Nota a Tribunale di Piacenza, sentenza n. 846 del 17 novembre 2015
Di Maurizio Tidona, Avvocato
Il Tribunale di Piacenza, con sentenza n. 846 del 17 novembre 2015, ha affermato che in tema di rapporti bancari:
“Sussiste responsabilità precontrattuale della banca per ingiustificata interruzione delle trattative finalizzate alla concessione di un finanziamento qualora il cliente abbia formulato una proposta concordata con i funzionari coerente con le indicazioni della banca risultanti da precedenti dinieghi relativi ad analogo finanziamento in differente forma, e qualora nell’imminenza della auspicata delibera la banca abbia autorizzato una serie di attività prodromiche alla ritenuta imminente concessione del finanziamento, mediante apertura di un conto corrente sul quale sia stata versata la provvista per l’acquisto subito dopo effettuato di Titoli destinati ad essere costituiti in pegno a garanzia del finanziamento stesso poi negato senza specifica motivazione”.
La sentenza piacentina è interessante perché costituisce applicazione concreta, nell’ambito dei rapporti bancari, del principio generale stabilito dall’art. 1337 c.c. il quale dispone che le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.
È indirizzo costante della giurisprudenza di Cassazione (ex multis: Cass., n. 11438/2004; conf.: Cass. n. 7768/2007) che perché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c. è necessario che:
– tra le parti siano in corso trattative giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.
Le trattative, fino a quando non sono giunte ad uno stadio di “affidamento”, presuppongono difatti la libertà di non procedere ad una stipulazione, senza alcuna responsabilità.
– che la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo.
Questo in quanto le parti hanno comunque sempre facoltà di verificare durante le trattative la propria convenienza alla stipulazione, e di recedere in ogni momento ed indipendentemente da un giustificato motivo (così Cass. n. 5297/1999). L’ingiustificato motivo assume rilievo solo ove si sia precedentemente formato il ragionevole affidamento dell’altra parte, per il concreto evolversi della trattativa e per il comportamento delle parti durante essa.
– che, infine, pur nell’ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto.
Nel caso trattato dal giudice piacentino il richiedente il finanziamento bancario sosteneva di aver inutilmente confidato nella erogazione di un finanziamento, poi non concesso, avendo la banca tenuto un comportamento contrario ai principi di buona fede e di correttezza, dapprima facendogli ragionevolmente credere fondata la possibilità della conclusione del finanziamento, sino al punto di richiedergli, quale controparte del futuro contratto, una serie di iniziative univocamente finalizzate all’erogazione del mutuo (la banca aveva richiesto ed ottenuto il versamento di un rilevante importo da vincolare a garanzia del mutuo richiesto), per poi, invece decidere, in maniera repentina e non giustificata di rifiutare il finanziamento.
Secondo il Tribunale piacentino, le trattative “affidanti” possono essere quelle nel corso delle quali le parti abbiano preso in seria considerazione gli elementi essenziali del contratto da concludere, giungendo ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l’altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto (principio di diritto ricorrente nella giurisprudenza di legittimità).
Il Tribunale di Piacenza, considerando che nel caso ad esso sottoposto le trattative erano giunte ad uno stadio tale da far legittimamente ritenere concluso il contratto, di cui le parti conoscevano e volevano (almeno apparentemente) la conclusione, ed anche che il recesso repentino dalle trattative da parte della banca fosse da ritenersi ingiustificato, ha affermato che il comportamento della banca non fosse stato conforme ai principi di buona fede ad essa imposti, i quali devono essere sempre garantiti anche nella fase delle trattative.
L’interruzione di trattative così progredite, in quanto ingiustificata, sorreggeva pertanto l’azione risarcitoria nei confronti della banca.
Il Tribunale di Piacenza ha però negato il risarcimento al cliente.
Il giudice ha difatti osservato che:
“In presenza di accertata responsabilità precontrattuale della banca grava sull’attore l’onere di provare il danno patito, inteso come interesse negativo, senza alcun ricorso a generici criteri equitativi”.
Nel caso affrontato dal giudice piacentino l’attore aveva chiesto a titolo di danno l’importo corrispondente alla rata del finanziamento non concesso. Il giudice ha pertanto negato la liquidazione non potendo l’interesse negativo corrispondere al vantaggio in ipotesi ottenibile qualora il contratto fosse stato concluso.
Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (ex multis: Cass. n. 24795/2008), il danno risarcibile è difatti quello corrispondente al cosiddetto “interesse negativo” ragguagliato al minor vantaggio o al maggior aggravio economico determinato dal comportamento tenuto dalla parte che ha violato gli obblighi di buona fede salvo “che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto”.
Trattandosi di una ipotesi di responsabilità extracontrattuale è infatti onere processuale della parte che assume l’illegittimità del recesso enunciarne le ragioni ma anche fornirne la prova nel caso concreto (così: Cass. n. 6186/2008; Cass. n. 15040/2004).
Una risalente sentenza della Corte d’appello di Roma del 17 febbraio 1988 (in Giur. it. 1991, I, 2, 640) ha egualmente ritenuto – in linea con la sentenza del Tribunale di Piacenza – che la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile (la chance) configura una lesione del diritto all’integrità del proprio patrimonio, la cui risarcibilità è però conseguenza del verificarsi di un danno emergente da perdita di possibilità attuale e mai di un futuro risultato utile.
Tale danno poteva essere in concreto liquidato – secondo il collegio romano – assumendo come parametro di valutazione l’utile economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo, oppure, soltanto ove tale criterio risultasse di difficile applicazione, con ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c., che stabilisce che se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa.
La liquidazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c. può trovare ingresso soltanto a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell’an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, e soltanto nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur (Cass. n. 127/2016).
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