottrina il rischio di delineare a carico della banca una vera e propria responsabilità oggettiva con il rischio di addossare a quest’ultima il rischio dell’impresa finanziata.
Dal quadro significativo tracciato, con discorso limpido e dovizia di particolari, da parte del giudice del Tribunale di Foggia si possono trarre amare considerazioni ma si possono anche individuare germi di positività. È evidente, innanzitutto, che per le PMI uno stato di difficoltà può risultare fatale. La stessa figura carismatica dell’imprenditore, fattore di successo nelle fasi fisiologiche, può divenire un ostacolo al superamento della crisi, per es.: proprio per aver instaurato in loco rapporti ‘particolari’, per non dire ‘anomali’, con il ceto bancario (l’affare Casillo docet). Proprio in questi casi balza ancor di più all’evidenza la necessità di una riforma della legge fallimentare, delle procedure concorsuali, della stessa disciplina sanzionatoria della concessione abusiva del credito. Infatti così come è oggi impostato il quadro normativo non va, si percepisce la necessità, e per questo fervono convegni e studi in merito, di un ammodernamento e adeguamento per rimuovere carenze e rigidità, per realizzare una più efficiente ed efficace disciplina delle procedure per la gestione delle crisi come già da tempo avviene in ambito europeo. Sul tema dei rapporti tra banche e imprese in crisi nella prospettiva di un risanamento aziendale torneremo nel successivo capitolo.
4
Capacità riorganizzative del sistema bancario volte alla ripresa delle attività imprenditoriali del debitore
4.1 Crisi di impresa e soluzioni stragiudiziali
Nei capitoli precedenti abbiamo considerato la centralità del rapporto banca-impresa in tutti i momenti della vita dell’azienda, nel bene con l’erogazione del credito e nel male con la revoca ingiustificata del credito, o, peggio, con la sua concessione abusiva. Queste due fattispecie rappresentano gli esiti finali nei rapporti finanziari tra banca e impresa secondo una ottica tradizionale che fa sì che l’istituto di credito, a prescindere dalle ipotesi di indebite collusioni, si venga a trovare in una situazione della quale ha perso il controllo per carenze informative ed altri fattori che hanno impedito l’individuazione dei primi sintomi della crisi e, al momento topico, di valutarne la gravità, ma, cosa ancora più importante, non tenendo in alcuna considerazione la prospettiva di reversibilità dello stato di crisi. Infatti, secondo la più recente dottrina aziendalistica, “la crisi va vista non più soltanto come evento traumatico che può causare la fine dell’impresa, ma anche come momento di riflessione e di cambiamento, fonte di opportunità.” Tale opportunità la si può cogliere con maggior certezza solo se l’evidenziazione della crisi viene anticipata a tal punto che il fenomeno “si allontana dal diritto fallimentare, rientrando nell’alveo del diritto di impresa”. È in questa prospettiva che trovano giustificazione e assumono, da un lato, obbligatorietà l’acquisizione di informazioni sulle imprese finanziate e, dall’altro, essenzialità l’intervento partecipativo in un piano di risanamento aziendale. In assenza di una azione di impulso della banca, si verificherebbe l’assurdo di lasciare tutta l’iniziativa per la soluzione della crisi nelle mani della sola impresa interessata, che potrebbe, per svariati motivi, non comportarsi come operatore razionale e preferire rimandare alle calende greche ogni decisione in merito o accettare soluzioni subottimali, mettendo così in pericolo gli interessi dei creditori bancari e non bancari, dei dipendenti, degli azionisti in minoranza.
In questo capitolo cercheremo di considerare quanto fondamentale possa essere, ancora una volta, il ruolo degli istituti di credito nella ricerca di una soluzione alla crisi e nella sua gestione. Nei processi di risanamento, ormai, viene rivolta crescente attenzione al ruolo attribuibile alle banche e alle soluzioni alternative definite, in contrapposizione alle procedure concorsuali, ‘soluzioni privatistiche o stragiudiziali’.
Per quanto concerne queste ultime, bisogna dire che esse, unitamente alla presenza di investitori disponibili a scommettere sul risanamento di una azienda, possono svolgere una azione positiva anche nei confronti del mercato in generale, permettendo la conservazione di valore in aziende in cui l’alternativa fallimentare porterebbe ad una inevitabile distruzione. Tuttavia, recenti ricerche empiriche hanno individuato “all’interno di un significativo campione di investitori istituzionali, pochissimi operatori dichiaratamente dediti in modo abituale all’attività di finanziamento di imprese in crisi (1 operatore nella ricerca del 2000; due operatori nel 2002)” , quindi una sostanziale assenza in Italia di tali operatori. Fra i motivi di questa inadeguata diffusione del processo di rigenerazione spiccano al 100% le problematiche di natura giuridica, infatti “gli investitori ritengono che la disciplina, soprattutto penale, contenuta nella legge fallimentare sia la ragione principale della scarsa diffusione dell’attività di turnaround financing” in quanto, per attuare un piano di risanamento, al danno di una eventuale perdita di capitale si aggiungerebbe come beffa un coinvolgimento penale personale. In Italia le tematiche valutative delle situazioni di crisi trovano ampia giustificazione nella innegabile constatazione che la gestione delle vicende della crisi, in specie delle PMI, è ancora oggi vista in una forma strettamente episodica, cioè come un fatto ricadente solo nella sfera di interessi del debitore e, a seconda dei casi, dei creditori, pertanto non è considerata come un sistema ordinato e unitario di procedure volte a facilitare la soluzione della crisi. Le procedure di risanamento, fino ad oggi, poste in essere si sono rivelate di fatto “l’anticamera del fallimento”, e la liquidazione fallimentare a sua volta si rivela molto “insoddisfacente per i creditori sia per le basse percentuali sia per i tempi di recupero.” Lo stesso istituto dell’amministrazione controllata ha dato risultati negativi imputabili al generale ritardo nella presentazione della domanda da parte del debitore. Qualche autore ormai è giunto a parlare di “fallimento del fallimento” a causa della obsolescenza della legge fallimentare e delle difficoltà in cui si dibatte il sistema giudiziario italiano. Per le banche il problema assume proporzioni più ampie, tenendo presente il loro ruolo precipuo nel finanziamento dell’economia e la particolarità della struttura finanziaria nettamente intermediary oriented delle imprese italiane. Gli effetti negativi a cascata che ne derivano riguardano l’aggravamento del rischio di credito, in termini percentuali di perdite, inoltre vengono intaccate le risorse disponibili per finanziare iniziative imprenditoriali sane e meritevoli, e infine si deteriora la capacità competitiva degli operatori italiani rispetto a quella di altri paesi, cosa non da poco in una era di globalizzazione economica.
Dalla presa di coscienza degli esiti negativi delle procedure concorsuali nasce la ricerca di soluzioni alternative e tra queste quella che viene riconosciuta dagli studiosi come la più efficace è l’accordo stragiudiziale per due sue caratteristiche fra di loro interrelate: la flessibilità e la maggiore efficienza sia in termini di tempo che di costi. Se ne ricorrono le condizioni, l’imprenditore può, invece di affrontare il tribunale, presentarsi ai propri creditori e proporre una via d’uscita con la stipulazione di un “accordo (convenzione) con i creditori atto a rimuovere lo stato di insolvenza e a consentire una ristrutturazione del passivo aziendale.” Dato che si è discusso in ordine alla legittimità di tali accordi e al loro buon esito a fronte di una inevitabile contrapposizione delle parti alimentata da un conflitto di interessi, basti qui ricordare che il negozio è consentito dal legislatore e che attraverso il perseguimento della massimizzazione del valore economico aziendale si può trovare un punto di convergenza tra i diversi interessi in gioco e, componendo gli interessi di tutte le parti coinvolte, si può massimizzare il risultato utile per i creditori. Giuridicamente si è dibattuto se una tale convenzione, definita come contratto atipico, innominato, individuato dalla finalità di rimozione dello stato di insolvenza, abbia natura di contratto plurilaterale o di fascio di contratti bilaterali, come invece è stato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, visto che nel caso di negozio plurilaterale basterebbe il venir meno della volontà di uno dei coobbligati a far cadere l’intero negozio. Nonostante la grande varietà di casi, che non rendono facile l’impostazione di un modello unitario, i contenuti della convenzione devono rispondere ad una esigenza prioritaria che “è quella di impedire il fallimento rimovendo lo stato di insolvenza dell’impresa e provvedendo alla sua messa in liquidazione o, in alternativa, alla sua ricapitalizzazione.”
4.2 Il ruolo delle banche nei risanamenti aziendali
In qualsiasi tipo di soluzione negoziale è basilare il ruolo positivo delle banche per la riuscita del piano di risanamento. Il ceto bancario, quale principale creditore, è il primo soggetto investito dal problema dell’insolvenza del cliente e deve, perciò, avere la capacità di affrontare la scelta comunque difficile tra la richiesta di un fallimento e la possibilità di un salvataggio. I creditori bancari devono avere il coraggio di guardare oltre il cortile di mere scelte recuperatorie che inducono a disinteressarsi delle sorti dell’impresa e sviluppare, invece, competenze e strumenti adatti a promuovere e sostenere il risanamento dell’organismo produttivo in crisi reversibile. Il valore dell’operatore bancario professionalmente qualificato deve venir fuori in una tempestiva percezione dello stato di crisi dell’impresa finanziata, consigliando idoneamente l’imprenditore per superare le difficoltà. Proprio lo strumento del rating interno può mettere le banche in condizione di individuare con anticipo le evoluzioni sfavorevoli di certi andamenti aziendali. I principi fissati nel Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi d’impresa statuito dall’A.B.I. perseguono la finalità “della ricerca di strumenti collaborativi di soluzione delle crisi [di natura finanziaria] mediante il coinvolgimento dei soggetti bancari e finanziari interessati, anche a livello di gruppo, ed in particolare dell’impresa e dei creditori della stessa, tenuto conto del determinante contributo che in tale contesto può offrire il sistema creditizio. Certe volte, il contributo delle banche può risultare determinante anche in taluni casi di situazioni di crisi di natura produttiva e strutturale, ove la ricerca di una soluzione presuppone un accordo più articolato tra una pluralità di soggetti (banche, intermediari finanziari, imprese fornitrici, società del gruppo in crisi) che si impegnano nell’attuazione del piano di risanamento approvato.”
La soluzione negoziale della crisi aziendale può interessare in particolar modo le banche maggiormente esposte che pongono in essere una strategia cooperativa che è legata all’attesa di vantaggi cha vanno da una limitazione della perdita ad un contenimento degli effetti a catena o di aggravio del dissesto e alla possibilità di sfruttare la situazione per offrire altri servizi. Anche in caso di strategia cooperativa, comunque, la banca deve evitare i rischi dovuti tra l’altro alla eterogeneità degli interessi coinvolti, all’alea della revocatoria dei nuovi affidamenti concessi in caso di successivo fallimento dell’imprenditore, alle responsabilità derivanti da mandati di amministrazione. Tra le possibili cause di insuccesso di un accordo, emerge l’eventualità del dissenso anche di singoli creditori a causa della eventuale sperequazione degli interessi in gioco. Un titolare di credito garantito in via ipotecaria e quindi non interessato al proseguimento dell’attività di impresa, oppure un creditore in disaccordo sull’attuazione del piano di risanamento, potrà presentare istanza di fallimento e mandare all’aria tutto quanto. I punti particolarmente critici evidenziati dalla dottrina nello schema di intervento stragiudiziale sono la necessità di assunzione a maggioranza delle decisioni relative al risanamento e la possibilità di azioni aggressive dei creditori dissenzienti e ciò, specie in Italia, in assenza di mercati secondari dei titoli di debito di aziende in crisi (distressed securities) che consentano un valido incentivo all’accettazione di un piano di ristrutturazione per la possibilità di trovare sul mercato una via d’uscita.
Comunque, la giurisprudenza ha negato la configurabilità dello stato di insolvenza in presenza di un pactum de non petendo, anche se privo dell’unanimità dei creditori, in quanto un tale accordo in ogni caso incide sull’inadempienza, escludendola in virtù dell’impegno dei creditori a non azionare i loro crediti per un dato periodo di tempo: la possibilità di dichiarare lo stato di insolvenza riprende vigore solo quando il patto non venga rispettato per la revoca dei fidi e per il non intervento dei mezzi finanziari promessi per soddisfare i creditori non bancari. D’altronde, se in corso di attuazione del piano non dovesse risultare più realizzabile il risanamento, la revoca dei fidi da parte degli istituti di credito sarà del tutto legittima, poiché l’adesione all’accordo non affievolisce i principi generali in materia né smantella la difesa del proprio credito.
In seguito al nuovo T.U. bancario la partecipazione delle banche creditrici al capitale di rischio non presenta più particolari problematiche, salvo l’autorizzazione della Banca centrale. Questa ha in parte regolamentato le soluzioni stragiudiziali dettando precise condizioni per l’acquisizione di partecipazione al capitale di imprese, finalizzabile al recupero dei crediti, in presenza di “temporanee difficoltà finanziarie” e col vincolo della necessità di smobilizzo “alla prima favorevole occasione”.
La scelta della via negoziale per il superamento della crisi di impresa dovrebbe consentire alle banche di tenersi lontano da responsabilità per concessione abusiva di credito, in quei casi in cui la predisposizione del piano di risanamento, in cui i finanziamenti sono inseriti, sia tale da presupporre una valutazione di reversibilità della crisi da parte dei creditori bancari che vi hanno aderito. Quindi, sempre che non si ravvisino mere finalità dilatorie nel programma di risanamento, in caso di una successiva degenerazione della crisi non si dovrebbe giungere ex post a determinare una diversa qualificazione del credito erogato.
Considerando che in tutti i casi di piani di salvataggio l’esigenza prioritaria è quella di impedire il fallimento rimovendo lo stato di insolvenza dell’azienda e provvedendo alla sua messa in liquidazione o, in alternativa, alla sua ricapitalizzazione. Quest’ultimo scopo può essere realizzato, per esempio, tramite la conversione di credito in capitale che in pratica equivale di fatto alla sottoscrizione da parte del creditore di un aumento di capitale e alla compensazione con il proprio credito. Permangono alcuni problemi connessi con una fattispecie del genere, come per esempio la questione dell’obbligatorietà o meno dell’OPA in ipotesi di acquisizione di partecipazioni nell’ambito di ristrutturazioni.
Conclusioni
Il fondamento della messa in opera, da parte del sistema bancario, di una politica di gestione consapevole del rischio derivante dalla più che probabile assunzione di responsabilità patrimoniale scaturente da una non corretta gestione del rapporto con l’affidato, è da individuarsi all’interno del vasto e complesso tema della diligenza dell’operatore bancario. Al contempo, però, sarebbe utopico pensare che l’adozione scrupolosa di corrette regole di selezione della clientela e di erogazione del credito, oltre al rispetto dei principi di correttezza e buona fede e all’esercizio del dovere di solidarietà sociale, come invocati dalla più volte menzionata sentenza della Cassazione del 1993, possano impedire la crisi delle imprese finanziate e le perdite a carico delle banche finanziatrici: è impensabile che possa essere del tutto eliminato il rischio insito nell’attività del banchiere e che oggi si può ripercuotere anche sui legittimi interessi di quella nuova categoria di c.d. ‘risparmiatori-investitori traditi’ che, pur muovendo senz’altro a simpatia (intesa nel più stretto senso etimologico del termine), tuttavia non possono e “non devono far velo ai limiti che la tutela del risparmio, costituzionalmente prevista, incontra in funzione del rischio connesso allo strumento finanziario prescelto.”
È più che evidente che la valutazione del rischio del credito si radica nella determinazione della capacità di rimborso del debitore nell’evolvere del rapporto o alla sua conclusione. Questa analisi, apparentemente di routine, degli equilibri finanziari caratterizzanti l’impresa richiedente, è resa complessa da fattori tecnici e fattori umani. Per quanto concerne i primi, è chiaro che le difficoltà di stima del valore economico di un’impresa si incrementino quanto più si amplia l’arco temporale in cui viene a collocarsi l’operazione di finanziamento ovvero per le condizioni di mercato oppure a causa dello stesso sistema informativo di massa in cui ogni attività umana si trova ormai immersa. Infatti, sembra strano ma purtroppo è così, pur vivendo nell’era dell’informazione più inspiegabili ed esiziali sono le carenze informative, tant’è che da una indagine si è rilevata un’alta percentuale di banche che viene a conoscenza dei mutamenti nella proprietà delle imprese affidate solo quando la cessione è già cosa fatta. La piena conoscenza della struttura della proprietà resta comunque difficilmente raggiungibile da parte della banca nei frequenti casi in cui l’impresa finanziata sia solo un nodo in una rete estesa e con ramificazioni, più o meno sofisticate, su tutto il globo. Ma in questo quadro non bisogna sottovalutare il fattore umano: infatti, allorché sarebbe necessario un intervento efficace quanto tempestivo, questo non può realizzarsi perché, da un lato, l’imprenditore tende colposamente a sottovalutare o dolosamente ad occultare la gravità della crisi, mentre, dall’altro lato, le banche, a prescindere dalle ipotesi di indebite collusioni, si ritrovano a non saper cogliere nella disponibile massa di informazioni desumibili dai dati di bilancio dell’impresa finanziata, dall’andamento dei conti correnti, dai pagamenti che transitano tramite la stessa banca, quel quid giusto per avviare un intervento efficace e tempestivo in modo da non farsi travolgere dalle rapide della crisi.
In questo scenario scattano da parte degli istituti di credito reazioni comportamentali che si possono concretizzare, da un lato, in un ‘eccesso di legittima difesa’ come il razionamento del credito e la revoca degli affidamenti ai primi segnali di difficoltà dell’impresa, oppure, all’opposto, evolvono in un laisser-faire che verrà successivamente qualificato in via giudiziale come concessione ‘abusiva’ di credito, nonostante le rimostranze da ‘fanciulla ingannata’ mosse dal datore nei confronti del prenditore di fondi.
Le osservazioni sin qui compiute sembrano indicare, a parte la carenza e quindi la necessità di una riforma dei sistemi di controllo ai vari livelli, l’esistenza, anzi il perdurare, di punti deboli nel rapporto banche-imprese, che si sperava, a seguito di riforme legislative e strutturali interessanti le prime, potesse evolvere in modo che le seconde venissero trattate come clienti attraverso la concorrenza tra banche e la concorrenza alle banche da parte di nuovi soggetti e mercati. A tutt’oggi, pur a fronte di un processo evolutivo che ha interessato le banche italiane a partire dall’introduzione del Testo Unico sino ad una disciplina comunitaria europea delle attività finanziarie, l’auspicato elemento della concorrenza tra istituti non ha minimamente scalfito il sistema bancocentrico, e pertanto si possono ancora rilevare gli elementi distintivi della debolezza del tipo più diffuso di rapporto banca-impresa. Come correttamente è stato indicato, i tre elementi sono: a) il frazionamento eccessivo delle posizioni delle imprese nei confronti delle banche; b) lo spazio ancora ampio lasciato alla concessione dei prestiti quale momento unico di soddisfacimento dei fabbisogni delle imprese; c) la carenza di una visione globale e unitaria della relazione con l’impresa che faccia capo ad un modello applicativo di riferimento sostanziale. È proprio questa carenza di globalità a incidere maggiormente sul tipo di decisioni che l’ente creditizio deve assumere nei confronti dell’impresa, specie quando questa naviga lungo il limite insidioso che separa la temporanea difficoltà dallo stato di insolvenza. La perdurante strutturale superficialità dei rapporti fra banche e imprese, con gli annessi e connessi fattori di rischio per entrambe, può essere superata attraverso una innovazione culturale che indirizzi le banche verso una professionalità che prediliga criteri selettivi e non ‘assicurativi’ nella valutazione del merito di credito degli affidamenti. Solo così potrà acquistare significato l’affermazione di una assoluta responsabilità imprenditoriale delle banche, sia nel momento in cui nega con fermezza il credito ad un’impresa non meritevole, scoraggiando iniziative destinate all’insuccesso, sia quando con oculatezza decide di finanziare ed assistere l’impresa in difficoltà.
Per concludere, un efficiente rapporto tra banche ed imprese, pur sorto a seguito di una precisa diagnosi creditizia dell’impresa, di una articolata analisi di alternative di finanziamento, di una equa considerazione di tutti gli interessi coinvolti, da quelli dei dipendenti dell’impresa in crisi a quelli degli investitori, comunque non può fare a meno della considerazione primaria, del rispetto e di una corretta applicazione dei principi e delle clausole generali di buona fede, correttezza nei rapporti, giusta causa, contenute nel codice civile.
G I U R I S P R U D E N Z A
ELENCO CRONOLOGICO DELLE PRONUNCE
(I numeri ultimi si riferiscono ai paragrafi)
CORTE DI CASSAZIONE
Cass. Sez. U. 29.01.1971, n.174 in Giur. it., 1971, 1, 680, 3.5
Cass. 26.02.1979, n.1254, in Il dir. fallim., 1980, II, 475, 3.4.1
Cass. 11.04.1992, n.4463, in Fall., 1992, 811, 4.2
Cass. 07.05.1992, n.5421, in Foro it., 1992, I, 879, 2.4
Cass. 26.06.1992, n.8012, in Fall., 1992, 812, 3.3 – 4.2
Cass. 19.11.1992, n. 12383, in Foro it., 1992, I, 234, 4.2
Cass. 10.12.1992, n.13095, in Fall., 1993, 595, 1.2
Cass. 13.01.1993, n.343, in Foro it., 1993, 2695, 89, 3.5
Cass. 20.05.1993, n. 5736, in Fall.,1993, 1135, 3.3
Cass. 18.10.1994, n.8496, in Not. Giur. Lav.,1995, 10, 3.4.1
Cass. 13.01.1996, n.12, in Foro it.,1996, I, 530, 3.4.1
Cass. 24.09.1996, n.8409, in Foro it.,1996, 131, 573(m), 3.4.1
Cass. 08.01.1997, n.72 in Banca, borsa, t.c.,1997, II, 653, 1.3.1
Cass. 08.01.1997, n.72 in Foro it.,1997, 1813, 112, 3.1
Cass. 21.05.1997, n.4538, in Banca, borsa, t.c.,1997, II, 648, 3.2 – 3.4.1
Cass. 15.03.1999, n.2284, in Guida al diritto,1999, 19,46, 3.4.1
Cass. 14.07.2000, n. 9321, in Contratti, 2000, 1111, 3.4.1
Cass. 16.11.2000, n.14859, in Foro it., 2000, 841 3.4.1
Cass. 22.11.2000, n.15066, in Foro it., 2000, 841, 3.4.1
Cass. 19.06.2001, n.8303, in Foro it., 2001, 813, 3.1
Cass. 09.10.2001, n.12368 (ord.), in Il dir. fallim., 2001, II, 1375, 3.5.1
CORTE D’APPELLO
App. Milano 27.10.1986, in Banca, borsa, t.c.,1987, II, 404, 3.4.1
App. Bari 31.12.1990, in Fall., 1991, 523, 3.3
App. Cagliari 21.01.1994, in Banca, borsa, t.c.,1995, II 3.4.1
App. Milano 08.06.1999, in Banca, borsa, t.c.,2000, II, 568, 1.3.1
App. Bari 22.03.2002, in Foro it., 2002, 831, 3.1
App. Milano 10.05.2002, in Giur. It., 2003, 502, 3.4.1
App. Roma 30.01.2003, in Guida al Diritto, 2003, 15, 87, 3.4.1
TRIBUNALE
Trib. Milano 08.02.1982 in Banca, borsa, t. c.,1982, II, 74, 3.4.1
Trib. Milano 09.12.1982 in Banca, borsa, t.c., 1983, II, 456, 3.1
Trib. Roma 28.02.1983, in Foro it.,1984, I, 1986, 3.2
Trib. Milano 14.04.1986, in Banca, borsa, t.c.,1987, II, 404, 3.4.1
Trib. Roma 01.08.1991, in Fall., 1992, 427, 3.3
Trib. Torino 12.11.1991, in Fall., 1992, 93, 3.3
Trib. Cagliari (ord.) 28.11.1995, in Banca, borsa, t.c.,1999, II, 354, 1.3.1
Trib. Roma 24.02.1997, in Banca, borsa, t.c.,1999, II, 253, 3.4.1
Trib. Roma 23.07.1997, in Fall., 1998, 423, 3.3
Trib. Napoli 24.11.1997, in Fall., 1998, 423, 3.3
Trib. Roma (ord.) 10.03.1998, in Banca, borsa, t.c., 1999, II, 452, 1.3.1
Trib. Roma (ord.) 05.08.1998, in http://www.adusbef.it, 1.3.1
Trib. Brindisi (ord.) 20.07.1999, in http://www.adusbef.it, 1.3.1
Trib. Genova 28.10.1999, in Fall., 2000, 809, 3.3
Trib. Brindisi (ord.) 26.09.2000, in Banca,borsa,t.c., 2002, II, 219, 1.3.1
Trib. Roma 21.01.2000 in Giurispr. Comm., 2000, II, 211, 3.1 – 3.4.1
Trib. Lecco 05.12.2000 in Giur. It., 2003, 502, 3.4.1
Trib. Foggia 11.12.2000 in Il dir. fallim., 2001, II, 545, 3.5.1
Trib. Milano 21.05.2001 in Banca, borsa, t.c., 2001, II, 264, 3.5.1
Trib. Salerno Sez. Eboli, 22.4.02 in Dir. e Prat. Soc.,2002,14/15,94, 1.3.1
Trib. Foggia 07.05.2002 in Il dir. fallim., 2002, II, 510, 3.5 – 3.5.1
TRIB. AMM.VO REGIONALE.
TAR del Lazio (ord.) 13.12.1995, in Banca, borsa, t.c., 1996, II, 524, 4.2
CONSIGLIO DI STATO
Cons. Stato (ord.) 22.12.1995, in Banca, borsa, t.c., 1996, II, 523, 4.2
B I B L I O G R A F I A
A.B.I.
[2000] Codice di comportamento tra banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare le crisi d’impresa, Roma.
[2003] La gestione del portafoglio crediti, Atti convegno presso la sede ABI, Roma.
A.B.I. – CONFINDUSTRIA
[2000] Obiettivi comuni per un rafforzamento del rapporto banca-impresa, Atti convegno presso la sede ABI, Roma.
A.B.I. – PROMETEIA
[2000] La gestione dei servizi finanziari alle PMI nell’esperienza delle banche europee, Roma.
ALBERTI S.– NASETTI O. (a cura di)
[1994] Ristrutturazione e Turnaround, CSB, Vezia, Bellinzona, CH.
ALPA G.
[1987] L’ingiustizia del danno, in Giur. sist. civ. e comm.
AMATUCCI A.
[1979] Temporanea difficoltà e insolvenza, Liguori, Napoli.
ANGELINI P. – CETORELLI N.
[2000] Bank Competition and Regulatory Reform: The Case of the Italian Banking Industry, Temi di Discussione, n. 380, Banca d’Italia, Roma.
BANCA D’ITALIA
[1999] Circolare Banca d’Italia, n.209, Roma.
[2003] Relazione annuale, Roma.
BASEL COMMITTEE ON BANKING SUPERVISION
[2001a] The New Basel Capital Accord, BIS, Basel.
[2001b] Customer Due Diligence for Banks, BIS, Basel.
Becattini G.
[1990] The Marshallian Industrial District as a Socio-Economic Notion, in Becattini – Pyke – Sengenberger, Industrial Districts and Inter-Firm Cooperation in Italy, International Institute for Labour Studies, Geneva, CH.
.
BELCREDI M.
[1997] Le ristrutturazioni stragiudiziali delle aziende in crisi in Italia nei primi anni ’90, Mediocredito Lombardo, Milano.
BERGER A.N. – UDELL G.F.
[1995] Relationship Lending and Lines of Credit in Small Firm Finance, in Journal of Business, vol.68, n.3.
BERTOLI G.
[2000] Crisi d’impresa, ristrutturazione e ritorno al valore, Egea, Milano.
BOCCUZZI G.
[1997] L’inefficacia delle procedure di gestione delle crisi in Italia. Possibili linee evolutive, in “Crisi d’impresa, procedure concorsuali e ruolo delle banche”, Quaderni della consulenza legale, n.44, Banca d’Italia, Roma.
[2003] Il rilievo strategico delle procedure concorsuali di risanamento per la soluzione della crisi, intervento al Convegno su “Il valore strategico per le PMI della riforma della disciplina delle crisi aziendali”, Bari, 28 marzo 2003.
BONELLI F.
[1997] Nuove esperienze nella soluzione stragiudiziale delle crisi delle imprese, in Giurisprudenza Commerciale, n.24.
BORGIOLI A.
[1981] Responsabilità della banca per concessione “abusiva” di credito? in Giurisprudenza Commerciale, I.
BRIERLY P. – VLIEGH G.
[1999] Corporate Workouts, the London Approach and Financial Stability, in Financial Stability Review.
BUSETTA P. – SACCO S.
[1998] L’evoluzione del sistema creditizio meridionale tra rimedi necessari ed errori evitabili in Busetta-Sacco-Silipo (a cura di), Mezzogiorno senza credito, Quaderni del Centro Ricerche Economiche “A. Curella”, n.12, Giuffrè, Milano.
CAPRA L. – D’AMICO N. – FERRI G. – PESARESI N.
[1994] Assetti proprietari e mercato delle imprese, il Mulino, Bologna.
CAPRIO L. (a cura di)
[1997] Gli strumenti per la gestione delle crisi finanziarie in Italia, Mediocredito Lombardo, Milano.
CASELLI S.
[2003] PMI e sistema finanziario. Comportamento delle imprese e strategia delle banche, Egea, Milano.
CASTIELLO D’ANTONIO A.
[1995] Il rischio per le banche nel finanziamento delle imprese in difficoltà: la concessione abusiva del credito, in Dir. Fallim.
[2002] La responsabilità della banca per “concessione abusiva del credito”, in Dir. Fallim.
CASTRONOVO V.
[2000] Storia dell’industria italiana, Mondadori, Milano.
CAVALLI G.
[1994] Norme bancarie uniformi e accordi interbancari, in Dig. disc. priv. sez. comm., vol. X, UTET, Torino.
CESARINI F.
[1994] Rapporti tra banche e imprese in Italia: due punti di debolezza, in Econ. e Polit. Indus., n.83.
[1996] Le banche creditrici dell’impresa in crisi: ruolo, responsabilità, problemi, in Banca, borsa, titoli e credito, I.
CIUFFREDA A.
[1998] Profili critici di storia della legislazione bancaria e del mercato finanziario, Cacucci, Bari.
CONIGLIANI C. – FERRI G. – GENERALE A.
[1997] La relazione banca-impresa e la trasmissione degli impulsi della politica monetaria, in Moneta e Credito, n.2.
CONTI G.
[1997] Banche e imprese medie e piccole nella periferia economica italiana in Cesarini-Ferri-Giardino (a cura di), Credito e sviluppo. Banche locali cooperative e imprese minori, il Mulino, Bologna.
CORIGLIANO R.
[1991] Le relazioni banca-impresa. Assetto creditizio ed efficienza allocativa, Egea, Milano.
COTTA RAMUSINO E.
[1998] Imprese e industria finanziaria nel processo di globalizzazione, Giuffrè, Milano.
CUIGNET R.
[1976] La responsabilité juridique du banquier donneur de crédit, in Revue de la banque, 1976, p.4 ss.
CUSIMANO G. – VASSALLO E.
[2001] Credito e sviluppo nel Mezzogiorno, in Riv. Bancaria, 1.
[2003] Indebitamento finanziario e profittabilità delle imprese medie e grandi dell’indagine Mediobanca, in Riv. Bancaria, 1.
DANOVI A.
[2003] Crisi d’impresa e risanamento finanziario nel sistema italiano, Giuffrè, Milano.
DESARIO V.
[2000] Il ruolo delle banche nelle crisi di impresa: il punto di vista della Banca d’Italia, intervento presso l’A.B.I., Roma.
DE SENSI V.
[2001] Spunti di riflessione sulla riforma della legge fallimentare, in Dir. fall. I.
FAINI R. – GALLI G. – GIANNINI C.
[1992] Finance and Development: The Case of Southern Italy, Temi di discussione, n.170, Banca d’Italia, Roma.
FAZIO A.
[1996] Gestione dei rischi e redditività delle banche italiane, Documenti, n.528, Banca d’Italia, Roma.
FERRI G.
[1988] Manuale di diritto commerciale, UTET, Torino.
FOCARELLI D. – PANETTA F. – SALLEO C.
[1999] Why do Banks Merge? Temi di Discussione, n. 380, Banca d’Italia, Roma.
FORESTIERI G.
[1992] Rischio del credito e finanza dell’impresa, in Economia e Management, 6.
[1995] Banche e risanamento delle imprese in crisi, Egea, Milano.
FORESTIERI G. – ONADO M.(a cura di)
[1992], Banche e mercati mobiliari, Egea, Milano.
FRANZONI M.
[1999] Degli effetti del contratto, vol.II, Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori, in Il codice civile, Commentario, Giuffrè, Milano.
GAGGERO P.
[1998] Responsabilità civile della banca, in Giurispr. Comm., I, 95.
[1999] La modificazione unilaterale dei contratti bancari, Cedam, Padova.
GALGANO F.
[1976] Storia del diritto commerciale, il Mulino, Bologna.
[1985] Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa.
[1987] Civile e penale nella responsabilità del banchiere, in Contratto e impresa, 1.
[1998] Abuso del diritto: l’arbitrario recesso ad nutum della banca, in Contratto e impresa, 18.
[1999] Diritto civile e commerciale, vol.II, Le obbligazioni e i contratti, t.I, Obbligazioni in generale. Contratti in generale, Cedam, Padova.
GALLI G. (a cura di)
[1990] Il sistema finanziario nel Mezzogiorno, Banca d’Italia, Roma.
GATTI S.
[1998] L’offerta dei servizi di corporate finance per le imprese di piccola e media dimensione in Italia: struttura, prodotti, concorrenza ed evidenze empiriche, in Quaderni di Politica Ind.le, n.23.
GAVALDA C. – STOUFFLET J.
[1997] Droit bancaire, Litec, Paris.
GIANNOTTI C.
[2001] Evoluzione del rapporto tra banche e piccole-medie imprese italiane: inquadramento teorico ed evidenze empiriche, in Studi e Note di Economia, 2.
GILARDONI A. – DANOVI A.
[2000] Cambiamento Ristrutturazione e Sviluppo dell’Impresa, Egea, Milano.
GILSON S. – JOHN K. – LANG L.
[1989] Troubled debt restructuring: an empirical study of private reorganization of firms in defaults, in Journal of Applied Corporate Finance, n.2.
GUATRI L.
[1995] Turnaround Declino Crisi e Ritorno al Valore, Egea, Milano.
GUERRA P.
[1995] Ristrutturazione del debito e assistenza finanziaria all’impresa: il c.d. consolidamento dei crediti bancari, in Banca, borsa, tit., cred. I, 807.
HELLWIG M.
[1993] Attività bancaria, intermediazione finanziaria e finanza d’impresa in Marotta, G. e Pittaluga G.B. (a cura di), La teoria degli intermediari bancari, il Mulino, Bologna.
HOFFMAN R.
[1989] Strategies for corporate turnaround: what do we know about them?, in Journal of General Management, n.3.
IAPPELLI T. – PAGANO M.
[2001] Tribunali e banche: effetti della crisi della giustizia civile sul mercato del credito, intervento al workshop Mercati finanziari, sistema legale e tutela giudiziaria, 11.5.2001, Napoli.
INZITARI B.
[1993] Concessione abusiva del credito: irregolarità del fido, false informazioni e danni conseguenti alla lesione dell’autonomia contrattuale, in Dir. bancario.
[2001] La responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, borsa, t.c., I, 265.
JENSEN M.C.
[1989] Active investors, LBO’s and privatization of bankruptcy, in Journal of Applied Corporate Finance, n.1.
KING R.G. – LEVINE R.
[1993] Finance and Growth: Schumpeter Might be Right, in Quarterly Journal of Economics , vol.108, n.3.
LIACE G.
[2003] La responsabilità civile della banca, Giuffrè, Milano.
LLEWELLYN D.T.
[1999] The New Economics of Banking, SUERF, Amsterdam.
LUISE T.
[1997] Il rapporto banca-impresa verso un nuovo modello di sviluppo, in Banche e banchieri, 1.
MACCARONE S.
[2003] Le fonti ‘privatistiche’ del diritto bancario, in Spena A. -Gimigliano G.(a cura di), Le fonti del diritto bancario, Giuffrè, Milano.
MAIMERI A. – NIGRO A. – SANTORO V.
[1991], Contratti bancari, Giuffrè, Milano.
MANES P.
[1999] Diritto di recesso dal contratto di apertura di credito a tempo indeterminato e violazione della buona fede, in Contratto e impresa, 920.
MARSHALL A.
[1879] The Economics of Industry, London,[trad. it. Economia della produzione, ISEDI, Milano, 1975]
MARZONA N.
[1994] Lo status (professionalità e responsabilità) dell’impresa bancaria in una recente sentenza della Cassazione in Banca, borsa, t.c., II.
MAYER C.
[1994] The Assessment: Money and Banking: Theory and Evidence in Oxford Rev. of Econ. Policy, vol.10 n.4.
Mediocredito Centrale – Osservatorio sulle Piccole Medie Imprese
[1996] Razionamento del credito e piccole e medie imprese: aspetti teorici ed evidenze empiriche, Quaderno n.13.
MINGARRI E.
[1996] Il rapporto banca-impresa nel nuovo quadro normativo, in Banche e banchieri, 1.
MORERA U.
[1998] Il fido bancario. Profili giuridici, Giuffrè, Milano.
NANNI C.
[1983] Il rapporto di fido bancario nell’opinione delle imprese finanziate: sintesi dei risultati di una indagine campionaria, in Riv. Bancaria, n.10.
NIGRO A.
[1978] La responsabilità della banca per concessione ‘abusiva’ di credito, in PORTALE, G.B. (a cura di) [1978], Le operazioni bancarie, Giuffrè, Milano.
[2002] Note minime in tema di responsabilità per concessione ‘abusiva’ di credito e di legittimazione del curatore, in Dir. della banca e del merc. fin., 294.
NOZICK R.
[1993] La natura della razionalità, Feltrinelli, Milano.
PAGANO M.,
[1993] Financial Markets and Growth. An overview, in Eur. Econ. Rev., vol.37.
PANETTA F.
[2003] Evoluzione del sistema bancario e finanziamento dell’economia nel Mezzogiorno, Temi di Discussione, n.467, Banca d’Italia, Roma.
PANIZZA R.
[2002] Recenti trasformazioni del sistema bancario italiano ed il rapporto con il sistema delle piccole imprese, in Studi e Note di Economia, 2.
PANZANI L.
[1997] La gestione stragiudiziale dell’insolvenza, in Il Fallimento, n.6.
PEDRAZZI C.
[1995] Bancarotta fraudolenta in Pedrazzi, C. e Sgubbi, F., Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Commentari Scialoja-Branca, Legge fallimentare, Zanichelli, Bologna.
PETERSEN, M.A. – RAJAN, R.G.
[1994] The Benefits of Lending Relationships: Evidence from Small Business Data, in Journal of Finance, n.1
PIN A.
[1993] Il principio di redditività nella selezione delle richieste di fido, in AA.VV., La banca e l’economia, Giuffrè, Milano.
PORTALE G.B. (a cura di)
[1978] Le operazioni bancarie, Giuffrè, Milano.
PRATIS C. M.
[1982] Responsabilità extracontrattuale della banca per concessione ‘abusiva’ di credito ?, in Giur. comm., 1978, p.841 ss.
PREDETTI M.
[1995] La banca e l’informazione economica, Edibank, Roma.
RAGUSA MAGGIORE G.
[1994] Istituzioni di diritto fallimentare, Cedam, Padova.
[2002] La concessione abusiva del credito e la dichiarazione di fallimento, in Il dir. fallim. 2002, II, 510.
ROPPO E.
[1996] Crisi di impresa e responsabilità civile della banca, in Il fallimento, 874.
[1997] Responsabilità delle banche nell’insolvenza delle imprese, in Il fallimento, 869.
ROPPO V.
[1994] La nuova disciplina delle clausole abusive nei contratti fra imprese e consumatori, in Riv. dir. civ., I.
ROSSI G.
[1956] Il fallimento nel diritto americano, Cedam, Padova.
[1996] Crisi delle imprese: la soluzione stragiudiziale, in Riv. Soc.
RUOZI R. (a cura di)
[1996] La gestione finanziaria delle piccole e medie imprese. Strumenti e politiche di gestione, Egea, Milano.
RUTA V.
[1982] La responsabilità del banchiere, in AA.VV., La responsabilità del banchiere, Jovene, Napoli.
SALANITRO N.
[1983] Le banche e i contratti bancari in Trattato di diritto civile, vol.VIII, t. III, UTET, Torino.
SANTORO V.
[1986] L’abuso del diritto di recesso “ad nutum”, in Contratto e impresa.
SATTA S.
[1996] Diritto fallimentare, Cedam, Padova.
SCHUMPETER J.A.
[1934] The Theory of Economic Development, Harvard Univ. Press, Cambridge, MA, U.S.A..
SCIARELLI S.
[1995] La crisi di impresa. Il percorso gestionale di risanamento delle PMI, Cedam, Padova.
SCOGNAMIGLIO C.
[1997] Ancora sulla responsabilità della banca per violazione di obblighi discendenti dal proprio status, in Banca, borsa, t.c., II, 655
SCOGNAMIGLIO G.
[1999] Sulla segnalazione a sofferenza nella centrale dei rischi della Banca d’Italia, in Banca, borsa, t.c., 303
SIMON H.
[1984] La ragione nelle vicende umane, il Mulino, Bologna.
SPENA A. – GIMIGLIANO G.(a cura di)
[2003] Le fonti del diritto bancario, Giuffrè, Milano.
STIGLITZ, J. – WEISS, A.
[1981] Credit Rationing in Markets with Imperfect Information, in American Econ. Rev., vol.71, n.3.
STIGLITZ J.
[1994] Peer Monitoring in Credit Markets, in World Bank Econ. Rev., vol. 4, n. 3.
TARZIA G.
[1991] I versamenti in conto corrente bancario e la loro revocabilità, in Il fallimento, 979.
TATÒ F.
[1995] Essere competitivi, le esperienze di 2 professionisti, Baldini e Castoldi, Milano.
TERRANOVA G.
[1997] Lo stato di insolvenza, in AA.VV., Il fallimento, vol. I, UTET, Torino.
[1998] Lo stato di insolvenza, UTET, Torino.
VASSEUR M.
[1981] La responsabilité contractuelle et extracontractuelle de la banque en France, in Maccarone e Nigro (a cura di) Funzione bancaria. Rischio e responsabilità della banca, Giuffrè, Milano.
VISENTINI G.
[1999] Trattato breve della responsabilità civile, Cedam, Padova.
VITALE G. R.
[1997] Crisi di impresa e ristrutturazioni finanziarie: imprenditori, sistema creditizio, mercato finanziario, in “Crisi d’impresa, procedure concorsuali e ruolo delle banche”, Quaderni della consulenza legale, n.44, Banca d’Italia, Roma.
ZARA C.
[1995] Le banche e il risanamento delle imprese in crisi, in Economia e Management, n. 5.
Rivista di Diritto Bancario Tidona - www.tidona.com - Il contenuto di questo documento potrebbe non essere aggiornato o comunque non applicabile al Suo specifico caso. Si raccomanda di consultare un avvocato esperto prima di assumere qualsiasi decisione in merito a concrete fattispecie.
Le informazioni contenute in questo sito web e nella rivista "Magistra Banca e Finanza" sono fornite solo a scopo informativo e non possono essere ritenute sostitutive di una consulenza legale. Nessun destinatario del contenuto di questo sito, cliente o visitatore, dovrebbe agire o astenersi dall'agire sulla base di qualsiasi contenuto incluso in questo sito senza richiedere una appropriata consulenza legale professionale, da un avvocato autorizzato, con studio dei fatti e delle circostanze del proprio specifico caso legale.