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19 Dicembre 2020 In Diritto finanziario

Le Sezioni Unite della Cassazione sulla conclusione dei contratti di swap da parte dei Comuni italiani

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Cassazione civile, Sezioni Unite, n. 8770 del 12/5/2020

 

REGULAE IURIS:

  • L’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000 (laddove stabilisce che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi (…)”); non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, stesso Testo Unico.

 

  • In tema di contratti derivati, stipulati dai Comuni italiani sulla base della disciplina normativa vigente fino al 2013 (quando la L. n. 147 del 2013, ha escluso la possibilità di farvi ulteriore ricorso) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, pur potendo l’ente locale procedere alla stipula dei primi con qualificati intermediari finanziari nondimeno esso poteva utilmente ed efficacemente procedervi solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio.

 

* * *

Cassazione civile, Sezioni Unite, n. 8770 del 12/5/2020

 

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso principale della Banca è articolato in cinque mezzi di cassazione:

1.1. – Il primo motivo (che ipotizza una violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 448 del 2001, art. 41, D.M. Economia e Finanze 1 dicembre 2003, n. 389, art. 3, L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 3, commi 16 e 17 e successive modifiche; della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 739, D.L. n. 112 del 2008, art. 62, convertito dalla L. n. 133 del 2008, a sua volta modificato dall’art. 3 della L. n. 203 del 2008, nonchè dell’art. 11 preleggi), ha ad oggetto l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui il contratto di swap, in specie se con previsione di una clausola iniziale di upfront, costituisce, per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l’ente pubblico, attuale o potenziale.

1.2. – Il secondo (intitolato: violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 42, 107, 192 e 202, L. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15, L. n. 448 del 2001, art. 41, D.M. Economia e Finanze 1 dicembre 2003, n. 389, art. 3), è incentrato sull’affermazione, pure contenuta nella sentenza impugnata, per cui le delibere di accensione degli swap debbano essere adottate dal consiglio comunale, in quanto vertenti su “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi”.

1.3. – Il terzo (con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15, D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 202, L. n. 448 del 2001, art. 41, D.M. Economia e Finanze 1 dicembre 2003, n. 389, art. 3), è svolto in rapporto all’assunto per cui l’upfront avrebbe dovuto essere esplicitamente destinato ab origine (ossia, sin dal 2003-2004) a spese di investimento. Il mezzo censura altresì il principio, perchè – a dire della ricorrente totalmente privo di base normativa positiva, secondo cui occorresse indicare, negli atti amministrativi approvativi delle operazioni, una presunta destinazione a spese di investimento, atteso che, come diffusamente dedotto con il primo motivo, lo swap non ha una funzione di investimento, ma di riequilibrio del debito sottostante, con conseguente inapplicabilità della causa di nullità di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15.

1.4. – Il quarto (deducente la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 448 del 2001, art. 41, D.M. Economia e Finanze 1 dicembre 2003, n. 389, art. 3 e degli artt. 1346,1367,1418,1419,2729 e 2697 c.c.), è posto in relazione alla necessità, risultante dalla decisione impugnata, di indicare specificamente i mutui sottostanti nei contratti di swap, a pena di nullità di questi ultimi, per difetto di causa e di oggetto.

1.5. – Il quinto (che lamenta la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 1418,1467 e 1469 c.c., nonchè del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, comma 2, lett. d), art. 21 e art. 23, comma 5, L. n. 448 del 2001, art. 41, D.M. Economia e Finanze 1 dicembre 2003, n. 389, art. 3) investe l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la previsione esplicita del valore attuale dei derivati al momento della stipulazione costituirebbe elemento essenziale dell’interest rate swap, previsto a pena di nullità.

2. – L’unico mezzo di ricorso incidentale condizionato del Comune (che deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e dell’art. 30, commi 6 e 7, T.u.f.), infine, riguarda la dichiarata non applicazione della disciplina del ius poenitendi alla fattispecie decisa (in quanto applicabile al solo consumatore sprovveduto colto di sorpresa dall’intermediario) e investe un aspetto della vicenda che la Corte di appello ha espressamente qualificato assorbito.

3. – La prima sezione civile ha già rilevato che il ricorso pone due questioni, strettamente connesse, che sono centrali per vagliare la validità dei contratti di swap conclusi, in generale, dai Comuni: quella relativa alla possibilità di qualificare l’assunzione dell’impegno dell’ente locale che stipuli il contratto avente ad oggetto il nominato derivato come indebitamento finalizzato a finanziare spese diverse dall’investimento; quella concernente l’individuazione dell’organo chiamato a deliberare un’operazione siffatta (che nel caso in esame è stata disciplinata dal consiglio comunale solo attraverso “linee di indirizzo”); e che, con riguardo al primo dei temi indicati, ci si deve chiedere se, nel periodo che interessa, fosse consentita la conclusione di contratti derivati da parte degli enti locali.

3.1. – Si pone, perciò, la necessità – prima di mettere a fuoco i temi oggetto di rimessione da parte della sezione semplice – di allargare lo sguardo al fenomeno sottostante alla odierna controversia.

4. – La materia dei derivati, che interessa varie branche del diritto, è oggetto dell’attenzione di dottrina e giurisprudenza da anni, risultando controversa anche l’esistenza di una definizione unificante del fenomeno dei derivati. Infatti, la mancanza nel nostro ordinamento di una definizione generale di “contratto derivato” si spiega con la circostanza che i derivati sono stati creati dalla prassi finanziaria e, solo in seguito, sono stati in qualche misura recepiti dalla regolazione del sistema giuridico. La notevole varietà delle fattispecie che concorrono a formare la categoria dei derivati rende, però, complessa l’individuazione della ricercata nozione unitaria, dovendosi tenere conto che il fenomeno è forse comprensibile in maniera globale solo in un’ottica economica.

4.1. – Ciò giustifica, quindi, la previsione dell’art. 1, comma 2 bis, T.u.f., che contiene una delega al Ministro dell’Economia e Finanze per identificare nuovi potenziali contratti derivati: nella sostanza il legislatore italiano ha seguito quello Eurounitario, optando per una elencazione di molteplici figure e lasciando all’interprete il compito della reductio ad unum, laddove possibile.

4.2. – il caso che ci occupa vede al centro dell’indagine lo swap e, in particolare, quello più diffuso di tutti, il cd. interest rate swap (altrimenti, IRS, specie nella sua forma più diffusa o di base: il cd. plain vanilla), ossia quel contratto di scambio (swap) di obbligazioni pecuniarie future che, in sostanza, si traduce nel dovere di un Tale di dare all’Altro la cifra d (dove d è la somma corrispondente al capitale 1 per il tasso di interesse W) a fronte dell’impegno assunto dell’Altro di versare al Tale la cifra y (dove y è la somma corrispondente al capitale 1 per il tasso di interesse Z).

4.3. – L’interest rate swap è perciò definito come un derivato cd. over the counter (OTC) ossia un contratto: a) in cui gli aspetti fondamentali sono dati dalle parti e il contenuto non è eteroregolamentato come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi, essendo elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente (per questo, detto bespoke); b) perciò non standardizzato e, quindi, non destinato alla circolazione; c) consistente in uno strumento finanziario rispetto al quale l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente.

4.4. – Come per molti derivati, soprattutto quelli OTC, lo swap, per quanto appena detto, non ha le caratteristiche intrinseche degli strumenti finanziari, e particolarmente non ha la cd. negoziabilità, cioè quella capacità di rappresentare una posizione contrattuale in forme idonee alla circolazione, in quanto esso tende a non divenire autonomo rispetto al negozio che lo ha generato. Inoltre, benchè siano stipulati nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione per conto proprio, ex art. 23, comma 5, Tuf, nei derivati OTC l’intermediario stipula un contratto (con il cliente) ponendosi quale sua controparte.

4.5. – Posto che l’interest rate swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo, gli elementi essenziali di un interest rate swap sono stati individuati, dalla stessa giurisprudenza di merito, ne:

a) la data di stipulazione del contratto (trade date);

b) il capitale di riferimento, detto nozionale (notional principal amount), che non viene scambiato tra le parti, e serve unicamente per il calcolo degli interessi;

c) la data di inizio (effective date), dalla quale cominciano a maturare gli interessi (normalmente due giorni lavorativi dopo la trade date);

d) la data di scadenza (maturity date o termination date) del contratto;

e) le date di pagamento (payment dates), cioè quelle in cui sono scambiati i flussi di interessi;

f) i diversi tassi di interesse (interest rate) da applicare al detto capitale.

4.6. – Va, peraltro, ancora precisato che se lo swap stipulato dalle parti è non par, con riferimento alle condizioni corrispettive iniziali, lo squilibrio così emergente esplicitamente dal negozio può essere riequilibrato con il pagamento, al momento della stipulazione, di una somma di denaro al soggetto che accetta le pattuizioni deteriori: questo importo è chiamato upfront (e i contratti non par che non prevedano la clausola di upfront hanno nel valore iniziale negativo dello strumento il costo dell’operazione: nella prassi, il compenso dell’intermediario per il servizio fornito).

4.7. – Invero, l’IRS può atteggiarsi ad operazione non par non solo in punto di partenza, ma può divenir tale anche con il tempo. In un dato momento lo squilibrio futuro (sopravvenuto) fra i flussi di cassa, che sia attualizzato al presente, può essere oggetto di nuove prognosi ed indurre le parti a sciogliere il contratto. Per compiere queste operazioni assume rilievo il cd. mark to market (MTM) o costo di sostituzione (meglio, il suo metodo di stima), ossia il costo al quale una parte può anticipatamente chiudere il contratto o un terzo estraneo all’operazione è disposto, alla data della valutazione, a subentrare nel derivato: così da divenire, in pratica, il valore corrente di mercato dello swap (il metodo de quo consiste, insomma, in una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima del conseguente debito/credito delle parti).

4.7.1. – Nei fatti, per MTM s’intende principalmente la stima del valore effettivo del contratto ad una certa data (anche se, in astratto, il mark to market non esprime un valore concreto ed attuale, ma una proiezione finanziaria). Il mark to market è, dunque, tecnicamente un valore e non un prezzo, una grandezza monetaria teorica calcolata per l’ipotesi di cessazione del contratto prima del termine naturale. Più precisamente è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale.

5. – In un tale quadro di illustrazioni del fenomeno che va sotto il nome di IRS è assai discussa la questione della causa dello swap.

5.1. – Una giurisprudenza, con l’appoggio di parte della dottrina, tende a vedere nello swap la causa della scommessa. Ma è difficile accogliere l’idea che un’operazione di interest rate swap, destinata a regolare una pluralità di rapporti per molti anni, muovendo ingentissimi capitali su importanti mercati internazionali, sia da considerare come una qualsiasi lotteria, apparendo palese come lo swap abbia ben poco in comune con lo schema della scommessa di cui agli artt. da 1933 a 1935 c.c., della natura contrattuale della quale vi è pure stata discussione in dottrina.

5.2. – Ciò che distingue l’IRS dalla comune scommessa è proprio la complessità della vicenda e la professionalità dei soggetti coinvolti, sicchè l’impostazione più attenta rinviene la causa dell’IRS nella negoziazione e nella monetizzazione di un rischio, atteso che quello strumento contrattuale:

– si forma nel mercato finanziario, con regole sue proprie; di frequente consuetudinarie e tipiche della comunità degli investitori; riguarda un rischio finanziario che può essere delle parti, ma può pure non appartenere loro;

– concerne dei differenziali calcolati su dei flussi di denaro destinati a formarsi durante un lasso temporale più o meno lungo;

– è espressione di una logica probabilistica, non avendo ad oggetto un’entità specificamente ed esattamente determinata;

– è il risultato di una tradizione giuridica diversa dalla nostra.

5.3. – A fini puramente descrittivi e semplificativi, si potrebbe dire che l’IRS consiste in una sorta di scommessa finanziaria differenziale (in quest’ultimo aggettivo essendo presente un riferimento alla determinazione solo probabilistica dei suoi effetti ed alla durata nel tempo del rapporto).

6. – Sicchè si pone con immediatezza un primo problema, riguardante la validità dello strumento contrattuale che abbia al suo interno questo particolare atteggiarsi della causa dello swap.

6.1. – In particolare, ci si pone il problema – che è preliminare ad ogni altro pure sollevato dalla sezione semplice – se tali tipi di contratti perseguano interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. e siano muniti di una valida causa in concreto.

6.2. – Infatti, appare necessario verificare – ai fini della liceità dei contratti – se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perchè il legislatore autorizza questo genere di “scommesse razionali” sul presupposto dell’utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità. E tale accordo non deve limitarsi al mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poichè il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso dovrebbe concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti.

6.3. – Sotto tale ultimo profilo, va rilevato che le obbligazioni pecuniarie nascenti dal derivato non sono mere obbligazioni omogenee di dare somme di denaro fungibile, perchè in relazione alla loro quantificazione va data la giusta rilevanza ai parametri di calcolo delle stesse, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse (nell’IRS) e di cambio nel tempo. Sicchè l’importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l’effetto di una molteplicità di variabili.

6.4. – A tale proposito, va richiamato l’art. 23, comma 5, del TUF, il quale dispone che “Nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonchè a quelli analoghi individuati ai sensi dell’art. 18, comma 5, lett. a), non si applica l’art. 1933 c.c.”. Ma tale previsione non intende autorizzare sic et simpliciter una scommessa, ma delimitare, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegandola espressamente al settore finanziario. In questo modo, è disegnato un modello, ponendosi al massimo ancora il problema se tutti i derivati rispondano ad un unico tipo o se la distinzione tra tali tipi riguardi le classi di derivati o i singoli swaps.

6.5. – Infatti, l’intermediario finanziario è un mandatario dell’investitore, tenuto a fornire raccomandazioni personalizzate al suo assistito; sicchè ove l’intermediario, nella prestazione del servizio, compia l’operazione quando doveva astenersi o senza il consenso dell’investitore, gli atti compiuti non possono avere efficacia, a prescindere dal fatto che la condotta dell’agente sia qualificata in termini di inadempimento o di nullità, con conseguente risarcimento del danno.

6.6. – In tale quadro di corretto adempimento dell’attività d’intermediazione occorre rilevare anche la deduzione dei cd. costi impliciti, riconducendosi ad essi lo squilibrio iniziale dell’alea, misurato in termini probabilistici.

6.6.1. – Assume rilievo, perciò, la questione del conflitto di interessi fra intermediario e cliente, poichè nei derivati OTC, a differenza che in quelli uniformi, tale conflitto è naturale, discendendo dall’assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente. Va escluso il rilievo, ai fini della individuazione della causa tipica, delle funzioni, di speculazione o di copertura, dei derivati OTC perseguite dalle parti, anche se dà ad esse peso, ad esempio, per il giudizio di conformità all’interesse ex art. 21 TUF e per quello di adeguatezza ed appropriatezza.

6.7. – Appare perciò utile considerare gli swap come negozi a causa variabile, perchè suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti; così che la funzione che l’affare persegue va individuata esaminando il caso concreto e che, perciò, in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perchè non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile).

7. – Dopo aver fatto queste necessarie premesse può passarsi ad esaminare la questione (che è la base dei quesiti posti dalla sezione semplice) relativa alla stipulazione dei derivati, swap ed IRS, da parte degli enti pubblici in generale e degli enti locali, in particolare.

7.1. – Va innanzitutto compiuto una disamina del quadro normativo. 7.1.1. – Il primo richiamo è alla L. n. 724 del 1994, art. 35, che ha stabilito espressamente la possibilità per gli enti territoriali di ricorrere al mercato dei capitali attraverso l’emissione di prestiti obbligazionari destinati esclusivamente al finanziamento degli investimenti, e all’art. 2 del Regolamento di attuazione n. 420 del 1996, nella parte in cui ha previsto il ricorso a strumenti derivati mediante l’attivazione di un currency swap come copertura obbligatoria del rischio di cambio nel caso di emissioni obbligazionarie in valuta, la cui finalità è quella di evitare l’esposizione al rischio di cambio, con precipua attenzione, come espressamente evidenziato dal legislatore, a non “introdurre elementi di rischio”.

7.1.2. – La prima parte dell’art. 2 del Regolamento n. 420 del 1996 disponeva che “Per la copertura del rischio di cambio tutti i prestiti in valuta estera devono essere accompagnati, al momento dell’emissione, da una corrispondente operazione di swap. L’operazione di swap dovrà trasformare, per l’emittente, l’obbligazione in valuta in un’obbligazione in lire, senza introdurre elementi di rischio”.

7.1.3. – In tale contesto, un cambiamento avviene con la L. n. 448 del 2001, art. 41 (finanziaria per il 2002), con il quale, al fine di contenere il costo dell’indebitamento e di monitorare gli andamenti di finanza pubblica (comma 1), è stata estesa agli enti locali la facoltà di emettere titoli obbligazionari (e di contrarre mutui) con rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza – cd. titoli bullet – previa costituzione di un fondo di ammortamento del debito o conclusione di swaps per l’ammortamento del debito (comma 2, previsione poi abrogata dal D.L. n. 112 del 2008, art. 62, comma 10, come modificato dalla L. n. 203 del 2008, art. 3), il tutto sottoposto ad un potere di coordinamento finanziario in capo al Ministero dell’economia e delle finanze. 7.1.4. – Risulta evidente come il legislatore del 2001 abbia cercato di impedire il moral hazard di emettere debito, imponendo un fondo di ammortamento o un amortizing swap, cioè uno swap che costringesse l’ente pubblico ad effettuare pagamenti alla controparte dello swap in una misura per cd. equivalente ad un ipotetico piano di ammortamento del debito contratto dall’ente medesimo (Lo swap appena descritto ha finalità certamente non speculative (ammortamento del debito) e, comunque, richiede, contestualmente, la convenienza economica dell’operazione. Si è fatto notare come il legislatore abbia in fatto prescritto all’ente pubblico di guadagnare senza rischiare, il tutto all’interno del mercato dell’intermediazione finanziaria dove, connaturata all’operazione, è l’alea di rischio).

7.1.5. – La maggior parte delle operazioni in esame sono state realizzate dagli enti locali proprio nella vigenza della L. n. 448 del 2001, art. 41. Successivamente, il D.M. n. 389 del 2003 e la circolare del 27 maggio 2004 del Ministero dell’economia e delle finanze hanno regolato l’accesso al mercato dei capitali da parte degli enti territoriali relativamente alle operazioni derivate effettuate e agli ammortamenti costituiti dopo il 4 febbraio 2004, elencando le operazioni di finanza derivata vietate e consentite (unicamente nella forma plain vanilla) agli enti pubblici, i quali dovevano trattare solo con intermediari titolari di un rating non inferiore a quello indicato.

7.1.6. – La L. n. 244 del 2007 (finanziaria per il 2008) ha chiarito la necessità che le modalità contrattuali, gli oneri e gli impegni finanziari in derivati siano espressamente dichiarati in una nota allegata al bilancio e che gli enti locali attestino di essere a conoscenza dei rischi e delle caratteristiche degli strumenti finanziari utilizzati. Tale ultima legge ha rafforzato il regime dei poteri di verifica esterni con un richiamo ad un obbligo di trasparenza, con disposizioni poi abrogate del D.L. n. 112 del 2008, art. 62, comma 10 (intitolato “Contenimento dell’uso degli strumenti derivati e dell’indebitamento delle regioni e degli enti locali”), per essere riformulate in termini più stringenti dalla L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 572 (legge di stabilità per il 2014), che ha modificato l’art. 62, vietando definitivamente, salvo nei casi individuati dalla stessa norma, alle Province autonome di Trento e di Bolzano e agli enti locali di “3. (…) a) stipulare contratti relativi agli strumenti finanziari derivati (…); b) procedere alla rinegoziazione dei contratti derivati in essere alla data di entrata in vigore della presente disposizione; c) stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate”.

7.2. – Esaminando la questione di legittimità costituzionale dell’art. 62 (Contenimento dell’uso degli strumenti derivati e dell’indebitamento delle regioni e degli enti locali) del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, la Corte costituzionale – con la sentenza n. 52 del 2010 – l’ha ritenuta non fondata in relazione ai due parametri evocati (gli artt. 70 e 77 Cost.) ed ha dato chiarimenti valevoli anche per il futuro.

7.2.1. – Secondo il Giudice delle Leggi, infatti, la disciplina introdotta con le disposizioni del richiamato art. 62, era diretta a contenere l’esposizione delle Regioni e degli altri enti locali territoriali a indebitamenti che, per il rischio che comportano, possono esporre le rispettive finanze ad accollarsi oneri impropri e

non prevedibili all’atto della stipulazione dei relativi contratti aventi ad oggetto i cosiddetti derivati finanziari (così che, nel caso specificamente esaminato, sussistevano oggettivamente quelle ragioni di straordinarietà e urgenza che giustificavano il ricorso al Decreto Legge, volto, da un lato, alla disciplina a regime del fenomeno e, dall’altro, al divieto immediato per gli enti stessi di ricorrere ai predetti strumenti finanziari).

7.3. – Considerato tale basilare insegnamento, la L. n. 147 del 2013 (la cd. legge di stabilità per il 2014) ha, quindi, stabilito che, salvo eccezioni, l’accesso ai derivati è precluso (a pena di nullità eccepibile dal solo ente) agli enti locali.

7.3.1. – Si tratta di una normativa primaria di grande importanza la cui ratio, sul presupposto della spiccata aleatorietà delle negoziazioni aventi ad oggetto gli strumenti finanziari in esame (come espressa dalla Corte costituzionale, con la menzionata decisione n. 52 del 2010, nell’esigenza di “evitare che possa essere messa in pericolo la disponibilità delle risorse finanziarie pubbliche utilizzabili dagli enti stessi per il raggiungimento di finalità di carattere pubblico e, dunque, di generale interesse per la collettività”), ha portato il legislatore, con l’art. 1, comma 572, lett. d), di tale Legge, a prevedere, a pena di nullità rilevabile unicamente dall’ente, la necessità di un’attestazione scritta dell’organo pubblico, competente a firmare tali tipi di contratti, di avere una specifica conoscenza dei rischi e delle caratteristiche del derivato, nonchè delle variazioni intervenute nella copertura del sottostante indebitamento.

7.3.2. – Non si mostrerà stupore, perciò, riguardo al fatto che l’attuale regolamentazione sia ritenuta, in dottrina, un valido punto di equilibrio; infatti, le problematiche discusse permangono rispetto ai contratti stipulati in passato dalla P.A..

8. – Osserva la Corte che il menzionato percorso normativo, per quanto tormentato e non sempre lineare, consente di poter concludere che, anche per il periodo di vigenza dell’art. 41 della Legge Finanziaria per il 2002 e, quindi, fino al 2008 (anno in cui il legislatore ha inserito limiti più stringenti alla capacità degli enti di concludere derivati) il potere contrattuale degli enti locali incontrava sicuri limiti.

8.1. – Innanzitutto, il derivato per essere ammissibile, doveva essere economicamente conveniente essendo vietato concludere derivati speculativi. La Corte costituzionale, infatti, ha chiarito, con la decisione n. 52 del 2010 (che si ricollega a quella n. 376 del 2003), che il divieto di concludere contratti speculativi può essere ricondotto, in prima battuta, dell’art. 119 Cost., commi 4 e 6, che rispettivamente enunciano il vincolo dell’equilibrio finanziario e la necessaria finalizzazione dell’indebitamento alle spese di investimento (conclusione che è stata rafforzata con l’ulteriore richiamo all’esistenza della materia di legislazione concorrente del “coordinamento della finanza pubblica” di cui all’art. 117 Cost., comma 3).

8.2. – Infatti, i contratti derivati, in quanto aleatori, sarebbero già di per sè non stipulabili dalla P.A., poichè l’aleatorietà costituisce una forte disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introducendo variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa. Perciò bisogna concludere che, le disposizioni normative sopra passate in rassegna, che tali possibilità prevedevano, consentivano solo ciò che, normalmente, sarebbe stato vietato, con la conseguenza che dette previsioni erano anzitutto di natura eccezionale e di stretta interpretazione, avendo reso i derivati stipulati dalle pubbliche amministrazioni come contratti tipici, diversamente da quelli innominati conclusi dai privati (per quanto appartenenti all’amplissimo e medesimo genus).

8.3. – Sicchè, alla luce del quadro normativo e assiologico così delineato, può già formularsi una prima conclusione, secondo la quale:

il riconoscimento della legittimazione dell’Amministrazione a concludere contratti derivati, sulla base della disciplina vigente fino al 2013 (quando la L. n. 147 del 2013, ne ha escluso la possibilità) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, comportava che solamente nel primo caso l’ente locale potesse dirsi legittimato a procedere alla loro stipula.

9. – E però, tanto non esaurisce il problema portato all’esame di queste Sezioni unite, dovendosi – pur nell’ambito del percorso astrattamente ammissibile – verificare se non siano riscontrabili altri limiti alla liceità di siffatti tipi contrattuali per la PA.

9.1. – Restano infatti aperti i problemi generali relativi alla determinatezza (o determinabilità) dell’oggetto del contratto; quelli secondo i quali la validità dell’accordo va verificato in presenza di un negozio (tra intermediario ed ente pubblico o investitore) che indichi (o meno) la misura dell’alea, calcolata secondo criteri riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perchè il legislatore autorizza solo questo genere di scommesse sul presupposto dell’utilità sociale di quelle razionali, intese come specie evoluta delle scommesse di pura abilità.

9.2. – E tale accordo sulla misurabilità/determinazione dell’oggetto non deve limitarsi al criterio del mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poichè il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso deve concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi, pur se impliciti.

9.3. – Infatti, l’importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l’effetto di una molteplicità di variabili.

9.4. – Si è già richiamato l’art. 23, comma 5, del TUF, il quale dispone che “Nell’ambito della prestazione dei servizi e attività di investimento, agli strumenti finanziari derivati nonchè a quelli analoghi individuati ai sensi dell’art. 18, comma 5, lett. a), non si applica l’art. 1933 c.c.”, così autorizzandosi non sic et simpliciter una scommessa, ma delimitando, con un criterio soggettivo, la causa dello swap, ricollegata espressamente al settore finanziario.

9.5. – Del resto, l’intermediario finanziario è tenuto a fornire raccomandazioni personalizzate al suo assistito; anche attraverso la deduzione dei cd. costi impliciti, altrimenti riconducendosi ad essi lo squilibrio iniziale dell’alea, misurato in termini probabilistici, sull’assunto che ciò costituisca un incentivo affinchè l’intermediario raccomandi all’investitore strumenti OTC, nei quali la remunerazione è occultata, piuttosto che strumenti da acquisire sul mercato, presso cui il compenso ha la forma della commissione da concordare.

9.6. – Con la possibilità di riconoscere una ipotesi di conflitto di interessi fra intermediario e cliente, poichè nei derivati OTC, a differenza che in quelli uniformi, tale conflitto è naturale, discendendo dall’assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente.

9.7. – Appare perciò corretto l’esame condotto caso per caso, attraverso un approccio concreto; quell’approccio che ha portato il giudice di merito ad affermare le conseguenze sanzionatorie in quei rapporti contrattuali, considerato che: a) in nessuno dei contratti al suo esame figurava la determinazione del valore attuale degli stessi al momento della stipulazione (cd. mark to market), che un’attenta e condivisibile giurisprudenza di merito riteneva “elemento essenziale dello stesso ed integrativo della sua causa tipica (un’alea razionale e quindi misurabile) da esplicitare necessariamente ed indipendentemente dalla sua finalità di copertura (hedging) o speculativa”; b) la potenziale passività insita in ogni contratto di swap trova una sua evidenza concreta ed attuale nella clausola di upfront, in fatto presente in due dei tre rapporti sostanziali oggetto di giudizio.

9.8. – In relazione, a tali profili, pertanto i mezzi di ricorso n. 3, 4 e 5 sono infondati e devono essere respinti dovendosi affermare la regula iuris, secondo la quale:

in tema di contratti derivati, stipulati dai Comuni italiani sulla base della disciplina normativa vigente fino al 2013 (quando la L. n. 147 del 2013, ha escluso la possibilità di farvi ulteriore ricorso) e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, pur potendo l’ente locale procedere alla stipula dei primi con qualificati intermediari finanziari nondimeno esso poteva utilmente ed efficacemente procedervi solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio.

10. – E però, tanto non esaurisce il problema portato all’esame di queste Sezioni, in ragione dei restanti motivi (1 e 2) di ricorso, aventi ad oggetto il problema dell’indebitamento degli enti pubblici e della competenza a deliberare in ordine ad esso.

10.1. – Al fine di considerare risolto tale problema, non basta, infatti, una mera riduzione del tasso d’interesse nell’esercizio finanziario, dovendosi tenere conto, altresì, dei rischi connessi alle diverse condizioni di indebitamento, alla durata del debito e alle modalità di estinzione della passività. In questa ottica, si è affermato che una rinegoziazione non può essere uno strumento da utilizzare immediatamente per fare fronte alla spesa corrente, soprattutto qualora il suo esito sia di allungare i termini di pagamento del debito originario.

10.1.1. – Preliminarmente, però, bisogna prendere posizione sul concetto di indebitamento e su quello stesso di upfront.

10.1.2. – In ordine a tale ultima clausola, un condivisibile orientamento (sia dottrinale che giurisprudenziale) qualifica le somme così percepite quale finanziamento.

10.1.3. – Gli importi ricevuti a titolo di upfront costituiscono indebitamento ai fini della normativa di contabilità pubblica e dell’art. 119 Cost., anche per il periodo antecedente l’approvazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 62, comma 9, come modificato dalla L. n. 133 del 2008, in sede di conversione e, successivamente, sostituito dalla L. n. 203 del 2008, art. 3 (finanziaria per il 2009), il quale ha stabilito che “sulla base dei criteri definiti in sede Europea dall’Ufficio statistico delle Comunità Europee (EUROSTAT), l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate costituisce indebitamento dell’Ente”. La normativa del 2008 ha perciò preso atto della natura di indebitamento di quanto conseguito con l’upfront, senza innovare l’ordinamento.

10.1.4. – Peraltro, se il denaro ottenuto con l’upfront è da considerare indebitamento, lo stesso non può dirsi degli IRS conclusi dagli enti pubblici, i quali, eventualmente, possono presupporre un indebitamento. Infatti, l’operazione di swap va guardata nel complesso, perchè il suo effetto può, sostanzialmente, consistere in un indebitamento, com’è dimostrato da quegli enti locali che sono stati capaci di utilizzare gli IRS alla stregua di mutui e, tramite essi, in concreto, modificare e gestire il livello dell’indebitamento (Senza dire che detti IRS si fondavano tendenzialmente, per legge, su un precedente indebitamento).

10.2. – In ordine all’organo comunale tenuto ad autorizzare il ricorso agli IRS, la dottrina e la giurisprudenza perciò attribuiscono, in grande prevalenza e condivisibilmente, la relativa competenza al Consiglio comunale.

10.3. – Più in generale, si tratta di valutare sia il caso della ristrutturazione dei debiti da parte dei Comuni e sia quello del loro finanziamento mediante la previsione di una clausola di upfront: se in entrambi i casi si tratti o meno di una forma d’indebitamento e, quindi, di materia di competenza consiliare. Poichè, com’è noto, l’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL, stabiliva che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) – spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo”.

10.4. – A favore della scelta consiliare, oltre che le condizioni sostanziali di tali forme di finanziamento, depone anche la necessità di assicurare il coinvolgimento degli schieramenti assembleari di minoranza, i quali sono chiamati ad esercitare un controllo sull’operazione finanziaria. Infatti, la possibilità che i contratti derivati oggetto del contendere, seppur pattuiti da un Comune con lo scopo di rinegoziare in termini più favorevoli i mutui precedenti, comportino spese per l’amministrazione che li stipula e che tali spese gravino a carico degli esercizi successivi a quello di sottoscrizione del contratto è un’eventualità non remota, ma connaturata alla natura aleatoria del negozio.

10.4.1. – L’organo consiliare deve valutare la convenienza di operazioni che porranno vincoli all’utilizzo di risorse future, precisando che l’attività negoziale dell’ente territoriale deve avvenire secondo le regole della contabilità pubblica che disciplinano lo svolgimento dei compiti propri dell’ente che utilizza risorse della collettività. Pertanto, ove il Comune intenda procedere ad un’operazione di ristrutturazione del debito, deve individuare le principali caratteristiche e le modalità attuative di essa e, poi, selezionare con una gara la migliore offerta in relazione non solo allo scopo che mira a raggiungere, ma anche alle modalità che vuole seguire, dovendo la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica.

10.4.2. – Deve tenersi conto che gli enti locali erano obbligati a concludere swaps con fini di copertura dichiarati. Ciò significa che era presente un collegamento negoziale ex lege e che tale circostanza rendeva necessario l’intervento del Consiglio comunale, poichè il contratto precedente era comunemente un mutuo e, dunque, il collegamento de quo riguardava atti che costituivano indebitamento. 10.5. – Peraltro, la conclusione degli IRS si traduceva sovente nell’estinzione dei precedenti rapporti. Ne derivava che, venendo meno un contratto che costituiva indebitamento, l’IRS doveva essere approvato dal Consiglio comunale. Se, invece, il precedente mutuo fosse rimasto in vita, ma, nella sostanza, il rapporto fosse stato modificato (ad esempio, allungando nel tempo l’esposizione debitoria), l’intervento consiliare sarebbe stato, in ogni caso, necessario, perchè le condizioni dell’indebitamento sarebbero mutate, incidendo sui costi pluriennali di bilancio.

10.6. – Deve perciò affermarsi che, ove l’IRS negoziato dal Comune incida sull’entità globale dell’indebitamento dell’ente, l’operazione economica debba, a pena di nullità della pattuizione conclusa, essere autorizzata dal Consiglio comunale, tenendo presente che la ristrutturazione del debito va accertata considerando l’operazione nel suo complesso, comprendendo – per il principio di trasparenza della contabilità pubblica – anche i costi occulti che gravano sulla concreta disciplina del rapporto di swap.

10.7. – Ne deriva che non è censurabile la sentenza impugnata che ha ritenuto pienamente fondato il rilievo del Comune per il quale il contratto di swap ed in particolare – ma non solo – quello che prevedeva una clausola di iniziale upfront, costituisse, proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l’ente pubblico, attuale o potenziale.

10.8. – In conclusione, anche tali ulteriori motivi devono essere respinti, in ossequio alla regula iuris secondo cui:

l’autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell’estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. i), TUEL di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000 (laddove stabilisce che “Il consiglio ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: (…) “spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi (…)”); non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell’indebitamento dell’ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari ad esso inerenti, adottabile dalla giunta comunale in virtù della sua residuale competenza gestoria ex art. 48, comma 2, stesso Testo Unico.

11. – Il ricorso principale, complessivamente infondato deve essere respinto, con assorbimento dell’unico motivo del ricorso incidentale condizionato, del Comune.

11.1. – Le spese processuali sono compensate per la novità e controvertibilità delle questioni ora decise.

 

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite;

Rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale.

Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione, il 8 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2020



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