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Di Marco Sciddurlo
Tesi di laurea in Diritto bancario
Università degli Studi di Bari, Facoltà di Giurisprudenza
Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Antonella Antonucci
Anno accademico 2003-2004
INDICE:
CAPITOLO I
L’articolo 102 della “legge bancaria” e l’articolo 50 del “Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”.
I.1 Il procedimento monitorio agli inizi del secolo XX.
I.2 L’introduzione dell’art. 102 della legge bancaria.
I.3 L’art. 102 l.b. e gli artt. 633, 634 e 635 c.p.c.: il permanere della procedura monitoria agevolata.
I.4 L’art. 102 l.b. e l’art. 2710 c.c.: estensione del privilegio?
I.5 Problemi di legittimità costituzionale dell’art. 102 l.b.
I.6 L’introduzione dell’art. 50 del Testo Unico Bancario.
I.7 Continuità e differenze tra l’art. 50 t.u.b. e l’art. 102 l.b.
I.8 Problemi di legittimità costituzionale dell’art. 50 t.u.b.
CAPITOLO II
L’applicazione dell’art. 102 l.b. e dell’art. 50 t.u.b.: il permanere delle divergenze interpretative.
II.1 I contenuti dell’estratto di saldaconti e dell’estratto di conto corrente.
II.2 La certificazione e la dichiarazione del dirigente di banca di cui agli articoli 102 l.b. e 50 t.u.b.
II.3 Gli estratti di saldaconti e la loro utilizzazione nella (limitata alla) procedura monitoria.
II.4 (segue) Gli estratti di saldaconti come prova nei giudizi di cognizione.
II.5 (segue) Gli estratti di saldaconti come elemento indiziario.
II.6 L’applicazione dell’art. 50 t.u.b. nel giudizio monitorio: il ruolo dell’approvazione.
II.7 (segue) L’efficacia probatoria dell’estratto conto bancario.
II.8 La posizione del fideiussore.
CAPITOLO III
Gli estratti di saldaconti e di conto corrente e l’ammissione al passivo fallimentare.
III.1 L’estratto di saldaconti come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri favorevoli.
III.2 (segue) L’estratto di saldaconti come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri contrari.
III.3 (segue) L’estratto di saldaconti come estratto di libri bollati e vidimati.
III.4 (segue) L’estratto di saldaconti come presunzione semplice.
III.5 (segue) La soluzione della Suprema Corte.
III.6 L’estratto di conto corrente come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri favorevoli.
III.7 (segue) Le contestazioni del curatore e la produzione dei documenti giustificativi del saldo bancario.
III.8 (segue) L’estratto di conto corrente come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri contrari.
III.9 La riforma del diritto fallimentare e l’accertamento dei crediti bancari di conto corrente.
BIBLIOGRAFIA
INDICE DELLA GIURISPRUDENZA CONSULTATA
Capitolo I
L’articolo 102 della “legge bancaria” e l’articolo 50 del “Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” nell’ordinamento.
I.1 Il procedimento monitorio agli inizi del secolo XX.
Il procedimento di ingiunzione fu introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento con il r.d. 24 luglio 1922, n. 1036 e, successivamente, con il r.d. 7 agosto 1936, n. 1531, nuove norme concorsero a disciplinarlo. In particolare, il r.d. n. 1036 del 1922 disponeva, all’art. 1, che «L’ingiunzione giudiziale di pagamento o di consegna può essere pronunciata per un credito liquido ed esigibile in denaro, ovvero in merci o altre cose fungibili, fondato su prova scritta, valida secondo le norme del codice civile o del codice di commercio».
In riferimento alle banche pubbliche determinante era la norma di cui all’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936, dove si stabiliva che «… le amministrazioni dello Stato e degli enti od istituti sottoposti a tutela e a vigilanza amministrativa possono chiedere l’ingiunzione anche in base alle risultanze dei loro libri e registri, purché siano state osservate le prescrizioni eventualmente stabilite nelle leggi e nei regolamenti per la tenuta di tali libri o registri. L’osservanza di queste prescrizioni è attestata dal notaio o dal funzionario che sia specialmente autorizzato all’uopo in base alle relative leggi o regolamenti»; mentre le banche private accedevano alla procedura monitoria ai sensi dell’art. 2 dello stesso decreto, secondo il quale «I commercianti possono richiedere il decreto di ingiunzione, anche contro persone non commercianti per pagamenti relativi a somministrazioni di merci o di denaro, producendo l’estratto autentico dei loro libri di commercio o di quelli prescritti dalle leggi fiscali, da cui risultino le somministrazione fatte o l’addebitamento delle somme dovute». Ovviamente quest’ultima norma non era applicabile alle banche pubbliche, le quali, ai sensi dell’allora codice di commercio, non essendo qualificabili come “commercianti”, non erano obbligate alla tenuta dei “libri di commercio”.
I.2 L’introduzione dell’art. 102 della legge bancaria.
L’esigenza di un’adeguata tutela della liquidità bancaria (necessità particolarmente sentita nei primi decenni del secolo XX, a causa della negativa situazione economica post-bellica e della degradazione della “banca mista”, che provocarono una crisi generale del mondo bancario e serie difficoltà ad alcuni istituti di credito) faceva avvertire l’inadeguatezza dell’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936 nella rapida esazione dei crediti bancari.
Ed allora, nel quadro normativo che vedeva le banche assoggettate a comuni norme procedurali, si “innestò” l’art. 102 l.b.([1]), dove si disponeva che «L’istituto di emissione e gli istituti di credito di diritto pubblico possono chiedere il decreto di ingiunzione, ai sensi dell’art. 3 del regio decreto 7 agosto 1936 n. 1531, anche in base all’estratto dei loro saldaconti, certificato conforme alle scritturazioni da uno dei dirigenti dell’istituto interessato, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido. La precedente disposizione si estende alle banche di interesse nazionale, nonché alle casse di risparmio aventi un patrimonio di almeno 50 milioni di lire».
Quella appena riportata è la stesura definitiva, così come formulata dalla l. 7 aprile 1938, n. 636, della disposizione riguardante la possibilità, per alcune banche, di chiedere il decreto ingiuntivo, secondo quanto previsto dall’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936, anche in base all’estratto di saldaconti, permettendo così un’estensione dell’applicazione della procedura monitoria attraverso documenti e modalità che prima della normativa di cui all’art. 102 l.b. (e comunque solo per i soggetti ivi indicati) non sarebbe stata possibile nemmeno in via analogica; un ampliamento che dava luogo ad una procedura monitoria agevolata, necessaria alle specifiche esigenze delle banche indicate.
Bisogna al riguardo sottolineare che nella prima stesura della legge bancaria (r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375) tale disposizione non era riportata per il semplice motivo che, non essendo stato ancora emanato il r.d. n. 1531 del 1936, mancava nell’ordinamento la norma di cui all’art. 3 di tale regio decreto; ma quando esso fu promulgato, subito dopo fu introdotta, col r.d.l. 17 luglio 1937, n. 1400, la norma che disponeva la procedura monitoria agevolata per determinate banche nella seguente formulazione: «L’istituto di emissione e gli istituti di credito di diritto pubblico possono chiedere il decreto di ingiunzione, ai sensi dell’art. 3 del regio decreto 1936, n. 1531, anche in base all’estratto conto dei loro saldaconti, certificato conforme alle scritturazioni da uno dei dirigenti dell’istituto interessato. La precedente disposizione si estende alle banche di interesse nazionale» (questa disposizione, nella sua originaria formulazione, fu riportata anche nella legge 7 marzo 1938, n. 141, che convertiva il r.d.l. 1936, n. 375 – la prima formulazione della legge bancaria –); successivamente, la legge 7 aprile 1938, n. 636, modificava la norma, introdotta dal r.d.l. che convertiva, e ne estendeva, inoltre, l’applicazione alle casse di risparmio con un patrimonio di almeno 50 milioni di lire.
Ponendo in relazione l’art. 102 l.b. con l’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936, sembra evidente che il legislatore del ’36-’38 abbia voluto riservare questo trattamento agevolato di celere riscossione dei crediti a banche di natura pubblica (come erano l’istituto di emissione e gli istituti di diritto pubblico([2])) o aventi una natura pubblicistica (come erano le banche di interesse nazionale e le casse di risparmio)([3]) ed infatti, nella “Relazione presentata alla Commissione di Finanza sul disegno di legge per la conversione in legge del r.d.l. 12 marzo 1936 n. 375”, è scritto che «… per quanto concerne l’Istituto di emissione e gli Istituti di credito di diritto pubblico, che sono tutti Enti pubblici, la norma è già nel sistema dell’art. 3 del Regio decreto 7 agosto 1936, n. 1531, il quale fa menzione in generale di risultanze dei libri o registri. La disposizione appare poi opportuna per le Banche di interesse nazionale. Siffatto interesse esige, invero, una rapida esazione dei crediti risultanti dai loro saldaconti».
Poiché le banche di cui all’art. 102 l.b. erano, come già detto, pubbliche o aventi rilevanza pubblicistica([4]), si è ritenuto che la norma in questione fosse una specificazione in materia bancaria della disposizione riferentesi alle amministrazioni statali ed a quelle poste a tutela o a vigilanza amministrativa (e ciò pare confermato, oltre da quanto esplicitato nella Relazione suddetta, anche dallo stesso tenore della prescrizione – ai sensi dell’art. 3 del r.d. … –); cioè, c’era una certa “omogeneità” con i soggetti di cui all’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936([5]), ma c’erano anche delle specifiche esigenze tecniche che comportavano la necessità di introdurre una specifica norma (art. 102 l.b.) per determinate banche; e tra queste due norme c’era un “rapporto di dipendenza” e non di autonomia, cioè, l’art. 102 l.b. adattava alle esigenze proprie del settore creditizio la previsione più generale, che ne costituiva, perciò, il modello([6]).
E’ evidente, allora, che l’esigenza di un’agevole e rapida riscossione dei crediti per le banche indicate derivasse dalla loro attività e dalla loro struttura, più che dalla loro natura pubblica o pubblicistica (altrimenti non avrebbe avuto senso l’emanazione della norma in questione, perché sarebbe stata sufficiente l’applicazione dell’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936; né sarebbe stato giustificabile un trattamento così disparitario sia rispetto alle altre amministrazioni e agli enti sottoposti a vigilanza, sia riguardo alle altre banche), perché queste banche, essendo di grandi dimensioni, di fatto non avrebbero potuto ricorrere al procedimento monitorio in base agli estratti autentici delle scritture contabili, in quanto i loro crediti, per ragioni tecniche, generalmente non risultavano da scritture regolarmente tenute, ma da schede, rappresentative dei movimenti del conto e, come tali, non assimilabili ai libri contabili.
Non mancarono voci che tesero ad estendere a tutte le banche la procedura monitoria agevolata, ponendo l’attenzione non tanto sulla struttura delle banche, ma sull’attività bancaria che richiedeva comunque un’agevolazione nella riscossione dei crediti; ma l’estensione della normativa speciale si ebbe solo per le casse di risparmio con un capitale di almeno 50 milioni lire (all’epoca dell’emanazione della legge bancaria erano solo tre) e ciò rivela ancora che il legislatore di allora abbia voluto un’applicazione della normativa in questione solo ad istituti di grandi dimensioni, infatti, nella “Relazione presentata dalla Giunta Generale del Bilancio sul disegno di legge per la conversione in legge del r.d.l. 17 luglio 1937 n. 1400” si legge che «… attesa la particolare importanza che rivestono le Casse di risparmio con un capitale minimo di almeno cinquanta milioni di lire, appare conveniente estendere anche a questi enti la possibilità di chiedere il decreto di ingiunzione in base all’estratto dei loro saldaconti … Andare più oltre, e cioè estendere, come è stato proposto, la norma a tutte le Aziende di credito, rappresenterebbe un ulteriore passo che non sembra si possa assolutamente fare, dato che la disposizione eccezionale sancita nell’art. 102 rappresenta già un passo abbastanza grave» (parole che rivelano da un lato come fosse sentita l’esigenza di tutelare tutto il sistema bancario agevolando l’esazione del credito, dall’altro come fosse avvertita la particolare eccezionalità della norma che si andava ad emendare).
Non manca, però, chi ritiene che nelle originarie intenzioni del legislatore solo gli istituti pubblici meritassero una tutela adeguata e rapida nell’esazione dei crediti, mentre l’estensione alle banche di interesse nazionale e, poi, alle casse di risparmio, abbia alterato l’originaria impostazione del legislatore, comportando delle inevitabili conseguenze anche sull’interpretazione della norma([7]) (ma è da considerare che in quel periodo le banche rientranti nell’art. 102 l.b. erano, come specificato in nota (4), considerate di “rilevanza pubblicistica”).
Comunque sia, è evidente che il legislatore di allora abbia voluto riservare la procedura monitoria agevolata a banche, di natura pubblica o pubblicistica, dalle dimensioni consistenti e dalle strutture adeguate, sia sotto il profilo organizzativo che sotto quello amministrativo (ecco perché fu posto un minimo, allora consistente, al patrimonio delle casse di risparmio), in quanto, date le garanzie di regolarità e veridicità delle proprie documentazioni, esse davano affidamento di un corretto utilizzo della norma; inoltre, non pare vi siano dubbi nel ritenere che l’elencazione dell’articolo fosse tassativa([8]) (si trattava infatti di una norma speciale). E per dare una maggiore cautela, oltre a prevedere che il dirigente certificava che l’estratto di saldaconti era conforme alle scritturazioni tenute dalla banca, la novella del ’38, per dare maggiore garanzia nella presentazione dell’istanza all’ottenimento del decreto ingiuntivo([9]), statuì che il dirigente doveva anche dichiarare il credito vero e liquido.
Gli enti esclusi dall’applicazione dell’art. 102 l.b. continuarono ad accedere alla procedura monitoria in base all’art. 2 del r.d. n. 1531 del 1936; questi erano, infatti, enti commerciali con tenuta dei “libri di commercio” ai sensi degli artt. 21 e ss. cod. comm..
I.3 L’art. 102 l.b. e gli artt. 633, 634 e 635 c.p.c.: il permanere della procedura monitoria agevolata.
Che la motivazione sottesa all’art. 102 l.b. derivasse dalla natura e dal volume d’affari dell’attività bancaria emergeva soprattutto a seguito delle novità legislative del 1942. Con l’entrata in vigore del codice civile abbiamo la sottoposizione degli enti pubblici economici, tra cui vanno ricompresi gli istituti di credito di diritto pubblico (vere e proprie imprese, operanti sul mercato, ed assoggettate come tali alle regole di diritto privato)([10]), al cosiddetto statuto dell’imprenditore commerciale ed al conseguente obbligo per gli stessi di tenere le scritture contabili ai sensi degli artt. 2214 e ss. c.c.; e con il nuovo codice di procedura civile abbiamo una nuova regolamentazione del procedimento ingiuntivo negli artt. 633 e ss., che riproduce, apportandovi alcuni rilevanti correttivi, il r.d. n. 1531 del 1936; in particolare, l’art. 635 c.p.c., che ha preso il posto dell’art. 3 del r.d. n. 1531, si riferisce ai libri o registri della pubblica amministrazione, escludendo dal proprio ambito di applicazione gli enti pubblici economici, che possono ricorrere alla procedura monitoria ai sensi dell’art. 634, co. 2, c.p.c. («… gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute …»)([11]), a motivo del suddetto mutamento di diritto sostanziale avutosi col codice civile.
Si è anche discusso se l’art. 635 c.p.c. avesse assorbito l’art. 102 l.b.; tale ipotesi è stata esclusa in quanto l’articolo codicistico fa riferimento a libri e registri della pubblica amministrazione e, quindi, si applica, come già detto, ai soli enti che svolgono una funzione propria della pubblica amministrazione; poiché nei rapporti con i propri clienti, quale ne sia la natura, le banche non compiono atti amministrativi in senso tecnico, ma veri e propri atti di gestione, come una qualsiasi impresa privata, di conseguenza, escludendo la natura amministrativa per tutte quelle certificazioni che riguardano tale attività, si deduce che l’ambito di applicazione dell’art. 635 c.p.c. era differente da quello dell’art. 102 l.b., quindi, quest’ultimo rimase in vigore. Al riguardo vi sono comunque dei pareri critici, come quello del Parrella, il quale afferma che «da un punto di vista logico-giuridico, l’intervenuta abrogazione dell’art. 3 r.d. del 1936 e la scelta consapevole da parte del nostro legislatore di escludere gli enti pubblici economici dall’ambito di applicazione dell’art. 635 c.p.c. mal si conciliano con la sopravvivenza della norma di cui alla legge bancaria», tanto che «paradossalmente, le stesse argomentazioni che la dottrina aveva adoperato per negare l’assorbimento della norma bancaria nella norma codicistica, possono essere utilizzate per sostenere l’incompatibilità dell’art. 102 l.b. con il successivo art 635 c.p.c., e quindi, la sua abrogazione»([12]).
Ci si è posti anche il quesito se l’art. 634, co. 2, c.p.c. avesse inglobato l’art. 102 l.b., essendo evidenti le analogie tra le due norme; in particolare, sia la disposizione codicistica sia l’art. 102 l.b. fanno riferimento ad estratti di libri tenuti dal ricorrente, dei quali deve essere certificata la conformità alle scritturazioni, e che costituiscono documenti (provenienti dallo stesso creditore) idonei a fornire una prova scritta del credito (prova valevole solo ai fini monitori). Così si è affermata l’equiparazione delle schede di c/c, dalle quali si ricavava l’estratto di saldaconti, con i libri contabili previsti e disciplinati dal codice civile.
Ma le conclusioni al riguardo erano divergenti. Si è giunti da un lato ad affermare che erano venute meno le ragioni per le quali si era avuta l’emanazione dell’art. 102 l.b., visto che si offriva ora alle banche pubbliche, a quelle d’interesse nazionale ed alle casse di risparmio uno specifico strumento per la rapida riscossione dei crediti, e che l’art. 102 l.b. era stato tacitamente abrogato in quanto la sua norma era ricompresa nel più generico art. 634, co. 2, c.p.c.([13]); dall’altro si riteneva che i motivi che avevano indotto il legislatore del ’36-’38 ad emanare l’art. 102 non erano venuti meno, in quanto si era semplicemente preso atto che l’attività bancaria non passava (ed è così anche oggi) attraverso scritturazioni riconducibili a libri bollati e vidimati (o suscettibili di un’apposita disciplina speciale), per questo era stata disposta la procedura agevolata, superando il problema della divergenza sostanziale tra gli estratti di saldaconti e gli estratti autentici delle scritture contabili con le semplici attestazioni del dirigente di banca; ed il Nigro, infatti, afferma che il legislatore «ha così sostituito al requisito della regolarità formale delle scritture la dichiarazione di “verità e liquidità”. Dichiarazione che si riferisce al contenuto del rapporto con il cliente, cioè al “documentato” e non al “documento”; ma che ha in effetti il significato di attestazione della regolarità sostanziale di tutte le scritturazioni da cui l’estratto è stato desunto»([14]). Inoltre, c’è da rilevare come la giurisprudenza, non dubitando mai della vigenza dell’art. 102 l.b.([15]), abbia posto la sua attenzione esclusivamente a problemi inerenti l’applicazione di questa norma.
Ebbene, affermata la vigenza dell’art. 102 l.b., fatta l’equiparazione tra questo articolo e l’art. 634, co. 2, c.p.c. (e tralasciando la questione se i dirigenti degli istituti di credito di diritto pubblico erano da considerare pubblici ufficiali)([16]); ci si chiedeva se il dirigente della banca, eccezionalmente, rivestisse la qualità di pubblico ufficiale quando esercitava il potere di attestazione-certificazione relativo al documento di cui all’art. 102 l.b. (potere che inizialmente era giustificato dalla rilevanza pubblicistica degli enti indicati dall’art. 102 l.b.). Ovviamente il parallelo è con i soggetti che, in virtù di espressa disposizione di legge, sono abilitati ad emettere certificazioni, ai fini di assolvere una funzione di pubblica fede; in particolare, si è affermato che il dirigente di banca, nelle sue attività di certificare l’estratto di saldaconti conforme alle scritturazioni e di dichiarare il credito vero e liquido, è equiparabile al notaio che attesta la regolare tenuta delle scritture e l’autenticità degli estratti.
Ora, entrambe le suddette posizioni non hanno avuto seguito; per quanto riguarda l’accostamento tra le schede di c/c con le scritture contabili, c’è da rilevare la loro evidente difformità sostanziale (non si può dimenticare che è stata proprio la particolarità della documentazione bancaria, oltre all’elevato numero delle operazioni, a portare all’emanazione dell’art. 102 l.b.; particolarità che non è mai venuta meno), il certificato di saldaconti, per la sua sinteticità, non è equiparabile ad un libro o registro, dal quale può desumersi la narrativa analitica delle vicende costitutive della partita creditoria; ed infatti la Suprema Corte ha affermato che «prove scritte idonee alla concessione del decreto ingiuntivo, ex art. 634, comma 2 c.p.c., sono gli estratti autentici delle scritture contabili di cui all’art. 2214 ss. cc., purché bollate e vidimate; l’estratto per copia autentica di un conto corrente bancario certificato conforme alle scritturazioni da un notaio e non da un dirigente dell’istituto … non può costituire prova scritta idonea alla concessione del predetto provvedimento» e che, nel caso di specie, «esattamente è stata dichiarata la nullità del decreto ingiuntivo, perché emesso in base ad un documento non idoneo né ai sensi dell’art. 634 c.p.c., né ai sensi dell’art. 102 r.d.l. 17 luglio 1938, n. 636»([17]).
Per quanto riguarda invece l’accostamento del dirigente dell’istituto bancario al notaio, c’è da considerare che a differenza di quest’ultimo, il dirigente di banca non è terzo rispetto al rapporto che può dar luogo all’ingiunzione, bensì è parte di tale rapporto, la sua certificazione non dà valore di certezza legale all’estratto di saldaconti, infine, egli si limita ad affermare l’esistenza del documento (scheda di c/c) ed il relativo saldo a debito, dichiarando che è vero e liquido; mentre, l’art. 634, co. 2, c.p.c. si riferisce agli estratti autentici delle scritture contabili bollate e vidimate nelle forme di legge in modo da attribuirgli pubblica fede([18]). Al riguardo la Corte di Cassazione, esaminando la posizione giuridica del dirigente che emette la dichiarazione di cui all’art. 102 l.b., precisa che questi non viene, con tale dichiarazione, a mettersi nella posizione di un pubblico ufficiale certificante estraneo alla vicenda o alle dichiarazioni negoziali, attestate con imparzialità, ma si mostra come l’organo stesso dell’istituto richiedente.
L’art. 102 l.b. resta quindi una disposizione di “privilegio”, paragonabile, secondo alcuni, ma solo sotto il profilo dell’eccezionalità, alle ipotesi di cui ai nn. 2 e 3 dell’art. 633 c.p.c., fermo restando la maggiore intensità del trattamento di privilegio riservato alle banche indicate, giacché il certificato saldaconti si concreta in una mera e non motivata dichiarazione unilaterale, priva anche di quel minimo corredo probatorio cui allude l’art. 633, co. 2([19]) (infatti la parcella del professionista presenta sempre un dettagliato ed analitico elenco delle voci di spese, competenze ed onorari, verificabile e controllabile).
E’ anche ovvio che le banche “privilegiate” possono accedere alla procedura monitoria anche attraverso gli ordinari mezzi di prova previsti dall’art. 634 c.p.c. (e ciò è stato addirittura oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione)([20]), perché l’art. 102 l.b. è una possibilità («possono chiedere … anche …») che si aggiunge, ma non si sostituisce, alla procedura ordinaria.
Dunque, la normativa di cui all’art. 102 l.b. è, rispetto alle norme del codice di procedura civile che regolano il procedimento di ingiunzione, autonoma e pertanto si pone, rispetto alla procedura di ingiunzione, come norma eccezionale.
I.4 L’art. 102 l.b. e l’art. 2710 c.c.: estensione del privilegio?
Accettando però la tesi di una equivalenza tra l’estratto di saldaconti con gli estratti autentici delle scritture contabili, un possibile passo successivo era quello di ancorare gli estratti di saldaconti all’art. 2710 c.c.([21]), permettendo così l’utilizzo degli estratti di saldaconti anche in procedimenti diversi da quelli monitori (sempre che si fosse trattato di controversie tra banche e imprenditori([22])); ed infatti il Nigro afferma che «la dichiarazione di verità e liquidità del credito, contemplata dall’art. 102, sostituisce (ha valore identico alla) attestazione (art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936) e constatazione (art. 634 c.p.c.) della regolare tenuta dei libri e registri e delle scritture contabili … gli estratti di saldaconti bancari sono sicuramente suscettibili di assumere rilevanza probatoria ai sensi dell’art. 2710 c.c., e quindi anche in procedimenti diversi da quello monitorio, allo stesso modo degli estratti considerati dall’art. 634 c.p.c. … utilizzabili, a norma dell’art. 2710 c.c., anche nell’eventuale, successiva fase di cognizione»([23]).
Però, essendo l’estratto di saldaconti un resoconto di movimenti di debito e di credito dell’azienda nei confronti del cliente riportati in fogli o schede, e non un compendio di un documento in cui sono riassunte le sue linee essenziali (e forse questo sarebbe sufficiente per escluderne l’equiparazione all’estratto delle scritture contabili), la rilevanza che i sostenitori di tale tesi attribuivano all’estratto di saldaconti era quella di presunzione semplice a favore della banca (non mancando chi, come il Nigro, riteneva, coerentemente con l’impostazione di considerare l’estratto di saldaconti equivalente agli estratti dei libri bollati e vidimati nelle forme di legge e regolarmente tenuti, che l’estratto di saldaconti aveva piena efficacia probatoria anche nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo ed in ogni altro giudizio di cognizione, purché si trattasse di controversie tra banca e imprenditore; mentre nei giudizi di cognizione riguardanti i rapporti tra banca e soggetto non imprenditore aveva solo un valore di presunzione semplice a favore della banca)([24]), quindi, il giudice poteva disattendere, nei giudizi di cognizione (ed analogo discorso valeva anche per i procedimenti di verifica dei crediti nel fallimento), alle pretese della banca, fondate esclusivamente su tale estratto, quando si convinceva dell’inesattezza o non veridicità del documento prodotto, in base alle contestazioni della controparte.
Ma bisogna considerare che il limite dell’efficacia probatoria delle scritture contabili ai soli rapporti tra imprenditori trova la sua ratio nel fatto che la controparte, essendo anch’essa imprenditore, ha un immediato riscontro con le proprie scritture contabili, potendo quindi opporre, contro le risultanze delle scritture contabili dell’altra parte, prove della stessa natura e dello stesso valore (il fondamento della norma prescinde così dalla qualità delle parti per concentrarsi sulla effettiva rappresentazione dei rapporti economici intercorrenti); e tutto ciò palesemente non si verificava nei rapporti tra banca e cliente, indipendentemente dal fatto che si trattasse o meno di rapporti tra imprenditori, come è stato anche rilevato dalla Suprema Corte([25]). Ed infatti tale tesi minoritaria non ha avuto seguito, soprattutto in relazione alla considerazione dell’evidente “difformità” tra gli estratti di saldaconto e gli estratti da libri bollati e vidimati.
In conclusione, l’orientamento di massima, consolidatosi nel tempo, fu di considerare l’art. 102 l.b. rimasto in vigore anche dopo l’introduzione del codice di procedura civile del ’42 (ciò è confermato sia dalla prassi, sia dalla relazione al “T.U. in materia bancaria e creditizia”), la norma in questione speciale e l’estratto di saldaconti non equiparabile alle scritture contabili.
I.5 Problemi di legittimità costituzionale dell’art. 102 l.b.
Il legislatore del ’36-’38 aveva voluto garantire l’accesso alla procedura monitoria agevolata a banche pubbliche, a banche di interesse nazionale ed a casse di risparmio (a queste ultime solo con la seconda formulazione della norma) con un patrimonio allora consistente (ma poi un “limite” facilmente valicabile, visto che la somma di 50 milioni di lire non fu mai “aggiornata”)([26]), quindi, come già ricordato, dalle adeguate strutture che dessero una certa affidabilità nell’utilizzo corretto della norma.
Tra le escluse dal beneficio c’erano, oltre le casse di risparmio con un capitale inferiore ai 50 milioni di lire (col tempo scomparse), le casse rurali e artigiane, le aziende ordinarie di credito e le banche popolari; molte di queste, col tempo, assunsero dimensioni e organizzazioni per nulla inferiori (e spesso superiori) alle banche che beneficiavano dell’art. 102 l.b.; inoltre, la maggior parte della contabilità delle banche non veniva più registrata nei tradizionali libri (in particolare, nel libro giornale non potevano essere riportate singolarmente le operazioni, che già per le banche di medie dimensioni possono superare le centinaia di migliaia, ma per dati globali in relazione alle diverse categorie) ma solo su supporti informatici.
Per questi motivi, molte banche, escluse dall’art. 102 l.b., furono costrette ad istituire particolari scritture, bollate e vidimate, dove annotare via via le movimentazioni o i saldi dei conto correnti con andamento anomalo, o revocati, con l’unico scopo di fare degli estratti ai fini dell’art. 634, co. 2, c.p.c.; si trattava comunque di strumenti costosi, di difficile utilizzazione e non sempre efficaci. Dunque, le esigenze di una rapida riscossione dei propri crediti, in relazione al fabbisogno di liquidità per l’erogazione del credito a breve termine, e la necessità di utilizzare scritturazioni contabili diverse dalle scritture contabili bollate e vidimate, per esigenze organizzative, erano comuni oramai a tutte le aziende di credito. Inoltre, c’è da considerare che l’originario elemento aggregante delle grandi dimensioni, che giustificava la disparità soggettiva derivante dall’art. 102 l.b., nella maggior parte dei rapporti bancari veniva a svanire, poiché questi rapporti fanno riferimento alle dipendenze delle banche e, dal punto di vista dimensionale, non esiste grande differenza fra dipendenze di grandi e piccole banche([27]).
Ad “aggravare” la situazione di disparità fu l’entrata in vigore della l. 30 luglio 1990, n. 218, (c.d. legge Amato) e dei decreti delegati; nella l. n. 218 del 1990 si disponeva che le aziende bancarie degli enti pubblici e delle casse di risparmio venivano conferite in società per azioni; queste S.p.A., in forza dell’art. 16 del d.lgs. 20 novembre 1990, n. 356, succedevano nei diritti, nelle attribuzioni e nelle situazioni giuridiche degli enti originari, dunque, anche nella possibilità di ricorrere all’art. 102 l.b., mentre le aziende di credito, già costituite come S.p.A., restavano prive di questa possibilità. Non mancarono voci in senso contrario([28]), ma, come afferma il Bussoletti, il quale non ritiene possa esserci da parte dei nuovi soggetti bancari la successione nella conservazione del privilegio di cui all’art. 102 l.b., bisogna considerare comunque che «buona parte delle banche trasformate, a seguito dei contemporanei processi di concentrazione, potrà assumere la qualifica di banca di interesse nazionale, e in tal modo conservare il beneficio di cui all’art. 102 l.b.». Inoltre, il d.lgs. 14 dicembre 1992, n. 481, emanato in attuazione della Direttiva 89/646/CEE (c.d. “II direttiva CEE di coordinamento delle legislazioni bancarie”), aboliva, con la formale abrogazione dell’art. 5 l.b., le diverse categorie di banche (si venne così ad avere, con la despecializzazione bancaria, la banca universale)([29]), ma nulla diceva a proposito dell’art. 102 l.b., che continuò a trovare applicazione, anche se ancora per poco, poiché il Governo, con lo stesso provvedimento che lo delegava per l’attuazione della “II direttiva CEE di coordinamento delle legislazioni bancarie”, veniva delegato a raccogliere e coordinare in un Testo Unico le disposizioni in materia creditizia.
Quindi, c’era tra le banche un’evidente ed ingiustificata situazione di disparità, che permetteva di considerare l’art. 102 l.b. contrario all’art. 3 (principio di uguaglianza) della Costituzione. A ciò si deve aggiungere presumibili violazioni degli artt. 3 e 24 (principio di difesa) della Costituzione in merito ai rapporti tra banca e ingiunto, specie se il privilegio di cui all’art. 102 l.b. non si basava (almeno dopo il d.lgs. n. 350 del 1985) sulla natura pubblica o pubblicistica delle banche privilegiate.
I.6 L’introduzione dell’art. 50 del t.u.b.
Il legislatore, agli inizi degli anni novanta, aveva di fronte a sé due strade: o abrogare la normativa di cui all’art. 102 l.b., lasciando alle banche la possibilità di recuperare giudizialmente i propri crediti attraverso le procedure che il diritto comune prevede per qualsiasi imprenditore commerciale, oppure creare un “nuovo” strumento giuridico consentendone la fruibilità a tutti i soggetti bancari; ha scelto la seconda via, considerando evidentemente ancora valide, ma in una prospettiva diversa a seguito dei mutamenti legislativi e di mercato avutisi nel corso dei decenni che separano la legge bancaria ed il “Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, le motivazioni che erano state alla base dell’art. 102 l.b.([30]); infatti, la rilevanza che l’attività bancaria ha per l’economia italiana, anche dopo essere divenuta definitivamente attività d’impresa ed abbandonata l’enfatica formula di “funzione di interesse pubblico”, comporta la necessità di dotare le banche di strumenti rapidi ed efficaci che consentano loro di contenere gli immobilizzi e le perdite su crediti, altrimenti ci sarebbero fenomeni dannosi per le banche, ma che si rifletterebbero anche su tutto il sistema economico e finanziario che da queste riceve credito.
Inoltre, considerando, come è scritto nella “Relazione”, che «il legislatore del 1936-1938 aveva riservato tale privilegio solo a talune categorie di banche che offrivano maggiori garanzie di una corretta amministrazione contabile. La concessione del privilegio non era quindi immediatamente collegata né alla natura pubblica della banca procedente né alla qualità di pubblico ufficiale del dirigente certificante. Non può pertanto ritenersi che la forma di s.p.a., assunta attualmente dalla maggioranza delle banche costituisca un impedimento alla generalizzazione del privilegio», il legislatore, con il d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), all’art. 50, rubricato «Decreto ingiuntivo», ha disposto che «La Banca d’Italia e le banche possono chiedere il decreto d’ingiunzione previsto dall’articolo 633 del codice di procedura civile anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido».
I.7 Continuità e differenze tra l’art. 50 t.u.b. e l’art. 102 l.b.
L’art. 50 t.u.b. è una norma che si pone in una linea di continuità col “vecchio” art. 102 l.b., non solo per le motivazioni che il legislatore ha ritenuto valide per la sua emanazione, ma anche per il suo “inquadramento sistematico”. L’art. 633 c.p.c., richiamato dall’art. 50 t.u.b., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità del procedimento ingiuntivo, si limita a dire che del diritto di cui si chiede il procedimento speciale deve essere fornita “prova scritta”, senza ulteriori specificazioni. Per comprendere cosa debba intendersi per “prova scritta” idonea alla emissione di decreti ingiuntivi, occorre fare riferimento ai successivi artt. 634, 635, 636, 642 c.p.c.; e l’art. 50 t.u.b., in virtù del sottolineato richiamo, si pone sullo stesso piano di tali norme: esso individua, indipendentemente da qualsiasi altra previsione legislativa, nell’ «estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessata, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido» una prova scritta idonea alla emanazione di provvedimenti ingiuntivi in favore delle banche. E’ agevole dedurre che l’art. 50 t.u.b., come già l’art. 102 l.b. (con soluzione di continuità), si pone in una posizione di assoluta autonomia rispetto alla singole fattispecie di “prova scritta” contemplate nel codice di procedura civile([31]); specie se si consideri che nell’ambito della disciplina generale del procedimento monitorio il legislatore ha derogato al principio della non invocabilità a proprio favore del documento redatto da una della parti (art. 634, co. 2, c.p.c. e art. 636 c.p.c.), ma ha “legittimato” l’efficacia probatoria dei documenti in questione con l’intervento dei soggetti esterni considerati altamente affidabili (notaio; associazione professionale), mentre nell’art. 50 t.u.b. (come già nell’art. 102 l.b.) non è previsto nessun intervento di soggetti terzi al rapporto.
Ma l’art. 50 t.u.b. ha, rispetto all’art. 102 l.b., delle importanti novità; infatti, la “Relazione”, nel commentare la nuova norma, precisa che «l’articolo ripropone, con alcune innovazioni, le previsioni dell’art. 102 l.b.». Ed una di queste rilevanti novità è l’estensione soggettiva della procedura monitoria a tutte le banche; espansione che, stando alla “Relazione”, «trova giustificazione sia nella ratio sottesa alla formazione dell’art. 102 della legge bancaria, sia nel superamento della suddivisione delle banche in categorie istituzionali». Tale estensione elimina quella disparità tra le banche, che aveva fatto anche giustamente dubitare della legittimità costituzionale dell’art. 102 l.b.; infatti, nella stessa “Relazione”, si evidenzia come l’estensione della procedura monitoria agevolata a tutte le banche elimini le disparità concorrenziali (sperequazioni che, agli inizi degli anni novanta, erano state nuovamente sottolineate dalle associazioni di categoria delle banche escluse dall’agevolazione di cui all’art. 102 l.b.)([32]); ma, si può aggiungere, anche al fine di eliminare disparità incostituzionali.
Ora dunque, oltre alla Banca d’Italia([33]), tutte le banche([34]) possono, per i rapporti di conto corrente, chiedere il decreto ingiuntivo in base agli estratti conto e non più in base all’estratto di saldaconti; questa è un’altra importante novità, di contenuto più sostanziale, rientrante in un’ottica di maggiore trasparenza e di tutela anche delle ragioni del cliente (infatti, nella “Relazione” si legge che «la nuova norma, facendo esclusivo riferimento all’estratto di conto corrente, risponde alla necessità di tutelare il correntista anche nell’eventuale giudizio susseguente al procedimento monitorio, consentendogli una contestazione consapevole delle risultanze del documento stesso»), e che comporta anche il limitare la procedura monitoria agevolata ai soli rapporti, riguardanti l’attività bancaria, regolati in conto corrente, mentre in base all’art. 102 l.b. tale procedura poteva riguardare tutti i rapporti fra banca e cliente che erano a debito di quest’ultimo (i rapporti a debito del cliente, non regolati in conto corrente, erano assai poco frequenti nella realtà ed infatti l’utilizzo, per fini monitori, dell’estratto di saldaconti ha riguardato solo i rapporti di conto corrente)([35]).
Ci si è posti il quesito se, oltre ai rapporti, regolati in conto corrente, derivanti dalla raccolta del risparmio tra il pubblico e dell’esercizio del credito, l’art. 50 t.u.b. si applichi ai rapporti posti in essere dalle banche nell’esercizio di attività finanziarie e regolati anch’essi in conto corrente. Al riguardo sono da segnalare posizioni dottrinali divergenti. C’è chi ritiene la norma non estensibile a tali rapporti (non perché non è possibile un’estensione analogica di un norma eccezionale, dato che l’art. 50 t.u.b., parlando solo di “estratto conto”, non statuisce espressamente una limitazione normativa in merito ad alcuni rapporti regolati in conto corrente), perché «le ragioni dell’esclusione, a pena di una irragionevole discriminazione dei rapporti posti in essere da società finanziarie nell’esercizio della loro attività statuaria, debbono ricercarsi nella ratio sottesa alla previsione dell’art. 50, rinvenibile nell’esigenza di salvaguardare la stabilità del sistema creditizio»([36]). Altri invece ritengono che «in assenza di una distinzione operata dal legislatore, va riconosciuta la possibilità del ricorso alla procedura monitoria a tutti i rapporti regolati in conto corrente, sia che accedano ad attività bancaria vera e propria, sia che riguardino attività finanziarie ai sensi dell’art. 10 t.u.b.»([37]). Qualunque sia la soluzione accolta al riguardo, l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 50 t.u.b. è più circoscritto di quello di cui all’art. 102 l.b. (anche se praticamente non vi è una grande differenza, perché, come già ricordato, l’art. 102 l.b. ha trovato un’applicazione limitata ai rapporti in conto corrente; anzi, poiché l’ambito soggettivo si è esteso, i rapporti per i quali ora è possibile richiedere la procedura monitoria agevolata sono aumentati).
Inoltre, è stato anche affermato che la correlazione che il secondo comma dell’art. 119 t.u.b. instaura tra “estratti conto” e “rapporti regolati in conto corrente” suggerirebbe di limitare l’applicazione dell’art. 50 t.u.b. ai soli crediti derivanti da rapporti di quel tipo (svolti anche nell’esercizio di attività finanziarie); tuttavia, la previsione di cui al primo comma dell’art. 119 t.u.b., che dispone l’obbligo per le banche e gli intermediari finanziari, nei contratti di durata, di inviare per iscritto e periodicamente ai clienti «una comunicazione completa e chiara in merito allo svolgimento del rapporto», potrebbe suggerire di estendere l’ambito di applicazione dell’art. 50 t.u.b. anche ai crediti bancari derivanti da contratti di durata non regolati in conto corrente([38]), cioè a tutti quei casi disciplinati dal 1° comma dell’art. 119. t.u.b.; anche se probabilmente non c’è una particolare esigenza di applicare l’art. 50 t.u.b. a questi rapporti, in quanto la banca è, in tali casi, «normalmente già in possesso di documenti idonei a fornire la prova del credito, anche ai sensi delle norme di diritto comune sulle prove»([39]), salvo quanto previsto per le nuova forme di finanziamento che richiedono la previsione della legittimità della conclusione del contratto mediante strumenti diversi dal documento stricto sensu. A supporto di questa tesi si considera come le finalità delle due norme in questione siano convergenti, nel senso che devono essere date al cliente quelle informazioni necessarie per salvaguardare dapprima il suo diritto di informazione e, successivamente ed eventualmente, il suo diritto di difesa. Ad opposizione di questa tesi, però, si fa notare come «la “comunicazione periodica alla clientela”, pur assolvendo il medesimo obbligo di rendere trasparenti i rapporti tra banca e cliente, non può essere equiparata in toto all’estratto conto che presuppone un quid pluris nel rapporto di durata che pure l’origina: il conto corrente appunto»([40]) (tra l’altro, stando alle pubblicazioni dei casi giurisprudenziali, non pare si sia tentato di applicare l’art. 50 t.u.b. a rapporti finanziari regolati o meno in conto corrente).
Altra novità dell’art. 50 t.u.b. è il riferimento, come già detto, all’art. 633 c.p.c., e non più all’art. 3 del r.d. n. 1531 del 1936, la cui norma era confluita nell’art. 635 c.p.c. (un cambiamento logico in quanto i soggetti ai quali si applica l’art. 50 t.u.b. non sono, ad eccezione della Banca d’Italia, istituti aventi natura pubblica e, quindi, non è ad essi applicabile l’art. 635 c.p.c.).
I.8 Problemi di legittimità costituzionale dell’art. 50 t.u.b.
Il “nuovo” art. 50 t.u.b., benché elimini le disparità tra banche, non esclude altre questioni che potrebbero generare dubbi di legittimità costituzionale; infatti, è vero che la normativa in questione si ha per salvaguardare le esigenze di stabilità del sistema bancario, ma, come afferma il Minervini, «non appare sufficiente giustificazione della specialità della norma l’asserita maggiore garanzia di una corretta amministrazione contabile, che offrirebbero le banche; questo assunto, se collegato alla soggezione a vigilanza, giustificherebbe se mai la previsione dell’agevolazione a pro di tutte le imprese soggette a pubblico controllo. Allo stato, è una norma di favore»([41]), dunque, si potrebbe configurare una violazione dell’art. 3 Cost. in relazione alla disparità tra le banche e le imprese soggette a pubblico controllo([42]).
Perplessità sorgono anche dalla mancata menzione, tra i soggetti di cui all’art. 50 t.u.b., degli intermediari finanziari, quantomeno con riferimento agli intermediari iscritti nell’albo speciale previsto dall’art. 107 t.u.b. (non è ad essi possibile un’estensione della norma, non solo per il tenore letterale della disposizione, ma anche per la sua eccezionalità), sottoposti alla vigilanza regolamentare, ispettiva ed informativa della Banca d’Italia([43]); e ciò specie se si ritiene l’art. 50 t.u.b. applicabile a quei rapporti, in conto corrente, instaurati dalle banche e riguardanti le attività finanziarie, con quelle ad esse connesse e strumentali, e l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi di investimento. Ma alcuni autori, a riguardo, giustificano tale esclusione facendo riferimento sempre alla ratio della norma, che è quella di salvaguardare il sistema bancario.
Inoltre, l’art. 50 t.u.b. (come era anche per l’art. 102 l.b.), per i rapporti tra banca e ingiunto, potrebbe destare dubbio di legittimità anche in merito all’art. 24 Cost.; al riguardo, però, va rilevato che la Corte Costituzionale (4 maggio 1984, n. 137)([44]) si è già espressa per una situazione simile (in merito ai professionisti che possono chiedere il decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 636 c.p.c.) ed ha ritenuto che non ci sia un privilegio ingiusto.
Perplessità, infine, si sono avute in merito ad un possibile eccesso di delega, ma delle due deleghe contenute nell’art. 25 della l. n. 142 del 1992, quella riguardante l’emanazione del testo unico (al riguardo il Minervini parla di “delega di secondo grado”) non ha un oggetto definito con nitidezza e non vengono dettati principi e criteri direttivi determinati con puntualità (si parla solo di un testo unico che coordini le disposizioni che venivano adottate con l’attuazione della II direttiva CEE con le altre disposizioni vigenti nella stessa materia, apportandovi le modifiche necessarie a tal fine); a ciò, c’è da aggiungere «l’indirizzo accentuatamente liberale della dottrina e della giurisprudenza della Corte Costituzionale nell’interpretazione e nell’applicazione dell’art. 76 della Costituzione»([45]).
Capitolo II
L’applicazione dell’art. 102 l.b. e dell’art. 50 t.u.b.: il permanere delle divergenze interpretative.
II.1 I contenuti dell’estratto di saldaconti e dell’estratto di conto corrente.
Nella vigenza della “vecchia legge bancaria”, i soggetti che inizialmente potevano ricorrere alla procedura monitoria agevolata erano l’istituto di emissione, gli istituti di credito di diritto pubblico, le banche di interesse nazionale e le casse di risparmio; successivamente, come già detto, questa procedura fu estesa a tutte le banche, per poi trovare attuale regolamentazione nell’art. 50 t.u.b..
L’art. 102 l.b. prevedeva la formazione, da parte dei suddetti soggetti, di un estratto di saldaconti per potere ottenere un decreto ingiuntivo nei confronti del cliente-correntista; ora, il legislatore non ha mai definito cosa sia il saldaconto, quindi, è imprescindibile riferirsi alla prassi operativa delle banche per qualificarlo, comprendendone così la natura ed il contenuto. L’espressione saldaconti (la parola è un composto di saldare e conto/i)([46]) (o saldaconto) allude alla possibilità (contemplata dall’art. 1853 c.c.)([47]), che tra la banca ed il cliente esistano più rapporti e più conti, che si compensano reciprocamente e dei quali il documento in questione esprime il saldo riassuntivo; inoltre, l’espressione al plurale usata dal legislatore (estratto dei loro saldaconti) proverebbe, secondo alcuni autori, che il credito per cui poteva richiedersi l’ingiunzione doveva essere riferito a tutti i rapporti regolati in conto corrente([48]), ma tale tesi non trovava riscontro nella prassi, in quanto le banche erano solite presentare tanti estratti di saldaconto quanti erano i rapporti con il cliente nei cui confronti si richiedeva il decreto ingiuntivo (per quanto riguarda le parole “saldaconti” o “saldaconto”, c’è da aggiungere che tali espressioni sono usate indistintamente).
Dal punto di vista tecnico, il termine saldaconti designava un particolare registro nel quale venivano riportati tutti i movimenti a debito e a credito nei confronti del cliente; ebbene, questo antiquato strumento contabile non viene più utilizzato da lungo tempo, sostituito, in relazione all’evoluzione tecnologica, elettrocontabile prima, elettronica poi, da schedari a fogli mobili e, da ultimo, da mezzi informatici, così tali registri sono venuti a mancare e non è stato più possibile avere da questi degli estratti (ecco perché, tra l’altro, la parola “saldaconti” è stata usata indistintamente rispetto all’espressione “estratto di saldaconti”). Ma ciò non ha mai intaccato la vigenza e l’applicabilità della norma. Proprio perché il legislatore non fissava i requisiti formali del saldaconto, dunque, poteva essere riferito ad una certificazione finale della compensazione di partite riportate nella contabilità della banca, qualunque fosse stato il sistema di contabilità da questa tenuto.
L’estratto di saldaconti, quindi, poteva anche essere costituito semplicemente dal saldo finale a credito della banca([49]), senza che fossero indicati gli addebiti e gli accrediti che determinavano quel credito (difatti tale scarno documento era utilizzato dalle banche nella procedura monitoria agevolata), non permettendo così al giudice di valutare in alcun modo il documento redatto dalla banca che si affermava creditrice, nemmeno la giustezza delle operazioni matematiche (comunque, le banche spesso, oltre a presentare il saldo finale, precisavano le varie partite che avevano portato a tale saldo; si trattava di una elencazione sicuramente non necessaria per l’ottenimento dell’ingiunzione, ma utile in sede di un eventuale giudizio di opposizione).
L’art. 50 t.u.b., come si sa, consente ora alle banche di accedere alla procedura monitoria agevolata in base all’estratto di conto corrente, sostituendolo all’estratto di saldaconti. Ma come per quest’ultimo, anche per l’estratto di conto corrente il legislatore non fornisce una definizione espressa. A differenza del “vecchio” estratto di saldaconti, però, l’“attuale” estratto conto indica un documento, diffusissimo nella prassi bancaria, assoggettato ad una peculiare disciplina concernente il valore probatorio e l’impugnabilità. E già da tempo la giurisprudenza ha chiarito che, nonostante il tenore letterale dell’art 1832 c.c., che, al 2° comma, parla di «estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura», l’estratto conto non è solo quello di chiusura finale, bensì anche quello di chiusura periodica, a condizione che esso includa «tutte le voci a credito ed a debito ricadenti nel periodo considerato, perché possa essere riportata a nuovo (invece di essere liquidata) la somma che rappresenta la differenza, quale prima posta della successiva fase del conto»([50]).
Per quanto riguarda l’aspetto contenutistico, dalla prassi bancaria e dall’interpretazione giurisprudenziale dell’art. 1832 c.c., si deduce che l’estratto conto si delinea come un documento recante la rappresentazione, non solo del saldo positivo o negativo del conto, ma di tutte le operazioni che hanno contribuito a formarlo; ed infatti la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha chiarito che l’estratto conto deve «contenere la contabilizzazione dei diritti di commissione, delle spese per le operazioni che hanno dato luogo a rimesse (diritti che, salva convenzione contraria, devono essere indicati nel conto, a norma dell’art. 1826 c.c. richiamato dall’art. 1857 c.c.), degli interessi (attivi e passivi) maturati, delle ritenute fiscali sugli interessi liquidati a favore del correntista e di ogni altra voce di dare e di avere»([51]).
Ed anche la “Relazione” al Decreto Legislativo n. 385 del 1993([52]) sottolinea come l’estratto conto «deve rappresentare il risultato di tutte le voci a credito e a debito ricadenti nell’arco di tempo considerato, ivi compresi i diritti di commissione, le spese, le ritenute fiscali e gli interessi attivi e passivi maturati, con l’indicazione di un saldo attivo o passivo che costituirà la prima posta della successiva fase del conto». Ma nonostante tali parole ricalchino (benché non completamente) le affermate posizioni giurisprudenziali, vi è stato chi ha mostrato qualche perplessità sull’utilizzo dell’espressione “risultato”, in quanto potrebbe sorgere l’erronea convinzione che sia sufficiente un dato contabile riassuntivo indicante il saldo a credito della banca; inoltre, si è notato che nella Relazione non viene fatto alcun riferimento alle causali delle singole operazioni, né si precisa quale debba essere il periodo di riferimento([53]); comunque sia, considerata la ratio della modifica al riguardo effettuata dal nuovo Testo Unico rispetto alla precedente normativa e viste le indicazioni della Suprema Corte e la prassi, non pare ci siano dubbi che il contenuto degli estratti conti non sia costituito dal solo risultato delle operazioni algebriche delle varie voci e senza alcuna indicazione delle relative causali.
L’estratto conto deve avere, per le sue finalità, un contenuto chiaro ed intelligibile. Completezza ed intelligibilità sono caratteristiche indefettibili dell’estratto conto; la completezza impone non solo l’analiticità delle annotazioni dell’estratto conto, ma anche che tutte queste voci siano corredate dall’indicazione delle relative causali; mentre l’intelligibilità è data da una redazione delle voci che possa essere compresa da una persona di media cultura ed esperienza. Inoltre, a norma del comma 2 dell’art. 119 t.u.b, l’estratto conto deve essere «inviato al cliente con periodicità annuale o, a scelta del cliente, con periodicità semestrale, trimestrale o mensile». Dunque, il correntista, attraverso tale documento dal contenuto completo ed intelligibile inviato regolarmente, ha un’adeguata rappresentazione dell’evolversi del rapporto di conto corrente, garantendo così, almeno potenzialmente, la tutela del proprio diritto di conoscenza ed, eventualmente, del proprio diritto di difesa, in quanto si tratta di un riassunto contabile che consente a chi lo riceve di controllare l’esattezza del saldo iniziale e di quello finale sulla base delle scritture riportate di volta in volta (controllo particolarmente difficile, se non impossibile, da farsi attraverso l’estratto di saldaconti).
Infine, l’estratto di conto viene ordinariamente utilizzato nel rapporto di conto corrente ed ha la finalità di “stabilizzarlo”, nel senso che «in mancanza di opposizione scritta da parte del cliente, gli estratti conto … si intendono approvati trascorsi sessanta giorni dal ricevimento» (art. 119 t.u.b, co. 2) (di qui l’importanza della chiarezza ed intelligibilità dell’estratto); mentre l’estratto di saldaconti serviva esclusivamente alla procedura monitoria e, secondo alcune posizioni giurisprudenziali e dottrinali, come prova oppure elemento di prova nel giudizio di opposizione ed anche negli altri giudizi di cognizione.
II.2 La certificazione e la dichiarazione del dirigente di banca di cui agli articoli 102 l.b. e 50 t.u.b.
Comune all’art. 102 l.b. e all’art. 50 t.u.b. è la previsione che il dirigente bancario debba attestare l’esistenza del credito nelle scritture contabili([54]) (certificato conforme …) (si tratta di un’attività ricognitiva) e dichiararne la veridicità e la liquidità (si tratta di un’attività qualificata a carattere eminentemente dichiarativo). Si hanno dunque documenti-dichiarazioni, provenienti dalla stessa parte ricorrente, che si sostanziano nell’attestazione dell’esistenza della partita contabile da cui deriva la ragione creditoria([55]).
Il concetto di verità del credito implica che questo deve essere realmente esistente al momento della richiesta d’ingiunzione, nel senso che all’apparenza contabile deve corrispondere la realtà; quindi, non dovrà trattarsi, ad esempio, di un credito che trova una causa di estinzione per compensazione in una partita a debito della banca. Mentre il concetto di liquidità (condizione essenziale per ricorrere alla procedura monitoria ai sensi dell’art. 633 c.p.c.) impone che il credito sia predeterminato nel suo ammontare, senza che si debba procedere a calcoli od aggiunte, se non meramente strumentali, e che sia immediatamente esigibile. Un credito è esigibile quando è scaduto, o per il decorso della naturale scadenza, o per la dimostrata decadenza del beneficio del termine; nel caso di credito sottoposto a condizione, questa dovrà essersi già avverata.
Ora, ci si è chiesti se il legislatore, nell’usare il termine “dirigente”([56]), l’abbia inteso in senso giuslavoristico, oppure l’abbia usato secondo la comune accezione che esso ha nel linguaggio corrente; tra l’altro, le stesse diciture degli artt. 102 l.b. e 50 t.u.b. sono generiche in quanto fanno riferimento ad «uno dei dirigenti». Riguardo alla “vecchia” legge bancaria, il termine dirigente non veniva usato sempre in senso univoco, a volte era abbastanza chiaro l’uso nel senso previsto dalla contrattazione collettiva; altre volte, invece, è certo che venisse usato in senso generico([57]) (specie quando il termine “dirigente” era usato isolatamente, come nell’art. 102 l.b., e non nell’elencazione di diverse categorie di personale). Ed infatti nella prassi spesso gli estratti dei saldaconti venivano firmati da soggetti non aventi la qualifica contrattuale di dirigente. Per quanto riguarda l’art. 50 t.u.b.; anche qui (come negli altri due articoli del decreto nei quali il vocabolo ricorre: il 23 ed il 53) sembra che il termine “dirigente” sia usato nel suo significato generico di «chi ha funzioni e compiti direttivi in una attività o per particolari servizi»([58]). Pertanto, l’attività certificativa di cui all’art. 50 t.u.b. potrà anche essere esercitata da un dipendente della banca, preposto ad un determinato settore (es. direttore o vice direttore di filiale, capo servizio, ecc.), seppure non sia dirigente ai sensi del contratto collettivo del personale direttivo, ma potrà anche essere un componente dell’organo amministrativo([59]). Contro questa lettura però, c’è chi ritiene che, stante la puntuale formula utilizzata dalla legge, il potere di certificazione ed attestazione deve ritenersi consentito ai soli dirigenti([60]).
Posizioni differenti si hanno sulla questione se il dirigente di cui all’art. 50 t.u.b., inteso nel detto “senso ampio”, derivi il suo potere di autocertificazione direttamente dalla legge oppure gli sia conferito dai competenti organi della banca (la questione non riguarda ovviamente il legale rappresentante). Da una parte della dottrina è stato affermato che, siccome la certificazione deve avvenire in rappresentanza della banca ed i poteri di questa vanno espressamente conferiti, è da ritenere che ai suddetti soggetti tale potere di certificazione vada assegnato dai competenti organi della banca e non derivi, invece, direttamente dalla legge([61]); mentre, altra dottrina, ritiene che, nonostante il dirigente operi in nome e per conto della banca, il suo potere di rappresentanza gli sia attribuito direttamente dalla legge in relazione al preciso ruolo che questi riveste nell’organizzazione aziendale. Anzi, proprio dalla derivazione legislativa di tale potere, sorge la necessità che il dirigente certificante debba risultare individuabile con esattezza dal contenuto dell’estratto conto; solo così sarà possibile verificare la sussistenza del potere di certificazione in capo allo stesso e, di conseguenza, potrà ritenersi soddisfatto il requisito formale previsto già dall’art. 102 l.b. ed ora dall’art. 50 t.u.b.([62]). Se il potere in questione non derivasse dalla legge, bisognerebbe verificare per ogni singolo caso l’idoneità della delega e del delegante.
Riguardo poi alla natura del potere di “autocertificazione” del dirigente bancario il Nigro, commentando l’art. 102 l.b., lo fa rientrare nel potere generalmente spettante agli enti pubblici, facendo equivalere la certificazione dirigenziale alle attestazioni notarili([63]), ma su questo punto si è già detto che il dirigente non è terzo rispetto al rapporto e che l’estratto di saldaconti non viene tratto da libri bollati e vidimati; tutt’alpiù poteva vedersi, nella genesi normativa dell’art. 102 l.b., un’assimilazione del dirigente bancario alla figura del pubblico funzionario, ma questa è venuta meno col tempo e, di certo, non riguarda l’attuale figura del dirigente bancario che certifica ai sensi dell’art. 50 t.u.b..
Il potere di “autocertificazione” risulta oggi di difficile inquadramento sistematico (come anche poco giustificabile, salvo richiamare sempre il fine di stabilità del settore bancario, che, tra l’altro, non può essere garantito solo dall’applicazione di tale norma), in quanto è fuori discussione, come detto più volte, che gli intermediari bancari e la loro attività hanno natura privatistica; dunque, tale potere ha un carattere assolutamente singolare e non c’è dubbio che questa certificazione ha il fine specifico di rafforzare, dal punto di vista formale, il valore probatorio del documento redatto dalle banche e di esonerarle dalle formalità che sarebbero necessarie, ai sensi dell’art. 634 c.p.c., per utilizzare in sede monitoria le risultanze delle proprie scritture contabili.
Un’altra querelle giurisprudenziale: se la certificazione e la dichiarazione del dirigente di banca siano o meno elementi essenziali per l’ottenimento del decreto ingiuntivo. Al riguardo, la Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 2 dicembre 1968([64]), confermava la decisione di non concessione del decreto ingiuntivo ad un estratto di saldaconti, in quanto, mancando la dichiarazione di liquidità e verità del credito del dirigente (ma le motivazioni addotte si possono riferire a maggior ragione per la certificazione di conformità), non costituiva prova scritta per l’ottenimento dell’ingiunzione; nella motivazione la Corte spiegava che tale dichiarazione «non è una formalità indifferente o derogabile, perché ad essa e ad essa soltanto è attribuito un valore processuale in quanto tale, in quanto ritenuta formalità sufficiente perché sia pronunciata ingiunzione, anche in difetto di una delle prove scritte previste nel capitolo I del titolo I del libro IV del codice di procedura civile e, in particolare, di estratto autentico delle scritture di cui agli artt. 2214 ss. c.c., bollate, vidimate e regolarmente tenute … Il rispetto rigoroso della forma torna ad essere requisito di validità tutte le volte che la legge stessa condiziona il raggiungimento di uno scopo o di un effetto ad una forma determinata. Ciò non è per una sopravvivenza di arcaico formalismo, ma per il concetto squisitamente moderno di garanzia processuale come aspetto nei confronti delle parti del principio di legalità: infatti, quando la forma è imposta dalla legge processuale, assume sempre funzione di garanzia, in quanto costituisce un limite alla valutazione discrezionale dell’idoneità dell’atto o del mezzo di prova». Altro elemento di persuasione, nel supportare la tesi dell’essenzialità delle dichiarazioni del dirigente bancario, è dato dalla genesi normativa della sua previsione; giacché nella prima formulazione dell’art. 102 l.b. (r.d.l. n. 1400 del 1937), come si è detto in precedenza, era prevista semplicemente la certificazione di conformità alle scritturazioni, successivamente, con la dicitura definitiva della norma (l. n. 636 del 1938), fu introdotta la dichiarazione di verità e liquidità del credito; questo emendamento aveva il fine di «assicurare la maggiore garanzia nella presentazione dell’istanza diretta ad ottenere il decreto di ingiunzione»([65]), che non è venuto meno con l’art. 50 t.u.b, in quanto, come affermato nella “Relazione” al d. lgs. n. 385 del 1993, «… la norma lascia immutate le altre previsioni contenute nell’art. 102 della legge bancaria e in particolare: … la certificazione di veridicità e liquidità del credito a opera del dirigente dell’ente interessato alla procedura».
Comunque, qualunque sia la genesi di questa previsione, c’è chi riteneva la dichiarazione di verità e liquidità del credito formalità non essenziale (valutazione differente riguardava la certificazione), perché, essendo la stessa determinazione del credito della banca, indicato nell’estratto di saldaconti, frutto di un’operazione giuridica (e contabile) compiuta su scritturazioni della banca stessa, è già in re ipsa indicatrice della realtà e liquidità del credito. A sostegno della tesi che il saldo dei rapporti bancari regolati in conto corrente si riferisce sempre necessariamente ad un credito vero e liquido, dottrina ha addotto due argomentazioni: a) secondo l’art. 1852 c.c. il correntista può disporre in ogni momento delle somme risultanti a suo credito con l’osservanza del termine di preavviso stabilito, termine che non incide sulla liquidità e verità del credito, ma solo sulla esigibilità. Ma proprio perché tale saldo è sempre disponibile, non può che riferirsi ad un credito vero e liquido, «ossia determinato nella sua consistenza ed ammontare ed incontroverso nel suo titolo, ossia non suscettibile di contestazioni od eccezioni, altrimenti verrebbe paralizzato il potere del creditore di disporne in ogni momento, fungendo la illiquidità, ovvero la esistenza di condizioni, da impedimento alla concreta disponibilità del credito stesso»([66]); b) poiché la banca ha il potere di operare la compensazione fra saldi qualora esistano più conti o rapporti (art. 1853 c.c.), appare ovvio che una precondizione per l’esercizio di tale potere è che i vari crediti siano da ritenersi tutti liquidi e veri. E, ovviamente, anche la responsabilità della banca (e del suo dirigente) sorge nel momento dell’indicazione dell’entità del credito; dunque, sarebbe stato sufficiente, per l’ottenimento del decreto ingiuntivo, un estratto di saldaconti idoneo, sul piano sostanziale, ad evidenziare gli elementi di fatto voluti dalla legge per i fini previsti, anche mancando la dichiarazione di realtà e liquidità del credito([67]).
Il Cabras è d’accordo con l’affermazione che la prescrizione dell’art. 102 l.b. rappresenta un formalismo (e la suddetta sentenza della Corte d’Appello di Bologna lo riconosce), ma questo non è «inutile, né privo di significato: infatti si accompagna … ad una certa astrazione del credito, che consente alla banca di ottenere il decreto ingiuntivo senza dover neanche rendere esplicito il fondamento causale della propria pretesa»([68]).
C’è da rilevare che nella prassi le banche difficilmente non hanno rispettato i requisiti formali previsti dall’art. 102 l.b., anche perché ciò non costituiva un “impegno gravoso”. Comunque sia, la tesi della non essenzialità dei requisiti formali indicati dalla legge in merito dapprima agli estratti di saldaconti e, ora, agli estratti conto non pare più facilmente sostenibile se si considera che il legislatore ha riproposto i requisiti della dichiarazione e, in particolare, dell’“autocertificazione” nell’attuale art. 50 t.u.b..
Inoltre, sulle necessità dell’attestazione del funzionario di banca (che impegna la sua responsabilità) e della completa aderenza a quanto previsto dall’art. 102 l.b. in merito alla documentazione da produrre, c’è da notare una risalente sentenza della Cassazione([69]) nella quale si negava valore di prova per l’ottenimento del decreto ingiuntivo ad un estratto notarile della scheda di conto corrente in quanto, non trattandosi di estratto di scritture bollate e vidimate, non era applicabile l’art. 634, co. 2, c.p.c.([70]), e, mancando l’ «attestazione che può essere fatta solo da un funzionario della banca ed impegna la sua responsabilità», non ci si trovava nell’ipotesi di cui all’art. 102 l.b. (si può presumere che, se la Cassazione avesse accolto la tesi proposta del ricorrente Banco di Roma e si fosse consolidata, si sarebbe anche potuto affermare che tale documentazione avrebbe avuto lo stesso valore probatorio delle scritture bollate e vidimate nei giudizi di cognizione).
Inoltre, c’è da supporre che, alla mancanza della dichiarazione di conformità alle scritture contabili e della dichiarazione di verità e liquidità del credito, sia da assimilare l’ipotesi in cui non si riesca ad evincere dal documento chi sia il dirigente autore delle attestazioni (si pensi, per esempio, ai casi in cui non sono stati indicati il nome e cognome del dirigente o la sua firma sia illeggibile)([71]).
Infine, essendo il dirigente certificante responsabile delle attestazione che compie ai fini della procedura monitoria agevolata, se la certificazione di conformità e l’attestazione di verità e liquidità dovessero risultare non veritiere e, conseguentemente, fosse accertata la responsabilità del dirigente, egli incorrerebbe nella violazione di cui all’art. 485 c.p. (falso in scrittura privata)([72]). Ma di diverso parere è il Valignani, il quale ritiene che un comportamento fraudolento del dirigente non ricada sotto la sanzione di alcuna norma penale; però, come lo stesso autore rileva, per quanto concerne gli aspetti civilistici è fuori discussione una precisa responsabilità sia del dirigente, sia della banca, salva la possibilità di revocazione del decreto pronunciato sulla base di un documento redatto in modo fraudolentemente non rispondente al vero([73]).
II.3 Gli estratti di saldaconti e la loro utilizzazione nella (limitata alla) procedura monitoria.
Il dirigente di banca, sotto la vigenza della “vecchia” legge bancaria, redatto l’estratto di saldaconti, poteva chiedere al giudice l’emanazione del decreto ingiuntivo.
Come si sa, il procedimento di ingiunzione rientra tra quegli accertamenti che, nella terminologia del Chiovenda, sono detti “accertamenti con prevalente funzione esecutiva”, in quanto caratterizzati, dal punto di vista funzionale, dall’esigenza di conseguire, il più rapidamente possibile, il titolo esecutivo e con esso l’avvio dell’esecuzione forzata; nonché, dal punto di vista strutturale, dalla sommarietà della cognizione. Il procedimento ingiuntivo contempera le esigenze di celerità con quelle del contraddittorio attraverso l’espediente tecnico della ripartizione del procedimento in due fasi; la prima (che è la sola che presenta i caratteri della sommarietà della cognizione) si instaura ad iniziativa di chi, affermandosi creditore, fa valere il suo diritto di credito e si svolge inaudita altera parte, concludendosi con il rigetto o l’accoglimento del ricorso, ed in quest’ultimo caso il giudice emette il decreto ingiuntivo, da notificarsi al debitore ingiunto. Quest’ultimo può entro quaranta giorni (o altro termine stabilito dal giudice e compreso tra dieci e sessanta giorni; ulteriori termini sono previsti se l’intimato risiede in uno Stato dell’Unione europea o in uno Stato extracomunitario) proporre opposizione al decreto ingiuntivo, instaurando così un giudizio (eventuale perché lasciato alla sua iniziativa) che si svolge con tutte le garanzie del contraddittorio (c.d. contraddittorio differito) e che è ancora di primo grado, in quanto si sostituisce interamente a quello svoltosi sommariamente nella prima fase([74]); il decreto ingiuntivo viene così sostituito dalla sentenza che chiude la fase di opposizione. Nei casi in cui l’ingiunto non abbia fatto opposizione o, fatta opposizione, non si sia costituito, il giudice, su istanza anche verbale del ricorrente, e previa verifica della notificazione del decreto (ed eventuale sua rinnovazione) se non c’è stata opposizione, dichiara il provvedimento esecutivo, divenendo questo a tutti gli effetti titolo esecutivo, che gode inoltre dell’agevolazione di non dover essere nuovamente notificato per procedere ad esecuzione forzata.
La legge, però, non dice espressamente che il decreto ingiuntivo non opposto (od opposto con giudizio poi estinto o dichiarato inammissibile o improcedibile) acquista l’efficacia di cosa giudicata; tuttavia la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono concordi nel ritenere ciò sul fondamento di disposizioni di legge dalla quali si può desumere l’intenzione del legislatore di attribuire al decreto ingiuntivo l’efficacia propria del giudicato([75]). Discusso è se l’efficacia di cosa giudicata consegua automaticamente al decorso del termine o se invece si verifichi solo a seguito della dichiarazione di esecutorietà.
Condizione per l’accoglimento del ricorso è la prova scritta del diritto che si intende far valere e che il giudice deve valutare; nel caso dell’estratto di saldaconti([76]), poiché il suo contenuto poteva limitarsi all’indicazione del saldo([77]), con ovviamente l’adempimento delle prescrizioni imposte al dirigente di banca, l’attività del giudice si limitava di fatto ad un controllo formale del documento e ad “un atto di fede” sulla pretesa creditoria della banca, rendendo poco probabile un rigetto della domanda ai sensi dell’art. 640 c.p.c. (bisogna ricordare però che spesso le banche producevano altresì documentazione non necessaria ai fini dell’emanazione del decreto; documenti che sarebbero stati poi utili nell’eventuale fase di opposizione; oppure necessari a dimostrare il pericolo di grave pregiudizio di cui all’art. 642 c.p.c. e chiedere, dunque, l’esecuzione provvisoria del decreto). Quindi, la constatazione sulla reale esistenza e consistenza del credito veniva “affidata” interamente al debitore ingiunto, il quale, tra l’altro, aveva un termine abbastanza breve per verificare la realtà del debito, calcolarne l’ammontare (non sempre agevolmente, poiché il saldaconti, che si limitava all’enunciazione del saldo, poteva riguardare più rapporti) e procedere all’opposizione (nel procedimento d’ingiunzione c’è l’inversione dell’onere dell’iniziativa circa l’instaurazione del contraddittorio per il giudizio a cognizione piena e completa, in quanto essa viene addossata alla parte che, il più delle volte, ne conosce l’utilità o meno).
Come già detto, nel procedimento di ingiunzione il debitore ingiunto, opponendosi, instaura un giudizio di cognizione dove i propri diritti vanno provati; e non è detto che la prova sufficiente all’emanazione del provvedimento monitorio costituisca piena prova nel giudizio di cognizione. Ora, riguardo all’estratto di saldaconti si sono avute, specie in ambito giurisprudenziale, diverse posizioni che attribuivano ad esso o un valore di piena prova anche nel giudizio di opposizione, o lo si considerava elemento indiziario, oppure non gli si attribuiva alcuna capacità probatoria.
L’interpretazione che non riconosceva nemmeno un valore di elemento indiziario all’estratto di saldaconti nel giudizio di opposizione è ben delineata in due sentenze della Suprema Corte, la prima è la n. 5279 del 1979([78]), l’altra è la n. 8128 del 1990([79]). Nella prima di queste sentenze, che riguardava un caso di ammissione al passivo fallimentare, si faceva un chiaro riferimento alla lettera della norma che non estendeva l’“utilizzo” del saldaconti al giudizio di cognizione, inoltre, si riconosceva una incostituzionalità nell’ipotesi di estensione dell’applicazione del saldaconto oltre la procedura monitoria; la Corte di Cassazione affermava precisamente che «la possibilità di estendere l’efficacia probatoria di questi estratti agli ordinari giudizi di cognizione è esclusa sia dalla lettera della disposizione in esame (che limita tale efficacia espressamente al procedimento di ingiunzione) sia dal principio dell’uguaglianza delle parti nel processo: principio che riceve nuova forza dall’articolo 3 Cost. e che rimarrebbe violato se si consentisse alla parte che ha l’onere della prova di dimostrare il proprio assunto attraverso la semplice enunciazione».
La seconda sentenza citata, facendo un raffronto tra l’art. 102 l.b. e l’art. 2710 c.c., confermava questo indirizzo con una motivazione più articolata in quanto si considerava l’eccezionalità di una norma che consentiva la formazione di una prova a proprio favore. La Suprema Corte asseriva che, a conferma della non utilizzabilità dell’estratto di saldaconti nel giudizio di cognizione, bisognava considerare come «dalla esaustiva disciplina delle prove, posta dal titolo II del libro VI del codice civile, è evincibile il principio generale secondo cui la dichiarazione resa od il documento redatto da uno dei contendenti è invocabile a suo danno, non a suo favore, salvo diversa previsione; previsione sottratta, per la sua portata di eccezione, alla possibilità di estensione oltre i casi espressamente contemplati (art. 14 disp. prel.) … Anche la contabilità d’impresa soggiace alla regola generale e, quindi, è in grado di fornire solo elementi a svantaggio di chi la tiene, ai sensi dell’art. 2709 c.c., salvo che ricorra la specifica ipotesi dell’art. 2710 c.c., quella cioè dei rapporti fra imprenditori inerenti all’esercizio dell’impresa, nella quale i libri, purché rispettino determinate prescrizioni formali, “possono fare prova” a favore. Con riguardo all’estratto di saldaconti, che è uno stralcio della contabilità d’impresa bancaria, un ampliamento dell’eccezione introdotta dal citato art. 2710 c.c., nel senso che l’estratto medesimo, certificato conforme, faccia sempre prova in ordine ai crediti della banca verso il cliente, non è ravvisabile nell’art. 102 l.b.; questo, infatti, sottintendendo un apprezzamento della garanzia di autenticità della contabilità di determinati istituti di credito e delle attestazioni provenienti da un loro direttore, non va al di là di un esonero dalle formalità che sarebbero altrimenti necessarie per utilizzare la contabilità dell’impresa ai fini dell’ingiunzione …, mentre non esprime alcuna disposizione che possa, direttamente od indirettamente, indicare l’intento del legislatore di assegnare a detto atto unilaterale la consistenza di documento-prova a favore del suo autore. La norma in esame, in altre parole, integra (ed anticipa) l’art. 635 c.p.c., equiparando gli estratti dei saldaconti, per il conseguimento di decreto d’ingiunzione, ai libri o registri della pubblica amministrazione, ma non introduce deroghe ai comuni criteri che presiedono alla prova civile in sede cognitoria, né sposta sul cliente della banca l’onere di dimostrare, a pena di soccombenza, l’erroneità od inattendibilità dei conteggi da essa effettuati». In merito a quest’ultima sentenza potrebbe lasciare perplessi la mancata osservazione della difformità sostanziale dell’estratto ex art. 102 l.b. da quello di cui all’art. 2710 c.c., ma ciò non riguarda, a ben vedere, l’iter logico della motivazione; criticabile appare il riferimento all’art. 635 c.p.c. che non era più sostenibile nel 1990, ma, come è stato sottolineato dal Bussoletti, «a maggior ragione non si può riconoscere agli estratti di saldaconti efficacia probatoria maggiore di quella spettante alle risultanze documentali della pubblica amministrazione (art. 635 c.p.c.), quando si consideri che la possibilità di considerare come una certificazione di pubblici ufficiali l’attestazione dei funzionari che sottoscrivono gli estratti di saldaconti va definitivamente abbandonata»([80]); cioè, l’efficacia probatoria del saldaconti non si differenziava da quella relativa ai documenti ex art. 635 c.p.c. (e 634 c.p.c.), per cui era limitata alla fase monitoria. Inoltre, benché tale sentenza avesse richiamato esplicitamente la sentenza n. 5729 del 1979, affermando di confermarne l’indirizzo, pare si attesti più sulla posizione “intermedia” che riconosceva all’estratto di saldaconti un valore indiziario nel giudizio di opposizione, infatti si parla solo di documento-prova; ma bisogna considerare che la Suprema Corte confermava una sentenza d’appello della Corte di Venezia che aveva ritenuto corretta la revoca di un decreto ingiuntivo emesso ai sensi dell’art. 102 l.b. in base alla opposizione dei debitori anche se le loro contestazioni erano «generiche, ma pur sempre tali da imporre all’attrice di assolvere l’onere probatorio secondo la previsione dell’art. 2697, comma 1, c.c.([81])».
Il Santarsiere, annotando favorevolmente la sentenza della Cassazione n. 8128 del 1990, riteneva che l’art. 102 l.b. non esprimesse alcun intento del legislatore di assegnare all’estratto di saldaconti, certificato conforme, la consistenza di prova a favore del proprio autore, in sede di cognizione([82]).
Era ovvio che, non riconoscendo alcun valore all’estratto di saldaconti nel procedimento di opposizione, alcuni autori andassero a collocare l’art. 102 l.b. tra i c.d. procedimenti puri, dove il documento-prova opera solo ai fini della pronuncia di ingiunzione e la sua efficacia si esaurisce con l’emanazione del decreto; di conseguenza, nel caso in cui il debitore ingiunto impugni il decreto, anche senza specifiche contestazioni, il convincimento del giudice dovrà necessariamente prescindere dal documento impugnato e torneranno a valere le regole proprie del procedimento ordinario con la distribuzione dell’onere della prova fra le parti. L’art. 102 l.b. era dunque una norma di carattere esclusivamente processuale, per cui all’estratto di saldaconti veniva conferita efficacia probatoria solo ai fini del procedimento ingiuntivo. Si sottolineava come i documenti-dichiarazioni di cui ai n. 2 e 3 dell’art. 633 c.p.c. e all’art. 102 l.b. si differenziavano dalle prove di cui al n. 1 dell’art 633 c.p.c.; in quanto, mentre i documenti-prova scritta conservano la loro efficacia probatoria pure nel successivo giudizio di opposizione, la dichiarazione-documento aveva un’efficacia provvisoria e limitata, poiché era un atto in grado di determinare l’ottenimento della pronuncia ingiunzionale e che nell’ambito di questo procedimento aveva natura di prova scritta, ma che perdeva tale natura ed efficacia al di fuori del procedimento per il quale era previsto([83]). Né si sarebbe potuta applicare in via analogica la disciplina dell’estratto conto (e della sua impugnazione), in quanto, come detto più volte, il saldaconti non era un vero estratto, ma in realtà era un mero atto dichiarativo([84]) che, previsto da una norma di carattere eccezionale, veniva ad esistere solo in una “fase critica” del rapporto (o dei rapporti) tra banca e cliente.
Accogliendo la tesi dell’utilizzo dell’estratto di saldaconti al solo procedimento monotorio, risultava “conveniente” all’ingiunto fare opposizione anche con contestazioni del tutto generiche, sottraendo ogni efficacia al decreto ingiuntivo, salva la sua eventuale esecutorietà provvisoria (che per questi rapporti poteva esserci solo in caso di pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, e la necessità di questa celerità di certo non era dimostrabile solo con lo “scarno” estratto di saldaconti).
E proprio dal fatto che una contestazione generica avrebbe determinato l’inutilizzabilità dell’estratto di saldaconti nella fase di opposizione, si mossero le critiche a questa posizione, affermando che, se l’art. 102 l.b. fosse stato interpretato in tal senso, sarebbe stata del tutto inutile la facoltà concessa alle banche da questa disposizione, e ciò non avrebbe consentito il raggiungimento degli obiettivi prefissi dalla norma([85]). Ma c’è comunque da considerare che il debitore, se diligente, avrebbe valutato l’opportunità di una opposizione, in quanto un’eventuale soccombenza avrebbe avuto il solo effetto di posticipare il pagamento e di determinare un accollo di ulteriori spese; inoltre, ai sensi dell’art. 648 c.p.c., «il giudice istruttore, se l’opposizione non è fondata su prova scritta o di pronta soluzione, può concedere, con ordinanza non impugnabile, l’esecuzione provvisoria del decreto, qualora non sia già stata concessa a norma dell’art. 642».
II.4 (segue) Gli estratti di saldaconti come prova nei giudizi di cognizione.
Del tutto differente dall’esposto orientamento è la tesi che attribuiva all’estratto di saldaconti efficacia di prova anche nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo ed in ogni altro giudizio di cognizione.
Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, la prima pronuncia nella quale si riconosceva all’estratto di saldaconti valore sufficiente a provare l’an ed il quantum del credito bancario nel giudizio di opposizione è la nota sentenza n. 1860 del 1968([86]), che è utile analizzare.
Nella motivazione di tale sentenza si affermava infatti che «l’art. 102 l.b. contempla esplicitamente il solo caso del decreto di ingiunzione, ma ciò non significa che l’efficacia probatoria dei detti saldaconti sia limitata alla fase di concessione del decreto ingiuntivo. Ove trattasi di saldaconti muniti della prescritta certificazione di conformità alle scritture contabili, essi spiegano la loro efficacia probatoria (salvo prova contraria) anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, così come in ogni altro processo di cognizione. Ed allorché trattasi di saldaconti già trasmessi al correntista e da questi non contestati nel termine stabilito, la loro efficacia probatoria è piena e completa, al pari di quella che gli art. 1832 e 1857 c.c. riconoscono agli estratti di conto corrente bancario non contestati tempestivamente e da intendersi perciò approvati». La Suprema Corte proseguiva riconoscendo che la Banca Commerciale Italiana (banca d’interesse nazionale), nel giudizio di merito, aveva provato pienamente il suo credito producendo le copie degli estratti conto trasmessi al debitore e mai contestati e che era onere del debitore dimostrare che il diritto di credito della banca si era ridotto o estinto.
Appare subito evidente come la Corte di Cassazione non abbia considerato che il saldaconti era redatto una tantum, aveva una propria autonomia ed un ambito di efficacia indipendente dalla vicenda di diritto sostanziale che lo precedeva, aveva finalità esclusivamente processuali, precisamente monitorie, e conteneva solo il saldo debitore; mentre l’estratto conto viene periodicamente inviato al cliente, se non contestato assume valore di prova che non ammette prova contraria, evidenzia i movimenti del conto nonché il saldo risultante dalle partite di rimesse e di prelievi, perciò, «confondere i due documenti ed estrapolare dall’uno all’altro le norme che li regolano non appare né corretto né possibile»([87]). Pertanto, non sembra condivisibile il ragionamento della Suprema Corte che ricollegava l’efficacia probatoria del saldaconti non ad un suo valore intrinseco, bensì al fatto che era stato trasmesso al correntista l’estratto conto senza che costui l’avesse contestato nei termini ex art. 1832 c.c.; «l’equivoco sta nell’aver considerato l’estratto di saldaconto non come documento avente un suo peculiare ambito di autonomia e di efficacia, ma come elemento di una fattispecie complessa, come documento terminale di una serie, preceduta dall’invio degli estratti conto e dalla mancata impugnazione degli stessi, e conclusasi nella redazione del saldaconto in base all’art. 102. L’efficacia di prova deriverebbe, quindi, al saldaconto dalla vicenda di diritto sostanziale che l’ha preceduto, e verrebbe ad avere un effetto aggiuntivo rispetto alla preclusione prevista dall’art. 1832 c.c.. Tale costruzione giuridica, indipendentemente da ogni considerazione sostanziale, non può essere assolutamente condivisa … Ma l’equivoco più evidente in cui è incorsa la Suprema Corte sta nell’avere equiparato, quanto al contenuto ed alle finalità, il saldaconto previsto dall’art. 102 l.b. con l’estratto periodico di conto corrente. Tali documenti, invero, hanno contenuto e finalità diverse»([88]). La sentenza in commento richiamava per l’estratto di saldaconto la normativa dell’art. 1842 c.c., deducendone l’efficacia di prova, ed attribuiva ad un documento processuale una normativa di diritto sostanziale che non gli apparteneva; e tale contraddizione si evince anche dal fatto che la Cassazione affermava che l’efficacia probatoria del saldaconto poteva essere vinta da adeguata prova contraria, ma ciò era in contrasto con la stessa norma di cui all’art. 1832 c.c., che, secondo questa pronuncia, costituiva il fondamento probatorio del saldaconti.
La Corte di Cassazione ha comunque più volte confermato tale orientamento; nella sentenza n. 6638 del 1971([89]), dove si subordina l’efficacia probatoria fino a prova contraria alla certificazione di conformità da parte del dirigente dell’istituto; nella sentenza n. 6656 del 1987([90]), dove si è affermato nuovamente che «l’estratto di saldaconto ha efficacia probatoria, fino a prova del contrario, non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo (come disposto espressamente negli artt. 102 delle ll. 7 marzo 1938, n 141 e 7 aprile 1938, n. 636), ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione» (e ciò anche nei confronti del coobbligato in base ad una fideiussione omnibus), ma anche qui poi si sono richiamati gli estratti conto inviati al correntista e non impugnati nei termini previsti, ricorrendo quindi nelle stesse censure già formulate per la sentenza n. 1860 del 1967 della stessa Corte. Inoltre, la Suprema Corte ha ribadito nel 1992 per due volte questo orientamento, la prima nella decisione n. 2765([91]) e la seconda nella sentenza n. 11948([92]) dello stesso anno; infine, l’ha riconfermato, nonostante la decisione n. 6707 del 1994 di cui si dirà, con la sentenza n. 1101 del 1995([93]).
Per giustificare l’efficacia probatoria dell’estratto di saldaconti in sede di opposizione si era anche affermato che dall’attestazione del dirigente di banca di conformità alle scritture contabili sarebbe derivato un valore probatorio che determinava una normale distribuzione fra le parti dell’onere della prova; e questa modifica sarebbe stata operante anche nel giudizio di opposizione all’ingiunzione, poiché non veniva meno in questa fase la sostanziale conformità del certificato alle scritturazioni della banca([94]). Ma tale assunto non considerava che la disciplina di cui all’art. 102 l.b., come agli artt. 634 ss. c.p.c., era applicabile solo al procedimento monitorio, superato il quale trova nuovamente applicazione la disciplina comune in tema di onere della prova e di efficacia dei mezzi di prova([95]). Inoltre, l’interpretazione “filobancaria” dell’art. 102 l.b. attribuiva all’estratto di saldaconto efficacia probatoria fino a prova contraria, ma era carente di ogni precisazione sul tipo di presunzione adoperata: presunzione semplice, juris tantum fino a prova contraria, mera inversione dell’onere della prova([96]).
Un’altra argomentazione dottrinale per sostenere il valore di prova all’estratto di saldaconti nei giudizi di cognizione era quella di collegare l’art. 1’art. 102 l.b. con l’art. 8 delle N.U.B. (norme bancarie uniformi) nella parte dove si dice che «i libri e le altre scritture contabili dell’azienda di credito fanno piena prova nei confronti del correntista»; poiché la volontà delle parti contraenti attribuisce ai documenti della banca valore di prova nei confronti del correntista (si tratta di prova semplice, non di prova legale), allora al saldaconto andava riconosciuta una valenza probatoria anche nei giudizi di cognizione. Si asseriva che «alla luce del collegamento della N.U.B. all’art. 102 l.b. il saldaconto deve necessariamente avere un valore anche nel procedimento di cognizione, se non di prova, almeno di importante indizio attestante la veridicità del credito azionata dalla banca, valido fino a prova contraria …, al documento deve attribuirsi valore di prova presuntiva e se confortato da altri indizi, i quali di volta in volta emergono dal singolo processo, produce la prova piena del credito della banca»([97]); ma tali argomentazioni paiono essere contraddittorie, giacché a questo documento o andava riconosciuto il valore di prova per cui era ammessa prova contraria (così stando alle N.U.B.), oppure di mero indizio. Comunque, tale tesi affermava che la legge bancaria consentiva l’ottenimento del decreto ingiuntivo attraverso il saldaconti, ma per espressa volontà delle parti si conferiva consensualmente ai documenti della banca (quindi, anche all’estratto di saldaconti) validità di piena prova nei confronti del correntista. Tuttavia, la Banca d’Italia, con provvedimento n. 12 del 3 dicembre 1994, ha disposto l’eliminazione di diverse disposizioni delle N.U.B. (da più parti criticate perché di dubbia legittimità), tra cui quella in questione, reputandole lesive della concorrenza.
II.5 (segue) Gli estratti di saldaconti come elemento indiziario.
La terza e più consolidata posizione giurisprudenziale era quella che attribuiva al saldaconti il valore di elemento indiziario nella fase di opposizione, non sufficiente di per sé a provare il credito della banca, ma coordinato con altri elementi probatori, come anche per le generiche contestazioni dell’ingiunto, poteva, nel libero convincimento del giudice, provare adeguatamente l’an ed il quantum del credito bancario. In realtà si trattava sempre dell’indirizzo restrittivo, ma avente una “sfaccettatura” differente rispetto alla posizione non “filobancaria” già detta, in quanto dava qualche “spiraglio” all’utilizzo dell’estratto di saldaconti dopo la fase monitoria. Comunque, tale indirizzo “convisse” con le altre due posizioni di cui si è detto, finché quest’ultimo orientamento ha trovato piena conferma, in sede di composizione del contrasto, da parte delle Sezioni Unite, con la sentenza n. 6707 del 18 luglio 1994([98]). E’ stato notato però che la Corte di Cassazione avrebbe dovuto intervenire prima su un conflitto delineatosi in modo chiaro e netto sin dai primi anni ottanta([99]); la soluzione delle Sezioni Unite è comunque giunta quando già il legislatore aveva provveduto a sopprimere il saldaconto sostituendovi la disciplina di cui all’art. 50 t.u.b., fermo restando che parecchi procedimenti instaurati con la precedente disciplina erano ancora in corso.
Comunque sia, è opportuno analizzare la sentenza appena citata in quanto spiegava esaurientemente le ragioni per le quali non era accoglibile la tesi che attribuiva all’estratto di saldaconti il valore di piena prova nei giudizi di cognizione, mostrando convincentemente le motivazioni che supportavano la tesi restrittiva.
La Suprema Corte, nella detta sentenza, dapprima notava come il saldaconto previsto dall’art. 102 l.b. era assolutamente diverso dall’estratto di conto corrente che l’art. 1832 c.c. assoggetta ad una sua particolare disciplina concernente l’impugnabilità ed il valore probatorio. La Cassazione annotava come il saldaconti era un documento appositamente formato dalla banca per il perseguimento delle finalità di cui all’art. 102 l.b. e nel quale veniva indicato soltanto il saldo debitore del conto, senza che vi fosse riportata l’evoluzione delle operazioni attive e passive che l’aveva determinato; inoltre, nella sentenza si riconosceva che il documento diffusosi nella prassi non era un estratto in senso tecnico, perché non era riferibile in modo specifico ad una determinata scrittura in esso parzialmente riprodotta, pertanto, il saldaconti si risolveva in un atto dichiarativo del credito della banca verso il cliente, la cui esistenza veniva affermata in base ad un’attività ricognitiva della partita contabile da cui derivava. Per tali ragioni, la Corte di Cassazione escludeva categoricamente che all’estratto di saldaconti potesse riferirsi in via analogica, nemmeno parzialmente, la disciplina propria dell’estratto di conto corrente.
L’iter logico della sentenza n. 6707 del 1994 procedeva considerando la disciplina codicistica del procedimento monitorio. L’estensione del valore probatorio dell’estratto di saldaconti ai giudizi di cognizione andava esclusa in quanto «l’inconsistenza di siffatta ipotesi esegetica – per altro sostanzialmente immotivata – risulta evidente appena si ponga mente alle peculiari caratteristiche del procedimento monitorio rispetto al giudizio di opposizione all’ingiunzione e, in genere, a cognizione piena, nel quale vigono le ordinarie regole sulla prova, sicché il ricorso all’interpretazione estensiva o analogica è del tutto priva di fondamento, per assoluta carenza dei presupposti che giustificano tali strumenti ermeneutici (lacuna della legge, identità della situazione non espressamente regolata, etc.)»; né, affermava la Corte, era fondata l’inclusione dell’estratto di saldaconti alle scritture di cui al secondo comma dell’art. 634 e dell’art. 645 c.p.c., in quanto l’unico elemento che accomunava il documento formato ai sensi dell’art. 102 l.b. a tali scritture era l’idoneità a costituire titolo per la concessione del decreto ingiuntivo; e questa comune efficacia processuale, circoscritta al procedimento monitorio, non toccava affatto il diverso profilo concernente l’efficacia probatoria sostanziale del documento, cioè la sua attitudine a dimostrare il credito anche fuori del procedimento monitorio. Inoltre, c’è da aggiungere che le speciali regole probatorie contenute nel codice di rito previste per gli imprenditori, lo Stato e gli enti pubblici esauriscono la loro efficacia probatoria nell’ambito del procedimento che si conclude con il decreto ingiuntivo; per cui, anche a voler far rientrare l’estratto di saldaconti nei detti documenti, ciò non portava ad estendere la sua efficacia probatoria fuori del procedimento monitorio.
Nel momento in cui l’ingiunto impugna il decreto ingiuntivo, introducendo così un giudizio di cognizione volto ad accertare non tanto la legittimità del decreto quanto la sussistenza del credito azionato, l’accertamento del diritto di credito torna ad essere disciplinato dalle comuni regole sull’ammissibilità ed efficacia dei singoli mezzi di prova, valevoli in un ordinario processo di cognizione. Dunque, il problema dell’efficacia probatoria dell’estratto di saldaconti nel giudizio di cognizione «deve essere risolto alla stregua delle disciplina generale della prova, di cui al tit. II del libro VI del codice civile, verificando se il saldaconto per le sue caratteristiche formali e per il suo contenuto possa annoverarsi tra i documenti formati dallo stesso creditore cui la legge eccezionalmente attribuisce efficacia probatoria in giudizio. Il principio generale che domina la disciplina è, infatti, nel senso che il documento redatto o la dichiarazione resa da uno dei contendenti può costituire prova contro di lui, non a suo vantaggio, tranne che non sia altrimenti disposto dalla legge (che in tal caso ha carattere eccezionale e non può essere estesa, quindi, oltre le fattispecie espressamente previste). Questo principio vale anche per la contabilità d’impresa». La Cassazione poi chiariva che l’estratto di saldaconti non poteva essere affatto equiparato agli estratti di cui all’art. 2710 c.c., in quanto, non si trattava di un estratto di libri contabili bollati e vidimati (per la precisione, non si trattava nemmeno di un estratto) e conteneva solo un dato riassuntivo (che poteva anche riguardare più conti), non consentendo di per sé quel riscontro che la controparte può avere attraverso le proprie scritture contabili (per tale motivo la disciplina di cui all’art. 2710 c.c. riguarda solo i rapporti fra imprenditori).
La Suprema Corte, riconoscendo che l’estratto di saldaconti, concretandosi nell’indicazione del saldo, non permetteva al debitore ingiunto alcun controllo in ordine alle poste considerate e ai conteggi compiuti, affermava che «si deve necessariamente ammettere che il debitore possa a sua volta limitarsi a negare il valore probatorio dell’atto attraverso una generica contestazione e pretendere l’esibizione di un’idonea documentazione aggiuntiva. Non si può imporre al debitore di provare che i conteggi effettuati dalla banca … sono errati o inattendibili, ponendo a suo carico, in pratica, l’onere di dimostrare come si perviene a quel saldo o ad un diverso saldo: ciò comporterebbe una radicale inversione dell’onere della prova, non consentita da alcuna disposizione».
Per le esposte ragioni, la Cassazione non riconosceva che l’art. 102 l.b. esonerasse le banche dalle ordinarie formalità richieste per l’ottenimento dell’ingiunzione di pagamento in base a documenti provenienti dallo stesso imprenditore istante; mentre «il saldaconto non ha tale efficacia probatoria, invece, nell’opposizione a decreto ingiuntivo e, in genere, negli ordinari giudizi a cognizione piena, nei quali può assumere rilievo solo come elemento indiziario, il cui significato probatorio è liberamente apprezzabile dal giudice, quindi soltanto nel contesto di altri elementi ugualmente significativi (e va da sé che l’ambito dell’onere probatorio a carico dell’istituto è correlato al contegno processuale della controparte, essendo definito dai limiti della contestazione)».
Infine, la Suprema Corte sosteneva che la problematica in questione fosse stata largamente superata a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.
Questa sentenza della Cassazione, nonostante il ritardo con cui si è posto fine al conflitto e l’avvenuto sorpasso da parte dell’ordinamento, ha trovato ampi consensi in quanto il conflitto è stato risolto alla stregua del principio generale della disciplina della prova di cui al titolo II del libro VI del codice civile secondo cui la dichiarazione resa dalla banca creditrice, o il documento contenente siffatta dichiarazione, è invocabile a suo danno e non in suo favore, salvo diversa previsione, non estensibile oltre i casi espressamente contemplati.
La sentenza di Cassazione n. 6607 del 1994 ribadiva, come già detto, un indirizzo risalente, ma che chiedeva conferma dopo le diverse posizioni che si erano formate sul punto. Ed è proprio in un’ottica di disciplina generale dell’onere probatorio che è stata data particolare importanza al contenuto delle contestazioni del debitore ingiunto. E’ stato detto che se l’opponente avesse negato il rapporto fondamentale (o i rapporti) da cui derivava il credito vantato dalla banca, allora sarebbe stato onere dell’ente creditizio dimostrare l’esistenza e la validità del rapporto con il cliente e, conseguentemente, l’ammontare del credito (non è compito dell’ingiunto, proprio per i principi sugli oneri probatori, dimostrare che non esiste un credito di altri; ma è onere di chi si afferma creditore provare il proprio diritto); mentre, se l’opponente non negava l’esistenza del rapporto, ma l’entità del credito, allora doveva fare delle precise e circostanziate contestazioni. Il riconoscimento del fatto costitutivo del diritto determina una presunzione semplice della veridicità della pretesa che da quel rapporto trae causa; infatti, si sosteneva che non è ipotizzabile in via generale che un rapporto di durata non abbia avuto conseguenze e, pertanto, per vincere la presunzione di veridicità della pretesa dell’intimante, è necessario contestare specificamente la pretesa o l’entità della stessa. Proprio per i rapporti sottostanti ai quali si riferiva il saldaconti (che permettevano al cliente un controllo sullo sviluppo del rapporto) poteva riconoscersi a questo documento un valore presuntivo anche nel giudizio di opposizione, dove l’ingiunto avrebbe dovuto diligentemente contestare il saldo in quanto capace di verificarlo([100]). Ma anche su questo punto la sentenza n. 6707 del 1994 ha assunto, come già riportato, una posizione più “favorevole” al cliente, poiché la Suprema Corte, notando anche che il cliente incontrava grosse difficoltà a dimostrare gli errori che avevano portato ad un saldo errato, giacché aveva di fronte a sé un documento che nulla diceva se non quale fosse l’ammontare dovuto, riconosceva in tale ipotesi una non permessa inversione dell’onere della prova (era la banca che doveva dimostrare l’esistenza e l’ammontare del proprio credito).
La successiva giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimità, vuoi per la sentenza n. 6707 del 1994 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, vuoi principalmente per la nuova disciplina introdotta col d.lgs. n. 385 del 1993, si è assestata negli anni successivi al 1994 sulla tesi restrittiva indicata nel giudizio di composizione dei conflitti giurisprudenziali, ed ha nelle sentenze di questo decennio posto a confronto la natura e le finalità dell’estratto di saldaconti e quelle dell’estratto conto, riconoscendo al primo documento il valore di mero indizio nei procedimenti di cognizione e, quindi, non sufficiente di per sé, a differenza dell’estratto conto, a provare il credito.
C’è da rilevare che l’estratto di saldaconti non si sarebbe più dovuto utilizzare per azionare la procedura monitoria con l’entrata in vigore della nuova disciplina([101]) (oltre ovviamente al suo utilizzo documentale nei processi ancora in corso a quella data), ma così non è stato, in quanto le banche, anche in tempi recenti, si sono servite del saldaconti come documento per richiedere ed ottenere il decreto ingiuntivo([102]), dando luogo da parte di alcuni giudici ad un facere del tutto ingiustificato (ed ingiusto) non supportato da alcuna norma; a ciò c’è da aggiungere che spesso tali decreti erano provvisoriamente esecutivi, dando la possibilità alle banche di iscrivere, ai sensi dell’art. 655 c.p.c., ipoteca giudiziale([103]). Comunque, stando alle pubblicazioni, non pare ci siano più casi di una ultrattività di fatto dell’art. 102 l.b..
II.6 L’applicazione dell’art. 50 t.u.b. nel giudizio monitorio: il ruolo dell’approvazione.
Si è gia detto che la nuova disciplina contenuta nell’art. 50 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si applica solo ai rapporti regolati in conto corrente e si è analizzato quale fosse l’ambito cui la norma si riferisce.
Nella pratica bancaria prende il nome di conto corrente, o conto di gestione, ogni conteggio che in un prospetto di dare e avere registra le risultanze di operazioni saltuarie o continuative, compiute dalla banca con i propri clienti; quando il regolamento in conto corrente accede a determinate operazioni bancarie (art 1852 c.c.)([104]), allo schema contabile del conto di gestione si aggiunge l’effetto di attribuire al correntista la facoltà di variare con atti ripetuti, mediante versamenti e prelevamenti successivi, l’importo del suo credito. Il legislatore del 1942 non prevede fra i contratti bancari il conto corrente e la sezione V del capo XVII (“dei contratti bancari”) del tit. III del libro IV del codice civile si intitola: “delle operazioni in conto corrente”; in tale sezione, oltre a specifiche norme previste per il conto corrente bancario, si rinvia ad alcune norme del conto corrente ordinario. Inoltre, particolare importanza assumono gli usi e le N.U.B. al fine di regolamentare questo rapporto.
In questo servizio di cassa le partite di dare e avere che si avvicendano nel conto si compensano gradualmente, determinando in ogni momento il saldo giornaliero, attivo o passivo che sia. Non si tratta però di una compensazione in senso tecnico, ma dell’effetto puramente contabile dell’esercizio del diritto che spetta al correntista di variare continuamente la disponibilità con prelievi e versamenti. L’operazione contabile non corrisponde infatti ad una costituzione di debito e di credito in senso giuridico, essendo semplicemente un modo di rappresentare le modificazioni quantitative che subisce un rapporto obbligatorio nel corso del suo svolgimento.
Nel caso di chiusura del conto, entro un mese da questa, il suo estratto viene inviato con lettera raccomandata al correntista (nella pratica diffuso è l’utilizzo della semplice lettera) per la sua approvazione. Nell’esecuzione del rapporto è inviato al cliente l’estratto conto alle scadenze previste a scelta del correntista (semestrale, trimestrale, mensile) o, in mancanza, con periodicità annuale. Il correntista ha un termine di sessanta giorni per contestare il conto; in assenza di contestazioni scritte in forma specifica ed in ordine alle singole voci, fatte entro tale periodo, il conto si intende approvato.
Nonostante l’intervenuta approvazione o il decorso inerte del termine relativo, il correntista e la banca possono impugnare il conto stesso per la correzione di vizi puramente formali, tassativamente indicati nel capoverso dell’art. 1832 c.c., cioè per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni. Tale impugnativa va proposta, a pena di decadenza, non oltre i sei mesi, rispettivamente, dalla ricezione dell’estratto conto, per il cliente, e dal suo invio, per la banca.
Ora, come già ricordato, nella famosa sentenza n. 6707 del 1994 della Suprema Corte si affermava che nell’attuale disciplina la problematica sul valore probatorio del saldaconti era superata, poiché documento idoneo all’ottenimento del decreto ingiuntivo è attualmente l’estratto conto, la cui efficacia di prova sostanziale è regolata dall’art. 1832 c.c., dando luogo ad una piena prova valevole nel procedimento di cognizione.
In realtà, nell’anno di entrata in vigore del “Testo Unico in materia bancaria e creditizia”, c’era già chi asseriva che «è facile prevedere che si riproporrà, con riguardo all’art 50 t.u.b., il problema, già ampiamente discusso dalla dottrina e dalla giurisprudenza in relazione all’art. 102 l.b., del valore da attribuire al documento di cui alla nuova norma nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo»([105]).
Come già per l’estratto di saldaconti, il legislatore ha attribuito all’estratto di conto corrente, corredato delle formalità prescritte dall’art. 50 t.u.b., il valore di “prova scritta” idonea ad ottenere ingiunzioni giudiziali di pagamento; in tal modo ha apportato una deroga al principio generale della disciplina delle prove, secondo cui la dichiarazione resa o il documento redatto da una delle parti in conflitto è invocabile a suo danno, ma non a suo favore. E, per quanto riguarda la disciplina generale del procedimento monitorio, come si è già detto, il legislatore ha derogato al principio della non invocabilità a proprio favore del documento redatto da una delle parti, ma ha sempre cercato di “legittimare” l’efficacia probatoria dei documenti in questione con l’intervento di soggetti esterni considerati altamente affidabili (notaio; associazione professionale). L’art. 50 t.u.b. (come già l’art. 102 l..b.), pertanto, è da considerarsi, anche sotto questo profilo, norma di diritto singolare non suscettibile di interpretazione estensiva. Non è possibile cioè estendere la previsione oltre i casi ed al di là dei limiti espressamente contemplati (arg. ex art. 14 disp. prel. c.c.), per cui l’efficacia probatoria del documento di cui all’art. 50 t.u.b. non può che essere limitata alla fase di accertamento sommario che precede l’emanazione del decreto ingiuntivo (e ciò è reso evidente proprio dal riferimento testuale che questa disposizione fa all’art. 633 c.p.c.). Mentre, per la successiva fase di opposizione, è risolutivo il dettato dell’art. 645, co. 2, c.p.c., secondo cui «il giudizio di opposizione si svolge secondo le norme del procedimento ordinario». Ciò non vuol dire che ci si trova di fronte ad un procedimento monitorio c.d. puro, ma significa soltanto che il documento di cui all’art. 50 t.u.b. potrà o meno determinare la convinzione del giudice dell’opposizione esclusivamente in ragione del valore probatorio che ad esso debba riconoscersi alla stregua dei principi ordinari([106]).
Dunque, a ben vedere, non vi è alcuna variazione strutturale dello “schema” previsto dalla “vecchia” legge bancaria per la procedura monitoria agevolata; infatti, la prova necessaria per la richiesta e l’ottenimento del decreto ingiuntivo è sempre un atto di parte redatto senza alcun intervento di terzi (anche se, a differenza del saldaconti, l’estratto conto viene utilizzato ordinariamente nel rapporto) e, nel giudizio di opposizione, il creditore deve sempre provare il proprio credito. Pertanto, come era stato previsto, la questione dell’efficacia probatoria del saldaconti in sede ordinaria si è riproposta con riferimento all’estratto conto.
Invero, l’approvazione del conto corrente, derivante dalla mancata contestazione dell’estratto nei termini e nelle modalità prescritte, è qualificata, secondo l’orientamento assolutamente prevalente sia dottrinale che giurisprudenziale, come fattispecie formata dal concorso di due dichiarazioni unilaterali di natura confessoria (ovviamente stragiudiziale)([107]), in forza delle quali entrambe le parti, l’una espressamente (mediante la redazione e la trasmissione dell’estratto conto), l’altra implicitamente ed anche tardivamente (con l’assenza di contestazioni nel termine stabilito), affermano la corrispondenza delle poste annotate alla realtà storica dei rapporti intervenuti([108]).
L’estratto conto, dunque, è un mero documento contabile che rappresenta l’esecuzione di un negozio giuridico da cui derivano il credito ed il debito della banca verso il cliente, e la mancata contestazione dell’estratto conto trasmesso al cliente rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo meramente contabile, ma non sotto i profili della validità ed efficacia dei rapporti obbligatori dai quali le partite inserite nel conto derivano. Quindi, l’approvazione, sia pure tacita, dell’estratto conto, ai sensi dell’art. 1832, co. 1, c.c., se da un lato non pregiudica l’impugnazione in ordine alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori da cui derivano gli accrediti e gli addebiti (e, quindi, i titoli contrattuali che sono alla base e che rimangono regolati dalle norme generali sui contratti), dall’altro preclude qualunque altra contestazione e, in particolare, quelle concernenti la conformità delle singole, concrete operazioni sottostanti ai predetti rapporti, vale a dire, la loro legittimità sostanziale([109]) (salvo soltanto, per effetto del secondo comma dell’art. 1832 c.c., l’impugnabilità per errori, omissioni o duplicazioni di carattere meramente formale). Ciò significa che l’approvazione copre soltanto le annotazioni sul conto nella loro realtà effettuale, ma non la validità del titolo giuridico in base al quale le annotazioni medesime sono state effettuate([110]). Perciò la «non contestabilità dell’estratto conto può concernere solo il fatto che la banca abbia seguito quei certi addebiti e accrediti, mentre rimane impregiudicata la questione se la banca avesse o meno il diritto di procedere alle operazioni annotate in base al rapporto di conto corrente»([111]). Se così non fosse, sarebbe paradossale avere, da un lato, un termine di sei mesi per contestare eventuali errori materiali o di calcolo, e, dall’altro, un termine preclusivo di sessanta giorni per proporre eventuali azioni od eccezioni attinenti alla validità sostanziale degli addebiti ovvero degli accrediti([112]).
Né pare che l’estratto conto, che è uno stralcio della contabilità dell’impresa bancaria, possa rientrare nell’ipotesi di cui all’art. 2710 c.c.; sia per il suo aspetto contenutistico, sia soprattutto perché le certificazioni del dirigente di banca di cui all’art. 50 t.u.b. costituiscono semplicemente un esonero dalle formalità che sarebbero necessarie per utilizzare la contabilità d’impresa ai fini dell’ingiunzione, quali il ricorso ad un notaio od altro pubblico ufficiale, per la certificazione dell’estratto ai sensi dell’art. 634 c.p.c.([113]).
II.7 (segue) L’efficacia probatoria dell’estratto conto bancario.
Essendo dunque l’estratto conto un documento probante la veridicità dei fatti annotati e non la validità o l’efficacia dei fatti giuridici dai quali si originano le singole partite annotate in conto, sia a debito che a credito, esso non ha, come anche il saldaconti, l’efficacia probatoria di piena prova del credito vantato dalla banca nel giudizio di cognizione; questa soluzione restrittiva, a detta di una parte della dottrina, è coerente con i principi che regolano la materia delle prove; in quanto l’art. 50 t.u.b., al pari dell’art. 102 l.b., risponde solo alle esigenze di rapidità e certezza, proprie degli istituti di credito, in ordine all’ottenimento dell’ingiunzione di pagamento. La norma prevede pertanto un’ipotesi eccezionale e, quindi, di stretta interpretazione, anche rispetto al dettato degli artt. 634 e 635 c.p.c., norme che, come noto, dispongono in materia di prova scritta nell’ambito del procedimento di ingiunzione. «Non si vede, pertanto, per quale ragione la previsione dell’art. 50 t.u.b. non dovrebbe avere esclusivo riguardo al procedimento monitorio, ma addirittura valore rispetto al giudizio ordinario. E’ dunque corretto concludere che l’efficacia probatoria dell’estratto conto bancario deve ritenersi limitata al procedimento sommario. In sede ordinaria, pertanto, l’estratto conto bancario, al pari del certificato di saldaconto, assumerà rilievo quale elemento indiziario e, come tale, sarà liberamente apprezzabile dal giudice solo nel contesto di altri elementi ugualmente significativi»([114]).
Rispetto alla disciplina precedente, la norma in commento porta comunque dei benefici alle banche anche accogliendo la tesi restrittiva esposta, poiché, dopo la scadenza dei termini per l’approvazione, esse si troverebbero a chiedere l’emanazione del decreto ingiuntivo, potendo più agevolmente contrastare eventuali opposizioni al provvedimento; inoltre, dato il regime di approvazione dell’estratto conto nei limiti indicati, il cliente sarebbe indotto, una volta trascorsi i termini per le eventuali contestazioni dell’estratto conto, ad accedere alle richieste della banca inerenti al pagamento del saldo in esso riportato([115]). Però, tale disciplina consente anche che il debitore ingiunto possa verificare più agevolmente le richieste della banca, valutando più scientemente se fare o no opposizione. Inoltre, anche il giudice potrà effettuare quanto meno un controllo sulla correttezza contabile del documento col quale la banca chiede il decreto ingiuntivo.
L’indirizzo restrittivo appena evidenziato, comunque, è stato fatto proprio da una parte minoritaria della dottrina, mentre dottrina e giurisprudenza dominanti sostengono, come già avevano fatto le Sezioni Unite nella sentenza n. 6707 del 1994, l’efficacia di prova sostanziale dell’estratto conto che gli deriva dall’art. 1832 c.c.. Infatti, spesso la Suprema Corte, differenziando il saldaconti dall’estratto di conto corrente, ha avuto modo di ribadire questa posizione affermando che «in tema di prova del credito fornita da un istituto bancario, va distinto l’estratto di saldaconto … dall’ordinario estratto conto, che è funzionale a certificare le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo, con le condizioni attive e passive praticate dalla banca. Mentre il saldaconto riveste efficacia probatoria nel solo procedimento per decreto ingiuntivo eventualmente instaurato dall’istituto, l’estratto conto, trascorso il periodo di tempo dalla sua comunicazione al correntista, assume carattere di incontestabilità ed è, conseguentemente, idoneo a fungere da prova anche nel successivo giudizio contenzioso instaurato dal cliente»([116]). La Corte di Cassazione ha recentemente riconfermato questo indirizzo nella sentenza n. 5316 del 16 marzo 2004([117]).
A supporto di questa posizione si afferma che il valore probatorio dell’estratto conto si connette alla natura confessoria della sua approvazione ed è indipendente dalla (retrostante) contabilità([118]), cioè, «il profilo contabile, ossia il basarsi le rispettive dichiarazioni su un estratto della contabilità della banca, resta un rilievo di mero fatto che non legittima il ricorso, per il conto corrente bancario, ad una diversa spiegazione della sua efficacia probatoria: le risultanze contabili non sono altro che una narrativa documentale dalla quale la banca e cliente attingono, per rendere, espressamente o tacitamente, la loro dichiarazione di veridicità dei rapporti che risultano dalle apposizioni del conto»([119]). Accogliendo tale rilievo, non pare vi siano più dubbi sull’efficacia dell’estratto conto a provare l’an ed il quantum del credito bancario nei giudizi di cognizione, ferma restando ovviamente la possibilità di eccepire l’invalidità del rapporto (per negozio nullo, annullabile, inefficace o, comunque, fondato su situazione illiceità) oppure delle singole operazioni([120]); eccezioni che ovviamente vanno provate ai sensi del secondo comma dell’art. 2697 c.c.. Inoltre, la detta natura confessoria comporta che non è possibile scindere il contenuto dell’estratto conto([121]).
Infine, è stato rilevato come l’approvazione dell’estratto conto determini, nel caso si instaurino dei giudizi tra banca e cliente, un’inversione dell’onere della prova a carico del cliente, il quale dovrà provare che una o più poste attive o passive, incluse nel conto dalla banca, non sono sorrette da una adeguata e corretta causa giustificativa([122]). Ed è in questo senso che va intesa la decisione del Tribunale di Catania dove si afferma che la trasmissione dell’estratto conto «non ha la funzione probatoria processuale del saldaconto in ordine al credito della banca, ma esplica la diversa e più rilevante funzione sostanziale di rendere in breve tempo definitivi e non più contestabili tra le parti i rapporti espressamente specificati nell’estratto ove esso non sia impugnato nei termini previsti»([123]).
La tesi appena indicata appare in armonia con l’art. 167 c.p.c., che impone al convenuto, nella comparsa di risposta, di prendere posizione sui fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, e che, nei rapporti in questione, risultano dall’estratto conto([124]); fermo restando che con l’approvazione dell’estratto conto si verifica un’inversione dell’onere della prova.
Dunque, gli estratti conto approvati costituiscono piena prova del credito della banca se approvati, ma solo se nel giudizio di cognizione «il cliente si limiti ad una generica affermazione di nulla dovere, o di dovere una generica somma inferiore, senza muovere addebiti specifici e circostanziati sulle singole poste dalle quali discende quel saldo»([125]); nel caso però il correntista (ed il suo fideiussore) muova delle eccezioni precise e circostanziate e, soprattutto, ne dia prova, allora la domanda della banca dovrà essere rigettata nella sua interezza o meno.
Per quanto riguarda il periodo al quale si deve riferire il saldo né la legge, né la relazione lo dicono; tuttavia, che questo debba coincidere con tutta la durata del rapporto è da escludersi. Durante la vita del rapporto, che può risalire anche molto addietro nel tempo, il cliente avrà ricevuto, a norma di legge e di contratto, gli estratti conto periodici, i quali, in mancanza di contestazioni, saranno risultati via via approvati. Per puntualizzare la posizione della banca nel momento in cui accede alla procedura monitoria ed al cliente ingiunto per controllare questa posizione, quello che serve è un estratto conto che copra il periodo compreso fra l’ultima chiusura contabile, in relazione alla quale il cliente ha ricevuto un estratto conto, e il momento in cui viene chiesto dalla banca il decreto ingiuntivo. L’approvazione, espressa o tacita, infatti, costituisce un punto fermo dal quale, in un’interpretazione sistematica della norma, occorre muovere per determinare il contenuto dell’estratto richiesto dall’art. 50 t.u.b. (e nel caso in cui la banca non possa provare gli invii degli estratti conto, allora dovrà allegare tutti gli estratti relativi al rapporto con il cliente sin dal suo sorgere ed anche il contratto di apertura del credito; contratto che è redatto, a pena di nullità – ex art. 117 t.u.b. –, in forma scritta)([126]). Naturalmente, nel caso di contestazione nel successivo giudizio di opposizione, la banca sarà tenuta a provare l’invio dell’ultimo estratto conto([127]), espressamente o tacitamente approvato, che costituisce il dies a quo per la redazione dell’estratto necessario ai fini del decreto ingiuntivo([128]).
Ma tale indirizzo non è del tutto pacifico, infatti si è affermato che, chiedendo l’art. 119 t.u.b., tra i caratteri essenziali dell’estratto conto, la sua completezza, «deve dedursene che le banche hanno la possibilità di avvalersi della disciplina di cui all’art. 50 d. lgs. 385/93 solo producendo tutti gli estratti conto certificati, da cui risultino tutte le poste che hanno concorso alla formazione del credito esposto»([129]) (ma ciò non pare condivisibile, sia perché si vanificherebbe la disciplina dell’approvazione dell’estratto conto, sia perché la lettera dell’art. 50 t.u.b. parla di “estratto conto”, non di estratti conto; tutt’al più, accogliendo la tesi restrittiva su esposta, questa interpretazione potrebbe essere limitata alla fase di cognizione, dove va provato il proprio credito). Comunque, la giurisprudenza ha spesso ritenuto che le banche, non nella fase monitoria, ma nel relativo giudizio di opposizione, devono produrre tutti gli estratti conto inerenti al rapporto. E non sono mancati casi in cui le banche hanno creduto, erroneamente, di poter fare solo riferimento agli estratti conto inviati e approvati senza però produrli in giudizio; infatti, la Suprema Corte ha affermato che «non può ritenersi raggiunta da parte della banca la prova delle proprie spettanze con il mero riferimento, negli atti di causa, all’invio degli estratti conto al cliente e sulla base della circostanza della non contestazione da parte di quest’ultimo»([130]). Ma, come già detto, potrebbe essere sufficiente provare l’invio degli estratti conto; infatti, il Tribunale di Napoli in una sentenza emessa il 24 aprile del 1997, ha stabilito che «ai fini dell’applicabilità dell’art. 1832 c.c., in tema di approvazione tacita delle risultanze degli estratti conto, è necessario fornire la prova della trasmissione degli stessi, dovendosi ritenere, in caso contrario, che al correntista sia stato precluso il diritto di contestare il contenuto»([131]).
Inoltre, la giurisprudenza ha ritenuto che ipotesi equivalente all’invio dell’estratto conto è quella della produzione in giudizio di questo documento; infatti la Cassazione più volte ha precisato che è irrilevante che le risultanze dell’estratto di conto corrente «non siano già state stragiudizialmente rese note al correntista, atteso che la produzione in giudizio costituisce “trasmissione” ai sensi dell’art. 1832 c.c., onerando il correntista alle necessarie specifiche contestazioni al fine di superare l’efficacia probatoria della produzione»([132]). In tal modo l’onere di contestazione previsto nell’ordinario rapporto si trasferisce nel processo, per cui graverà sul debitore-opponente un vero e proprio onere di carattere processuale che dovrà essere assolto nelle forme, nei limiti e nei tempi previsti dalle regole processuali. Pertanto, vi sarà una deroga alla disciplina dell’estratto conto; infatti, a seguito della notifica del decreto ingiuntivo emesso sulla base di un estratto conto, l’ingiunto dovrà proporre opposizione entro quaranta giorni impugnando l’estratto conto mediante contestazioni specifiche accompagnate dall’indicazione dei mezzi di prova diretti a supportarle sul piano probatorio. Le parti poi fino alla prima udienza di trattazione possono precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate. Come si vede, al termine di sessanta giorni previsto dall’art. 119 t.u.b., si sostituisce quello più breve di quaranta giorni dell’art 641 c.p.c. (termine che, per giusti motivi, può essere ridotto fino a dieci o aumentato fino a sessanta giorni; ulteriori termini sono previsti nel caso l’ingiunto risieda in uno Stato dell’Unione europea oppure in uno Stato che non faccia parte dell’UE). A ciò si aggiunga la possibilità che il decreto sia provvisoriamente esecutivo.
Un altro aspetto è quello se il documento prodotto debba essere originale; al riguardo la Cassazione ha avuto modo di precisare che l’estratto conto può essere prodotto in giudizio anche in fotocopia, purché sia munito della dichiarazione in originale della certezza e liquidità del credito prevista dall’art. 50 t.u.b.([133]), oppure addirittura prodotto in copia su microfilm([134]). Inoltre, la giurisprudenza ritiene che, nel giudizio di cognizione, possano essere prodotti, in sostituzione degli estratti conto, dei documenti diversi, come la scheda del conto, purché equipollenti all’estratto conto, ossia riproducenti tutti gli elementi e con le stesse caratteristiche di intelligibilità e chiarezza dell’estratto conto([135]).
Infine, «al contrario di quanto si legge nella relazione, il saldo risultante, nel caso di estratto conto di cui all’art. 50, non è destinato a costituire la prima posta successiva del conto, perché quanto meno nella generalità dei casi, il rapporto di conto corrente, con l’inizio della fase contenziosa, sarà venuto a cessare»([136]).
II.8 La posizione del fideiussore.
Col contratto di fideiussione si costituisce, a favore del creditore, la garanzia personale di un terzo. Il fideiussore, dice l’art. 1936 c.c., «è colui che, obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l’adempimento di un’obbligazione altrui». Tale garanzia è personale, ha carattere accessorio (la garanzia in tanto sussiste in quanto esista l’obbligazione principale) e riguarda, ai sensi dell’art. 2740 c.c., tutto il patrimonio del fideiussore. Il rapporto di fideiussione si stringe tra creditore e fideiussore (non è essenziale l’intesa tra debitore e fideiussore, anche se nella pratica è quasi sempre presente); inoltre, il fideiussore deve espressamente manifestare la volontà di costituire la garanzia fideiussoria. Il fideiussore è obbligato in solido col debitore e, nel caso in cui assolva il debito (nei limiti dell’ammontare massimo dell’obbligazione principale), è surrogato nei diritti che il creditore aveva verso il debitore.
E’ sempre stata diffusa nella prassi bancaria la fideiussione omnibus che aveva sollevato moltissime liti giudiziarie; con tale espressione si indica la fideiussione rilasciata da terzi ad aziende di credito a garanzia di esposizioni debitorie di un cliente verso la banca, ma senza la fissazione di un importo predeterminato che fungesse da tetto alla garanzia assunta, bensì rinviando alla sommatoria dei debiti, presenti e futuri, del garantito, anche se tali debiti non erano ancora specificati al momento in cui sorgeva la garanzia. Una parte della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto invalida una fideiussione così congegnata, asserendo che il contratto sarebbe stato invalido per indeterminatezza dell’oggetto. La Cassazione([137]), peraltro, aveva respinto tale tesi dell’invalidità della fideiussione omnibus, osservando che il suo oggetto risultava sufficientemente determinato, sia pure per relationem, in quanto il fideiussore, all’atto dell’assunzione della garanzia, si riferiva a rapporti determinati, e cioè agli affidamenti bancari che l’azienda di credito, nello svolgimento del rapporto (o dei rapporti), poteva concedere a favore del cliente, il cui debito era garantito dal fideiussore. Comunque, con l’art. 10 della legge 17 febbraio 1992, n. 154 (“Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari”)([138]), il legislatore ha sostituito il testo dell’art. 1938 c.c., affermando che la fideiussione può essere prestata anche per un’obbligazione condizionale o futura, ma aggiungendo che, in tal caso, occorre l’esplicita previsione dell’importo massimo garantito (la norma però non specifica se l’importo massimo garantito vada riferito al solo capitale, prescindendo dagli interessi, oppure a tutta l’obbligazione). Ma tale disciplina si applica alle fideiussioni omnibus che si sono avute a seguito dell’entrata in vigore della suddetta modifica; mentre, lo ius superveniens «non può travolgere, in difetto di previsione di retroattività, diritti già sorti nel vigore della normativa previdente»([139]).
La giurisprudenza ha costantemente ritenuto che l’efficacia probatoria del saldaconto, per quanto riguarda il periodo precedente al 1994 e per i procedimenti in corso in quella data, riguardava anche il fideiussore. Stessa posizione si ha rispetto all’estratto conto, che fa prova nei confronti del fideiussore nella stessa misura in cui la fa verso il debitore.
Tale posizione è stata ribadita recentemente dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 18650 del 2003([140]), dove si riporta, nella motivazione, uno stralcio di una precedente sentenza della stessa Corte (la sentenza n. 1101 del 1995)([141]) nel quale si dice che «nei rapporti di conto corrente bancario l’estratto di saldo conto ha efficacia probatoria fino a prova contraria anche nei confronti del fideiussore del correntista non soltanto per la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche nel giudizio di opposizione allo stesso e in ogni altro procedimento di cognizione, perché ove il debitore principale sia decaduto a norma dell’art. 1832 c.c. dal diritto di impugnare gli estratti di saldo conto, il fideiussore chiamato in giudizio dalla banca medesima per il pagamento della somma dovuta non può sollevare contestazioni in ordine alla definitività di quegli estratti» (qui, l’espressione “saldo conto” sta ovviamente per “estratto conto”). Pertanto, «nel rapporto di conto corrente, gli estratti conto non contestati dal correntista costituiscono piena prova del credito della banca anche nei confronti del fideiussore, ove questi non li assoggetti ad alcuna specifica contestazione»([142]).
Dunque, il fideiussore potrà sollevare solo le stesse eccezioni del correntista (cosa alquanto difficile, non essendo lui a ricevere gli estratti, né a fare le operazioni di cui al rapporto in conto corrente) se non c’è stata ancora l’approvazione ai sensi dell’art. 1832 c.c., oppure eccepire (dandone ovviamente adeguata prova) l’invalidità delle operazioni o, addirittura, del rapporto. Inoltre, il fideiussore potrà far valere, nel giudizio di opposizione, oltre alle eccezioni che si riferiscono al rapporto garantito, tutte le eccezioni riguardanti l’obbligazione di garanzia([143]).
Questa impostazione della giurisprudenza è stato oggetto di critiche, infatti si è affermato che «tale orientamento, che prescinde dall’esegesi dell’art. 1945 c.c. e dalla natura di obbligazione solidale propria della fideiussione, risulta sostanzialmente immotivato; appaiono incomprensibili i motivi per i quali, a partire dalla sentenza della Suprema Corte del 1975, n. 1107, la giurisprudenza si sia discostata dall’indirizzo, più corretto, seguito in precedenza»([144]); che era quello, indicato per la prima volta nella sentenza n. 694 del 1966 della stessa Cassazione([145]), e ribadito nella sentenza n. 1861 del 1967([146]), dove si affermava che il fideiussore «in relazione al suo autonomo diritto di difesa stabilito dall’art. 1945 c.c., può opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salva quella derivante dall’incapacità, e perciò anche quelle che quest’ultimo non può più proporre, non potendo il comportamento omissivo di costui pregiudicare il diritto di difesa del fideiussore».
In merito poi alla fase monitoria, si è affermato che la sostanziale indeterminatezza del dato normativo (che non specifica nei confronti di quali soggetti possa essere richiesto il decreto ingiuntivo) sembra avvallare l’ipotesi che la banca, per ottenere il decreto ingiuntivo, debba esibire un estratto conto autocertificato relativo a tutto il periodo di durata della garanzia([147]).
Capitolo III
Gli estratti di saldaconti e di conto corrente bancari e l’ammissione al passivo fallimentare.
III.1 L’estratto di saldaconti come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri favorevoli.
L’art. 78 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, dispone che «i contratti regolati in conto corrente … si sciolgono per il fallimento di una delle parti». Nonostante l’espressione “conto corrente” sia da intendere riferita al conto corrente ordinario e benché manchi qualsiasi menzione esplicita dei contratti bancari, è opinione comune che la disposizione debba essere estesa sia al conto corrente bancario, sia, in genere, ai contratti in conto corrente. E’ chiaro che lo scioglimento del rapporto fra banca e correntista determina l’immediata chiusura del conto, con la “cristallizzazione”, alla data della dichiarazione di fallimento, della situazione, debitoria o creditoria delle parti.
Ora, in merito al fallimento di un cliente di una banca, discussa è stata la possibilità se l’estratto di saldaconti potesse essere documento probatorio idoneo a permettere alla banca asserita creditrice l’ammissione al passivo fallimentare ed a dimostrare il credito nell’eventuale giudizio di opposizione (ovviamente, la questione non si poneva – e non si pone nemmeno oggi – se alla data della dichiarazione del fallimento il decreto ingiuntivo era divenuto definitivamente esecutivo).
Alcuni autori ritenevano che l’estratto di saldaconti, pur non essendo da solo sufficiente a fondare una domanda nell’ordinario giudizio di cognizione (salvo accogliere la tesi “filobancaria” di cui si è già detto), costituiva un idoneo “documento giustificativo” ex art. 93 l.f. per l’ammissione del credito della banca al passivo del cliente assoggettato alla procedura concorsuale, in considerazione dei poteri inquisitori di cui è provvisto il giudice delegato al fallimento e del fatto che il procedimento di verifica dei crediti è di tipo sommario ed in passato, per questo motivo, è stato accostato al procedimento monitorio.
Il Cabras considerava come all’estratto di saldaconti si potesse ricorrere anche fuori del caso di cui all’art. 102 l.b., cioè questo documento poteva essere utilizzato nella procedura fallimentare (non poteva più essere chiesta in questo momento la procedura monitoria, essendo stato dichiarato il fallimento del debitore), pertanto, «il valore giuridico di siffatti documenti non deve essere determinato in modo astratto con riferimento a qualunque giudizio, ma con specifico riferimento al procedimento di verifica dei crediti, che presenta indubbiamente aspetti e problemi peculiari»([148]). Essendo il procedimento di verifica dei crediti dominato dal principio inquisitorio, con conseguente attribuzione al giudice delegato di ampi poteri riguardo alla cognizione e alla istruzione probatoria, tale sistema comporterebbe, secondo una parte della dottrina, che la fase di verifica dei crediti non sia soggetta al regime probatorio degli artt. 2697 e ss. c.c. e 115 e ss. c.p.c.. In tal senso deporrebbe anche la lettera dell’art. 93 l.f. che non richiede siano prodotte prove del credito, ma solo i “documenti giustificativi”([149]).; inoltre, a sostegno di ciò c’è anche una maggiore libertà di apprezzamento del giudice delegato. Pertanto, non ci sarebbero stati motivi per escludere le banche dal passivo fallimentare se il “documento giustificativo” di cui all’art. 93 l.f. fosse stato l’estratto di saldaconti([150]). L’ammissione avveniva, ovviamente, quando si formava il convincimento del giudice delegato sull’esistenza del credito; ed a favore dell’ammissibilità giocavano diversi fattori, quali la particolare dichiarazione e attestazione contenuta nel documento, l’eventuale ampiezza dei dati riportati e la possibilità di verificare l’esattezza nelle scritture contabili della banca o di contestare le poste del conto del fallito.
Inoltre, si è anche affermato che per escludere il credito della banca, giustificato con un estratto di saldaconti, non bastava la mancanza delle indicazioni analitiche di tutte le poste contabili, poiché «l’istituto di credito ha la facoltà, se non pure l’obbligo, di operare la compensazione tra tutti i conti e i rapporti intrattenuti col cliente poi fallito e ciò è denunciato dallo stesso documento presentato per l’ammissione al passivo, il quale implicitamente rinvia ai principi che regolano i contratti bancari»([151]).
Ma i sostenitori di tale tesi precisavano poi che se rientrava nei poteri del giudice delegato riconoscere l’estratto dei saldaconti come un sufficiente documento giustificativo del credito, non era un diritto del creditore ottenerne l’ammissione, senza fornire formali mezzi di prova. Pertanto, se il giudice delegato non avesse ammesso al passivo fallimentare il credito della banca il cui documento giustificativo era il saldaconti, la banca avrebbe potuto ovviamente fare opposizione al decreto che rendeva esecutivo lo stato passivo, instaurando così un normale giudizio, in contraddittorio col curatore; ma tale giudizio era (ed è) sottoposto ai principi generali sulle prove, pertanto, la banca in tal caso doveva fornire piena prova del proprio credito. Si riteneva cioè che, data la libertà di apprezzamento dei documenti giustificativi del credito riconosciuta al giudice fallimentare, libertà maggiore e diversa da quella che ha il giudice ordinario sia in sede contenziosa che in sede ingiunzionale, egli poteva considerare il saldaconti un documento che consentisse l’ammissione alla procedura fallimentare (dunque, non era il saldaconti in sé a valere come “documento giustificativo” del credito, ma la libera valutazione del giudice che di tale documento ne faceva).
III.2 (segue) L’estratto di saldaconti come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri contrari.
La sottrazione del procedimento dei crediti al principio dispositivo proprio del giudizio civile, però, significa soltanto che il giudice delegato può tener conto, ai fini della delibazione della domanda di credito, anche di eccezioni da lui stesso autonomamente sollevate così come di elementi probatori non allegati o invocati dall’istante, non certo che il provvedimento di ammissione o di reiezione sia puramente discrezionale, svincolato da ogni regola probatoria e, quindi, da un valore intrinseco della documentazione prodotta a corredo della domanda. E tale valore probatorio deve essere assunto in relazione all’oggetto dell’accertamento giudiziale, che è rappresentato dal titolo invocato dal creditore, cioè da un fatto giuridico idoneo a far sorgere, nei confronti del fallito, la pretesa vantata; il titolo del credito non può essere certo il saldo passivo (come solitamente si limitava ad indicare l’estratto di saldaconti), ma tutta quella serie di atti o fatti giuridici, le cui poste del conto costituiscono la rappresentazione contabile ed il cui risultato differenziale qualifica la rispettiva posizione debitoria e creditoria. Rispetto a questi fatti, «l’estratto di saldaconto è assolutamente muto, onde lo stesso non può mai costituire, qualunque sia la libertà di apprezzamento delle prove che si voglia riconoscere al giudice delegato, un “documento giustificativo del credito”, per il semplice motivo che dallo stesso non emerge il fatto costitutivo della pretesa nella sua indispensabile qualificazione causale»([152]).
Dunque, i documenti che vanno indicati ai sensi dell’art. 93 l.f. devono permettere una valutazione da parte del giudice ed una possibilità al curatore di muovere delle contestazioni (anche non trattandosi di prove, comunque bisogna che siano documenti che giustifichino l’ammissione al passivo, pertanto il saldaconti non era un documento idoneo a tal fine, poiché consisteva in un documento di parte, redatto con alcune formalità previste per tutt’altro procedimento, che non consentiva di “comprendere” il perché ed il come si era giunti ad un determinato credito per il quale si chiedeva il soddisfacimento sull’attivo fallimentare). Infatti, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 5729 del 1979([153]), ha ritenuto che, avendo avuto come unico documento giustificativo del credito un estratto di saldaconti, «il curatore non aveva alcuna possibilità di muovere contestazioni analitiche, e non poteva – per opporsi all’ammissione del credito – se non contestare globalmente la pretesa della banca; ed il giudice, analogamente, non poteva esprimere alcun apprezzamento in ordine alla sufficienza ed all’attendibilità della prova offerta, essa in definitiva risolvendosi in una mera allegazione su cui non era possibile istituire concretamente un dibattito ed una verifica».
Il Tribunale di Perugia([154]), premettendo che la procedura fallimentare è sostanzialmente differente dal procedimento monitorio, sosteneva inoltre che l’estratto di saldaconti era un documento redatto dalla parte ricorrente e valeva come prova per l’ottenimento del decreto ingiuntivo, ma nel procedimento ingiuntivo il debitore può fare opposizione, instaurando così un ordinario procedimento di cognizione che si svolgeva tra banca e debitore, mentre, «non è altrettanto da dirsi nel procedimento di verifica dei crediti, ove il debitore, e per esso il curatore, non è legittimato a proporre opposizione per contrastare la prova offerta a sostegno del credito». Mentre la procedura monitoria, quindi, ha un suo naturale contraddittore nel debitore ingiunto, il quale aveva la possibilità di contestare la veridicità che l’art. 102 l.b. attribuiva all’estratto, al contrario «nel caso della procedura di verificazione del passivo né il fallito né il curatore assumono la posizione di “contraddittore” rispetto all’accertamento effettuato dal giudice delegato, atteso che la possibilità di contestarne la legittimità è riservata, con l’opposizione, solo agli altri creditori che sono terzi rispetto ai rapporti sostanziali di dare e avere di cui la cifra finale del saldaconto esprime la somma algebrica»([155]).
Altro argomento utilizzato per escludere l’efficacia dell’estratto di saldaconti come documento di per sé idoneo all’ammissione del passivo fallimentare consisteva nel sottolineare il suo carattere autonomo rispetto al rapporto di conto corrente e, soprattutto, il suo carattere processuale, limitato per giunta espressamente alla fase monitoria([156]) (salvo poi accogliere una tesi estensiva riguardo i giudizi di cognizione, ma ciò non riguarda l’insinuazione al passivo).
III.3 (segue) L’estratto di saldaconti come estratto di libri bollati e vidimati.
Si è anche affermato che nel fallimento, essendovi soggetti esclusivamente gli imprenditori commerciali e possedendo tale qualifica anche la banca creditrice, l’estratto di saldaconti poteva acquistare maggior forza in virtù dell’art. 2710 c.c.. Infatti, come già detto, il Nigro, sosteneva che la dichiarazione di verità e liquidità del credito, contemplata dall’art. 102 l.b., sostituiva l’attestazione e constatazione della regolare tenuta dei libri e registri contabili, in quanto le formalità estrinseche ed intrinseche imposte dagli artt. 2215 e ss. c.c. non sono fini a se stesse, non hanno un valore autonomo, bensì costituiscono il meccanismo attraverso il quale il legislatore vuole assicurare, indirettamente, la sincerità e la veridicità delle registrazioni, ed assicurandone in questo modo l’utilizzo in qualsiasi organizzazione avente un certo grado di complessità e, in particolare, nelle imprese: solo se ed in quanto tali registrazioni siano vere, infatti, esse possono effettivamente giocare come elementi (indispensabili) di razionalità ed efficienza dell’organizzazione stessa. Per tali motivi, riconoscendo agli estratti di saldaconti la stessa efficacia probatoria delle registrazioni di cui all’art. 2710 c.c. (che possono fare prova…), i saldaconti potevano essere utilizzati come elementi di prova anche nel procedimento di verifica dei crediti del fallimento. «Si tratta di procedimento sicuramente configurabile alla stregua di “controversie tra imprenditori”, ove il creditore che chiede l’ammissione al passivo fallimentare abbia tale qualifica (e la banca che vuole utilizzare a suo favore l’estratto dei saldaconti ovviamente la possiede). Il che comporta l’applicabilità della regola dell’art. 2710 c.c. e quindi il riconoscimento di efficacia probatoria, anche in tale sede, all’estratto dei saldaconti»([157]). Comunque, l’autore continuava affermando che poteva esserci il disconoscimento del credito, ma non in base ad un disconoscimento, in assoluto, del valore probatorio del documento, bensì «sulla base di una accertata, caso per caso, inidoneità probatoria dello stesso, come è stato concretamente formato, per i dati che contiene o non contiene, anche con riguardo, eventualmente, a contestazioni (analitiche) del curatore»([158]).
Riguardo alla tesi appena esposta, si può obiettare non solo che l’estratto di saldaconti non era un estratto di scritture bollate e vidimate (né la dichiarazione del dirigente poteva avere lo stesso valore e la stessa efficacia di quella del notaio; inoltre, poteva anche ritenersi non necessaria tale dichiarazione del dirigente quando il saldaconti veniva utilizzato fuori della procedura monitoria, a meno che non si considerasse la dichiarazione di conformità alle scritture contabili e di verità e liquidità del credito un elemento essenziale del documento a prescindere dal procedimento ingiuntivo), ma anche che l’art. 2710 c.c. riguarda i rapporti tra imprenditori, mentre non si può riferire alle controversie tra banca e curatore, poiché, contrariamente a quanto sostenuto, non si tratta di controversie tra imprenditori; il curatore infatti non è rappresentante né del fallito, né dei creditori, ma è un pubblico ufficiale. Infatti la Corte di Cassazione, nella sentenza già citata, ha avuto modo di precisare che vano era il tentativo di attribuire agli estratti di saldaconti la stessa efficacia probatoria che l’art. 2710 c.c. attribuisce ai libri degli imprenditori bollati e vidimati nelle forme di legge, sia per i motivi più volte detti, sia perché, come la Cassazione precisa, «non è configurabile come controversia tra imprenditori quella cui dà luogo la domanda d’ammissione al passivo fallimentare, in quanto contraddittore del creditore istante non è (soltanto) il fallito ma è l’intero ceto creditorio, il quale non solo può comprendere anche soggetti che non sono imprenditori, ma è estraneo all’eventuale rapporto d’impresa che tra il creditore istante ed il fallito esista riguardo al creditore insinuato».
III.4 (segue) L’estratto di saldaconti come presunzione semplice.
Oltre alla tesi che sosteneva l’estratto di saldaconti essere di per sé un documento giustificativo ex art. 93 l.f. (salvo poi richiamare la libertà discrezionale del giudice istruttore), ed a quella che riteneva tale documento assolutamente privo di valore probatorio in tal senso, vi fu la posizione che attribuiva agli estratti di saldaconti il valore di presunzione semplice.
Il Tribunale di Catania([159]) non escludeva totalmente l’utilizzabilità in sede fallimentare dell’estratto di saldaconti, in quanto affermava che «non è, da solo, documento idoneo per giustificare l’ammissione del credito della banca al passivo del fallimento del cliente. Tuttavia la domanda della banca può essere accolta se l’ufficio fallimentare acquista aliunde contentezza del credito», dunque, le informazioni fornite in aggiunta al documento non ne sostituivano il valore di prova documentale, ma la completavano. Pure in dottrina è stato sostenuto che «laddove concorrano altri elementi di convincimento, anche l’estratto di saldaconto non sia del tutto irrilevante, ma resta fermo il fatto che, di per sé, esso non sia idoneo a legittimare l’ammissione al passivo, come esattamente, a nostro avviso, affermato dalla giurisprudenza costante»([160]). D’altronde, lo stesso art. 2710 c.c. parla di possibilità di prova, cioè di elementi di prova.
III.5 (segue) La soluzione della Suprema Corte.
Anche in merito al valore probatorio che l’estratto di saldaconti assumeva nella procedura fallimentare, la soluzione è giunta dalla famosa sentenza della Suprema Corte n. 6707 del 1994([161]). Nel caso di specie il Banco di Sicilia, nel fallimento di una società sua cliente, aveva chiesto di essere ammesso al passivo documentando il proprio credito con saldaconto; il giudice delegato aveva ammesso il credito “con riserva di produzione dell’estratto conto”, ma la banca propose opposizione deducendo che non ricorrevano i presupposti per l’ammissione con riserva, sia perché fuori dell’ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 95 l.f., sia perché il documento esibito doveva ritenersi sufficiente ai fini della prova del credito. Le Sezioni Unite, riconoscendo all’estratto di saldaconti il valore di mero indizio nei giudizi di cognizione, affermavano che «le conclusioni alle quali qui si perviene valgono allo stesso modo per la domanda di insinuazione al passivo fallimentare, la quale dà luogo com’è pacifico, ad un ordinario giudizio di cognizione. Il giudice delegato, ancorché munito di poteri cognitori che gli consentono di derogare alla rigorosa applicazione del normale regime probatorio, legittimamente non ammette al passivo il credito della banca in base al solo saldaconto; e in tal caso, nonché nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie – non intenda aderire alla richiesta di produrre altri documenti (id est, gli estratti del conto), la banca deve proporre opposizione al decreto che rende esecutivo lo stato passivo, instaurando così un normale giudizio in contraddittorio del curatore, che è sottoposto, ex art. 98 l.f., ai principi generali delle prove, sicché l’istituto ha l’onere di produrre i mezzi di prova del suo diritto».
Infine, si è detto che la carenza di valore probatorio autosufficiente dell’estratto di saldaconti si riverbera anche, nell’ipotesi opposta di accoglimento della domanda corredata unicamente da tale documento, sull’opposizione ex art. 100 l.f. spiegata da altro creditore, in cui, nonostante le perplessità emerse in proposito sia in dottrina che in giurisprudenza, non può ritenersi incombente sull’opponente l’onere di contestazione specifica che incombe su chi agisce in opposizione ad ingiunzione emessa ex art. 102 l.b.([162]).
III.6 L’estratto di conto corrente come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri favorevoli.
L’abrogazione dell’art. 102 l.b., con la relativa eliminazione dell’estratto di saldaconti, ha spostato l’attenzione sull’efficacia o meno dell’estratto di conto corrente bancario a supportare la domanda di ammissione al passivo da parte delle banche.
Escluso l’utilizzo dell’estratto di saldaconti, che, come detto, per l’affermata giurisprudenza aveva un valore meramente indiziario, le banche sostenevano l’utilizzabilità degli estratti di conto corrente nella procedura fallimentare e la relativa piena prova del credito nell’eventuale opposizione alla loro ammissione al passivo (tutto ciò non riguarda a ben vedere un’estensione dell’applicazione dell’art. 50 t.u.b., che è una norma eccezionale, ma l’efficacia probante dell’estratto conto in sé).
Il Tribunale di Udine([163]), in un caso in cui era stata fatta domanda di ammissione al passivo mediante estratto di saldaconti, avendo premesso che questo documento non rientrava nelle ipotesi di cui all’art. 2710 c.c. «in quanto contraddittore del creditore istante non è soltanto il fallito, ma l’intero ceto creditorio, il quale non solo può comprendere soggetti che non sono imprenditori, ma è anche estraneo all’eventuale rapporto d’impresa tra il creditore istante ed il fallito riguardo al credito insinuato», stabiliva che «nell’ipotesi di un fallimento del correntista, il credito della banca non può essere provato con la mera produzione del saldaconto bancario, non potendo essere assimilato all’estratto conto ed impedendo il controllo da parte degli organi della procedura dell’evoluzione delle operazioni intervenute nell’ambito del rapporto»; per cui, conseguenza di questo iter logico era il riconoscimento del valore di “documenti giustificativi”, e di prova in caso di opposizione, agli estratti di conto corrente.
E’ stato anche sostenuto che, stante la natura confessoria della mancata contestazione da parte del correntista degli estratti conto, la loro implicita approvazione da parte del correntista non è priva di efficacia anche nei confronti del curatore. «A tale conclusione non osta la qualità di terzo del curatore atteso che la dichiarazione confessoria tacita non può dirsi priva di efficacia probatoria anche per la massa dei creditori»([164]). Pertanto, onere della banca sarebbe quello di provare l’invio degli estratti conto e, anche in via presuntiva, la loro ricezione da parte del correntista, nonché di produrre l’estratto conto relativo all’ultimo periodo susseguente a quello il cui saldo deve ritenersi tacitamente approvato dall’imprenditore poi fallito. Per cui, si sostiene che è onere del curatore quello di impugnare le singole annotazioni contestando l’erroneità delle medesime, nonché l’invalidità o inefficacia giuridica delle attestazioni, con contestazione specifica e non limitata ad una generica confutazione. Pertanto, agli estratti conto va riconosciuto il valore di «prova atipica in assenza di risultanze contrarie o di specifiche contestazioni da parte del curatore, che comporteranno l’onere alla banca di produrre i documenti giustificativi delle singole operazioni, anche questi documenti soggetti, però, al libero apprezzamento del giudice (prova comunque debole nel procedimento di ammissione allo stato passivo perché formatasi non nei confronti del curatore)»([165]).
III.7 (segue) Le contestazioni del curatore e la produzione dei documenti giustificativi del saldo bancario.
Bisogna considerare però che l’efficacia probatoria dell’estratto conto è limitata solo all’attestazione dei fatti e non è documentazione piena dei rapporti contrattuali, pertanto, se la contestazione dei rapporti obbligatori e dei titoli contrattuali spetta al cliente col termine di prescrizione ordinaria, tale diritto, a maggior ragione, deve certo spettare al curatore, ma quest’ultimo deve essere messo in grado di poter contestare.
Allora, come ha rilevato il Tribunale di Padova([166]), «deve ritenersi necessaria, ai fini dell’insinuazione al passivo, quando si fa valere un credito nei confronti del curatore, anche per consentirgli di esercitare i suoi diritti, la produzione di tutti gli estratti conto relativi al rapporto di conto corrente (con il risultato contabile di tutte le operazioni verificatesi), in cui sia fatto chiaro riferimento al negozio giuridico sottostante l’operazione contabilizzata»; ritenendo dunque che il meccanismo dell’approvazione tacita degli estratti conto spieghi pienamente i suoi effetti anche nei confronti della procedura in questione, tanto che il Tribunale afferma esplicitamente che «una volta dimostrato il regolare invio al correntista in bonis dell’estratto conto e il decorso del termine di legge (art. 1832 c.c.), il curatore non potrà contestare la verità storica dei dati riportati nel conto …, ivi compresa l’esistenza degli ordini e delle dichiarazioni del correntista nel conto stesso menzionate come causale di determinate annotazioni di addebito, ma potrà mettere in discussione la portata ed il significato giuridico dei fatti riportati nell’estratto conto».
Ma si è affermato che, per consentire al curatore di contestare non genericamente le singole operazioni sottostanti alle risultanze del rapporto di conto corrente, la banca debba indicare, come documenti giustificativi, tutti gli estratti conto del rapporto, nonché la copia dei negozi giuridici sottostanti le operazioni contabilizzate, ovvero le scritture contabili analitiche, e ciò nei limiti di tempo in cui la legge ne impone la conservazione ex art. 119, co. 4, t.u.b. (cioè, dieci anni). Inoltre, affinché le scritture possano spiegare efficacia, la banca deve provarne l’invio, la ricezione ed anche la non contestazione (prova quest’ultima alquanto difficile, se non impossibile, dato che gli estratti conto sono usualmente inviati dalle banche con posta ordinaria e non con raccomandata, come prescritto dall’art. 1832, co. 2, c.c.).
Ci si è però anche chiesti che senso avrebbe produrre gli estratti conto relativi ad un decennio, allora, opportuno sarebbe la produzione dell’estratto conto “integrale” analitico delle singole operazioni per il periodo dell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, ovvero dell’anno anteriore alla revoca del rapporto o al congelamento “evidente” dei conti a rientro. Cioè, l’ultimo anno di effettiva operatività del conto che si somma al periodo di conto congelato o a rientro. Sarà poi il curatore, qualora avesse dei dubbi su singole operazioni, a doverle contestare con eccezioni specifiche chiedendo la produzione riguardante i negozi sottostanti, con tutti i limiti di queste produzioni, o a chiedere anche gli estratti conti conto degli anni precedenti. Il curatore deve dunque effettuare una verifica delle posizioni bancarie e, ovviamente, gli amministratori della società fallita e/o il fallito potranno fornire i necessari chiarimenti sull’utilizzo dei fidi e sui saldi dei conti correnti([167]).
III.8 (segue) L’estratto di conto corrente come documento giustificativo per l’ammissione al passivo fallimentare: pareri contrari.
Del tutto differente è la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 6465 del 2001([168]), dove ha affermato che «non è giuridicamente possibile … riversare sul curatore gli effetti preclusivi della mancata contestazione, ad opera del fallito, degli estratti conto di cui all’art. 1832 c.c., richiamato dal successivo art. 1857 c.c. per le anticipazioni regolate in conto corrente, né assegnare a detti estratti conto il valore probatorio circa la veridicità e l’esistenza del credito che dalla mancata contestazione o impugnazione deriva allorché il rapporto si svolge inter partes. In definitiva, non è giuridicamente possibile opporre alla curatela gli effetti che dall’approvazione anche tacita del conto e dalla decadenza del correntista dalle impugnazioni derivano ex art. 1832 c.c. tra le parti del contratto… L’istituto di credito… ha l’onere di dare prova piena del suo credito, assolvendo al relativo onere secondo il disposto della norma generale dell’art. 2697 c.c., attraverso la documentazione relativa allo svolgimento del conto, se di rapporti obbligatori regolati in conto corrente si sia trattato, senza poter pretendere di far valere nei confronti del curatore, con valore di per sé esaustivamente probatorio, gli estratti conto anche non contestati dal fallito e la conseguente approvazione tacita degli stessi». E tali considerazioni, afferma la Suprema Corte, valgono ancor di più nella fase successiva di opposizione allo stato passivo.
Non solo, va sottolineato che la confessione stragiudiziale del fallito, pur effettuata prima della dichiarazione del fallimento, non ha nei confronti del curatore fallimentare l’efficacia probatoria di cui agli artt. 2733 e 2735 c.c., in quanto, attenendo la prova alla sfera del processo e non del rapporto sostanziale, l’efficacia probatoria attribuita dalla legge ad un atto o fatto presuppone l’identità tra parti sostanziali e parti processuali e, pertanto, gli effetti di una dichiarazione avente valore di confessione stragiudiziale si producono se, e nei limiti, essa sia fatta valere nella controversia in cui sono parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti del rapporto sostanziale, rispettivamente autore e destinatario della dichiarazione, mentre è pacifico, quantomeno in sede di verifica dello stato passivo, la posizione di terzietà del curatore fallimentare rispetto ai rapporti tra debitore e creditori e rispetto anche ai rapporti interni al ceto creditorio([169]).
Pertanto, «la banca che intende partecipare al concorso dei creditori ha l’onere di provare il proprio credito ma, a tal fine, non sono sufficienti né la lettera di apertura del conto corrente, che documenta solo la costituzione del rapporto e non anche il suo svolgimento, né gli estratti del conto, sia perché documento proveniente dallo stesso creditore, sia perché il curatore è terzo rispetto al rapporto conseguente inapplicabilità dell’art. 1832 c.c., né l’estratto di saldaconto …; né il certificato notarile del saldo debitore non equivalente all’estratto dei libri contabili dotata dell’efficacia probatoria di cui all’art. 2710 c.c.»([170]).
III.9 La riforma del diritto fallimentare e l’accertamento dei crediti bancari di conto corrente.
Com’è noto, il 1° marzo del 2002, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge n. 1243, contenente modifiche urgenti alla legge fallimentare, teso ad adeguare la disciplina dei fallimenti alle numerose sentenze della Corte Costituzionale pronunciate sul r.d. n. 267 del 1942. L’obiettivo dell’iniziativa viene chiaramente esplicitato nella relazione illustrativa: «appare urgente un intervento legislativo anticipatorio, teso ad adeguare la normativa vigente, senza sconvolgerne l’impianto, in modo da consentire che le procedure pendenti e quelle sopravvenienti possano, da subito, svolgersi secondo regole più chiare e certe e concludersi, per quanto possibile, in tempi brevi. L’urgenza di tale intervento è vieppiù rappresentata dall’entrata in vigore del nuovo art. 111 Cost., che impone l’adeguamento, nel più breve tempo possibile, di tutti i procedimenti giurisdizionali e, quindi, anche delle procedure concorsuali, ai principi da esso introdotti»([171]). Questo disegno di legge, il 14 marzo del 2002, è stato presentato al Senato dal Ministro della Giustizia, di concerto col Ministro dell’Economia e delle Finanze, ed è stato assegnato ovviamente alla Commissione Giustizia, dove è stato ampiamente emendato, allargando così l’ambito di riforme previsto originariamente dal disegno di legge. Il d.d.l. n. 1243 è attualmente in discussione alla Commissione Giustizia.
Il Governo ha anche istituito, presso il Ministero di Giustizia, una Commissione ministeriale (c.d. Commissione Trevisanato) con il compito di redigere una revisione organica di tutte le norme in materia di diritto fallimentare. Questa Commissione, dopo aver stilato una versione che è parte del disegno di legge delega per la riforma della disciplina fallimentare, ha steso un organico disegno di legge di riforma, ora all’esame del Ministro della Giustizia. Quest’ultimo ha incaricato il sottosegretario Vietti di coordinare le diverse ipotesi di riforma.
Per quanto riguarda gli aspetti di verifica del passivo, c’è la volontà di un maggiore coinvolgimento del comitato dei creditori, ma ciò non riguarda affatto tutta la problematica dell’ammissione al passivo dei crediti bancari derivanti da rapporti regolati in conto corrente; la banche non sono poste in una situazione diversa da tutti gli altri creditori, nemmeno sul piano probatorio. Bisognerà comunque aspettare che la riforma diventi legge per poter dare una valutazione adeguata. Tuttavia, si può notare come sarebbe opportuna un’analisi anche delle categorie dei soggetti creditori coinvolti nelle procedure fallimentari e, in particolare, degli istituti di credito spesso e maggiormente coinvolti nelle procedure concorsuali. Infatti, in merito all’ammissione delle banche al passivo fallimentare, si è affermato che «l’accertamento dei crediti bancari continuerà a dibattersi nei termini correnti, almeno fino a quando non vi sarà una legislazione più razionale, che armonizzi meglio la normativa concorsuale e la normativa sostanziale di settore»([172]).
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Corte di Cassazione, 20 luglio 1967, n. 1861; in Gius. civ., I, 1968, 324
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Corte di Cassazione, 18 luglio 1989, n. 3362; in BBTC, II, 1989, 537, con nota redazionale
Corte di Cassazione, 22 maggio 1990, n. 4617; in Mass. foro it., 1990, 624; in Rep. foro it.,1990, voce Contratti bancari, n. 60.
Corte di Cassazione, 10 agosto 1990, n. 8128; in BBTC, 1991, II, 443, con nota di M. R. De Simone; in Gius. civ. 1991, I, 51, con nota di V. Santarsiere; in Foro it., 1991, I, 128, con nota di R. Simone
Corte di Cassazione, 12 settembre 1990, n. 9427; in Mass. foro it., 1990, 1086
Corte di Cassazione, 7 marzo 1992, n. 2765; in BBTC, 1993, II, 390, con nota di L. Stefani
Corte di Cassazione, 20 agosto 1992, n. 9719; in Foro it., 1993, 2173, con nota di G. Valcavi
Corte di Cassazione, 4 novembre 1992, n. 11948; in Mass. giur. it., 1992, 1038
Corte di Cassazione, Sez. Un., 7 luglio 1993, n. 7448 ; in Corr. giur., 1993, 1330, con nota di G. De Luca
Corte di Cassazione, 14 settembre 1993, n. 9512; in BBTC, 1994, II, 373; in Mass. giur. it., 1993, 889
Corte di Cassazione, Sez. Un., 18 luglio 1994, n. 6707 ; in Corr. giur. 1994, 1098, con nota di V. Carbone; in Fall., 1995, I, 177, con nota di A. Patti; in Arch. civ., 1994, 1001, con nota di A. Segreto; in Giur. it., 1995, I, 1, 386, con nota di E. Ntuk; in DBMF, 1995, 136, con nota redazionale
Corte di Cassazione, 30 gennaio 1995, n. 1101; in Mass. giur. it., 1995, 150
Corte di Cassazione, 11 febbraio 1995, n. 1547; in Giur. comm., 1997, II, 407, con nota di D. Di Zitti
Corte di Cassazione, 3 marzo 1995, n. 2460; in Giur. it., 1996, I, 1, 393, con nota di M. F. Nodari
Corte di Cassazione, 17 aprile 1996, n. 3630; in Mass. giur. it., 1996, 354
Corte di Cassazione, 14 maggio 1998, n. 4846; in Mass. civ. it., 1998, 1025
Corte di Cassazione, 6 luglio 2000, n. 9008; in Mass. foro it, 2000, 835
Corte di Cassazione, 21 luglio 2000, n. 9579; in Mass. giur. it., 2000, 884
Corte di Cassazione, 15 settembre 2000, n. 12169; in Mass. giur. it. 2000, 1102; in www.iussit.it, con nota di A. Iroso
Corte di Cassazione, 16 novembre 2000, n. 14849; in Dir. fall., 2001, II, 66
Corte di Cassazione, 22 novembre 2000, n. 15066; in Mass. foro it., 2000, 1375
Corte di Cassazione, 18 aprile 2001, n. 5675; in Mass. foro it., 2001, 480, con nota di G. D’Amato
Corte di Cassazione, 9 maggio 2001, n. 6465; in Mass. giur. it., 2001, 560; in Fall., 2002, I, 389, con nota di E. Staunovo Polacco
Corte di Cassazione, 25 luglio 2001, n. 10129; in Mass. giur. it., 2001, 859
Corte di Cassazione, 26 luglio 2001, n. 10186; in Mass. giur. it., 2001, 863
Corte di Cassazione, 30 gennaio 2002, n. 1233; in Banca dati giuridiche. Aurum., UTET ed., 2004
Corte di Cassazione, 25 febbraio 2002, n. 2751; in Mass. giur. it., 2002, 194; in Gius. civ., 2002, I, 1863, con nota redazionale
Corte di Cassazione, 2 maggio 2002, n. 6258; in Mass. giur. it., 2002, 451
Corte di Cassazione, 20 agosto 2003, n. 12233; Banca dati giuridiche. Aurum, UTET ed., 2004
Corte di Cassazione, 5 dicembre 2003, n. 18626; in www.diritto.it
Corte di Cassazione, 5 dicembre 2003, n. 18650; in www.ipsoa.it
Corte di Cassazione, 16 marzo 2004, n. 5316; Banca dati giuridiche. Aurum, UTET ed., 2004
Appello di Venezia, 26 novembre 1963; in BBTC, 1964, II, 57, con nota di M. Fragali
Appello di Bologna, 22 novembre 1967; in BBTC, 1968, II, 173, con nota redazionale
Appello di Bologna, 2 dicembre 1968; in BBTC, 1970, II, 380
Appello di Bologna, 14 maggio 1977; in Giur. comm., 1979, II, 158, con nota di G. Cabras
Appello di Torino, 24 dicembre 1984; in Giur. it., 1985, I, 2, 395
Appello di Milano, 9 febbraio 1988; in BBTC, 1990, II, 212, con nota redazionale
Appello di Milano, 11 ottobre 1988; in BBTC, 1990, II, 212, con nota redazionale
Appello di Milano, 5 giugno 1990; in BBTC, 1992, II, 690
Appello di Napoli, 21 maggio 1991; in Dir. giur., 1991, 827, con nota di F. S. Ferrajoli
Appello di Genova, 5 febbraio 2002; in Fall., 2003, I, 74, con nota di D. Finardi
Tribunale di Perugia, 8 marzo 1959; in BBTC, 1960, II, 457, con nota di G. La serra
Tribunale di Firenze, 17 dicembre 1962; in BBTC, 1962, II, 252, con nota redazionale
Tribunale di Firenze, 11 marzo 1964; in BBTC, 1964, II, 57, con nota di M. Fragali
Tribunale di Napoli, 17 maggio 1965; in Dir. giur., 1967, 847, con nota di F. Di Sabato
Tribunale di Bologna, 5 giugno 1965; in BBTC, 1965, II, 577
Tribunale di Napoli, 30 ottobre 1965; in Dir. giur., 1966, 376
Tribunale di Biella, 21 febbraio 1970, in BBTC, 1970, II, 389
Tribunale di Milano, 25 novembre 1975; in BBTC, 1977, II, 211
Tribunale di Napoli, 21 maggio 1979; in BBTC, 1980, II, 220, con nota redazionale; in Bancaria, 1980, 93, con nota di F. Maimeri
Tribunale di Napoli, 19 ottobre 1979; in BBTC, 1980, II, 220, con nota redazionale; in Bancaria, 1980, 94, con nota di F. Maimeri
Tribunale di Catania, 24 gennaio 1980; in BBTC, 1982, II, 102, con nota redazionale
Tribunale di Pescara, 11 marzo 1981; in Foro napoletano, 1981, 139
Tribunale di Roma, 26 maggio 1984; in Foro it., 1984, I, 2602, con nota redazionale; in Giur. mer., 1985, I, 9, con nota di D. Di Gravio
Tribunale di Reggio Calabria, 16 ottobre 1987; in BBTC, 1989, II, 215, con nota di S. Patriarca
Tribunale di Napoli, 18 marzo 1988; in BBTC, 1990, II, 213, con nota redazionale
Tribunale di Massa, 14 giugno 1988; in Arch. civ., 1988, 1075
Tribunale di Napoli, 13 ottobre 1988; in BBTC, 1990, II, 213, con nota redazionale
Tribunale di Napoli, 27 dicembre 1988; in Dir. giur., 1990, 594, con nota di A. Cigliano
Tribunale di Milano, 26 aprile 1990; in BBTC, 1992, II, 123, con nota redazionale
Tribunale di Napoli, 15 giugno 1990; in BBTC, 1992, II, 121, con nota redazionale
Tribunale di Milano, 5 novembre 1990; in Arch. civ. 1991, 589, con nota di M. Bronzini
Tribunale di Bari, 17 giugno 1993, in Corr. giur., 1993, 1333, con nota di G. De Luca
Tribunale di Roma, 26 luglio 1994; in Dir. fall., 1995, II, 149, con nota redazionale
Tribunale di Udine, 19 ottobre 1994; in Fall., 1995, II, 956, con nota di C. Trentini
Tribunale di Genova, 3 giugno 1996; in Fall., 1997, I, 208, con nota di C. Trentini
Tribunale di Cassino, 21 febbraio 1997; in www.officine.it/tribcassino
Tribunale di Napoli, 24 aprile 1997; in Giur. it., 1998, II, 1202, con nota di F. Guerra
Tribunale di Trani, 27 febbraio 1998; in Foro it., 1988, I, 2566
Tribunale di Trani, 15 aprile 1998; in Foro it., 1988, I, 2568
Tribunale di Trani, 1 giugno 1999; in www.mythnet.it/trani.ius
Tribunale di Catania, 1 agosto 2000; in www.diritto.it
Tribunale di Napoli, 24 novembre 2000; in Dir. giur., 2000, 244, con nota di D. Sinesio
Tribunale di Padova, 18 maggio 2001; in Fall., 2002, I, 392, con nota di E. Staunovo Polacco
Tribunale di Monza, 20 marzo 2002; in www.monzacameracivile.it
Tribunale di Monza, 9 marzo 2002; in Fall., 2003, I, 199, con nota di A. Cesaroni
Tribunale di Mantova, 28 giugno 2002; in www.ilcaso.it
Pretura di Bergamo, 15 aprile 1992, in Foro it. 1993, I, 314, con nota di U. Morera
Pretura di Bari, 30 aprile 1996; in Osservatorio sulla giustizia barese. Quaderno barese 3, 1996
NOTE:
(1) La l.b. nasce dai r.d.l. 12 marzo 1936, n. 375, e r.d.l. 17 luglio 1937, n. 1400, e dalle leggi di conversione 7 marzo 1938, n. 141, e 7 aprile 1938, n. 636.
([2]) Gli istituti di credito avevano una raccolta del risparmio a medio e lungo termine, a differenza delle aziende di credito che raccoglievano il risparmio a breve termine.
([3]) Le banche di interesse nazionale erano caratterizzate dalle loro dimensioni e dalla loro presenza sul territorio nazionale; le casse di risparmio erano costituite nella forma di associazioni o fondazioni e, in base alla l. n. 967 del 1929, si proponevano di raccogliere depositi a titolo di risparmio e di trovare ad essi un conveniente collocamento.
(4) Qualche dubbio poteva sorgere in riferimento alle banche di interesse nazionale, ma, all’epoca dell’emanazione della legge bancaria e negli anni immediatamente successivi, era ancora molto incerta la natura privatistica di tali enti; specie se si consideri che nella prima versione della legge bancaria esse erano definite “banche di diritto pubblico”, poi fu introdotta, in sede di conversione del d.l. n. 375 del 1936, la denominazione “banche di interesse nazionale”, per evitare che fosse disconosciuta la loro natura di società private; la dottrina e la giurisprudenza del tempo non avevano dubbi nel rilevare la natura pubblicistica di tali banche (ed infatti la norma di cui all’art. 2461 c.c. è stata introdotta nel 1942) ed anche il Governatore della Banca d’Italia Einaudi, all’assemblea generale di partecipanti, il 18 aprile del 1945 (il codice civile era già stato emanato), sottolineava la “rilevanza pubblicistica” di queste banche. Il Nigro parla, a proposito delle banche di interesse nazionale, di «enti di natura “intermedia” e, comunque, incerta (almeno al momento della emanazione della legge bancaria)». A. Nigro, Sull’efficacia probatoria degli estratti di saldaconti bancari, in Gius. civ., 1980, I, 354.
Cf. Corte di Cassazione, 13 gennaio 1938; in B. Renda, Le banche nella giurisprudenza, ed. Cedam, 1972, 432.
(5) In dottrina fu prospettata l’ipotesi di una possibile natura commerciale delle casse di risparmio, ma il costante orientamento giurisprudenziale, teso ad escludere rigorosamente che queste fossero commercianti, fugò ogni dubbio.
(6) Cf. L. Parrella, A proposito dell’art. 102 l. banc. e dell’art. 50 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in DBMF, 1994, 174-177.
(7) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Alcuni rilievi sull’art. 102 della legge bancaria, in BBTC, 1970, I, 162.
(8) Ci sono stati, comunque, alcuni casi in cui qualche tribunale ha ritenuto applicabile la norma a banche escluse dalle categorie elencate dall’art. 102 l.b.; in particolare alle banche popolari, affermando (ma tale posizione giurisprudenziale, decisamente minoritaria, non ha avuto seguito) che l’art. 3 del d.lgs. 10 febbraio 1948, n. 105, estendeva alle banche popolari le disposizioni della legge bancaria in generale.
(9) Cf. Relazione presentata dalla Giunta Generale del Bilancio sul disegno di legge per la conversione in legge del R.D.L. 17 luglio 1937, n. 1400.
(10) Cf. B. Foglia – E. Sparano, op. cit., 165, i quali osservano che l’art. 635 c.p.c. fa «una riserva alle particolari leggi sulla riscossione delle entrate patrimoniali, il che certamente non riguarda gli enti pubblici economici, in quanto sforniti di potestà d’imperio».
(11) L’opinione dominante è che l’efficacia dell’estratto delle scritture, di cui all’art. 634 c.p.c., nei confronti di un non imprenditore è limitata alla fase monitoria, restando onere dell’imprenditore, in caso di opposizione, di fornire in altro modo la prova della propria pretesa.
(12) L. Parrella, op. cit., 179.
(13) Cf. L. Parrella, op. cit., 179-180, il quale rileva che «dal punto di vista sistematico, è forse possibile sostenere che le stesse ragioni che avevano indotto all’emanazione dell’art. 102 l.b. fossero venute meno, dal momento che, con la previsione di cui all’art. 634 co. 2 c.p.c., si offriva agli imprenditori che esercitano un’attività commerciale e, quindi, anche agli enti pubblici creditizi e, a maggior ragione, alle banche di interesse nazionale e alle casse di risparmio, uno strumento ad hoc per la rapida riscossione dei propri crediti».
(14) A. Nigro, op. cit., 355.
(15) Cf. L. Parrella, op. cit., 180, il quale, in merito all’art. 102 l.b. ed agli artt. 635 e 634, co. 2, c.p.c., afferma che «i riferiti dubbi sulla vigenza dell’art. 102 l.b. sono stati superati, con una certa superficialità, non solo dalla dottrina, ma soprattutto dalla giurisprudenza, per cui anche successivamente all’entrata in vigore del codice di procedura civile, si è fatto largo uso nella prassi bancaria, degli estratti di saldaconti per ottenere ingiunzioni di pagamento».
(16) Dopo le pronunce della Corte di Cassazione, nei primi anni ’70, che attribuivano agli amministratori e dipendenti bancari natura di incaricati di pubblico servizio indipendentemente dalla qualifica del soggetto che esercitava l’attività creditizia, si è pervenuti, con la sentenza n. 8342 del 23 maggio 1987 della Cassazione a sezioni unite (in BBTC, 1987, II, 545), ad affermare che l’attività bancaria, indipendentemente dall’ente che l’esercita, è attività di natura privatistica e, quindi, gli artt. 357 e 358 c.p. non sono applicabili nemmeno agli amministratori o dipendenti degli enti pubblici creditizi; tale orientamento si è consolidato (anche in virtù dell’avallo della Corte Costituzionale nella sentenza n. 309 del 1988 – in Foro it., 1988, 1787 –) con una nuova sentenza della Cassazione a sezioni unite (28 febbraio 1989 – in Foro it. 1989, II, 506). E comunque già il d.p.r. n. 350 del 27 giugno 1985 (attuativo della I direttiva CEE – n. 77/780 del 12 dicembre 1977 – di coordinamento delle legislazioni bancarie) aveva qualificato l’attività bancaria come attività d’impresa.
(17) Corte di Cassazione, 26 febbraio 1965, n. 311; in BBTC, 1965, II, 489.
(18) Cf. B. Foglia – E. Sparano, op. cit., 173-177.
(19) Cf. F. Martorano, Il valore probatorio dell’estratto conto e dell’estratto di saldaconto, in BBTC, 1982, I, 834-835.
(20) Corte di Cassazione, 12 aprile 1980, n. 2336; in Casi e materiali di diritto bancario, I, AA.VV., ed. Giuffré, 1991, 421.
(21) «I libri bollati e vidimati nelle forme di legge, quando sono regolarmente tenuti, possono fare prova tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio d’impresa»; ma, il d.l. 10 giugno 1994, n. 357, convertito con l. 8 agosto 1994, n. 489, ha eliminato la formalità della vidimazione.
(22) Tra l’altro, la giurisprudenza tende, nei giudizi di cognizione, ad attribuire alle scritture contabili valore di principio di prova anche nei confronti di non imprenditori.
(23) A. Nigro, op. cit., 355, che nota come le finalità previste dagli artt. 2215 ss. c.c. hanno un ruolo nel garantire razionalità ed efficienza dell’organizzazione dell’impresa e l’art. 634 c.p.c. statuisce che l’efficacia probatoria delle scritture a favore dell’imprenditore è subordinata alla loro regolarità, in quanto così si ha una presunzione di sincerità e veridicità delle registrazioni (complessivamente e per ogni singola annotazione) e «“neutralizza”, per così dire, la provenienza di parte della documentazione, attribuendole una sorta di sigillo di imparzialità, che la rende idonea proprio per l’utilizzazione in sede probatoria. Ciò vale anche, ed a maggior ragione, per l’art. 2710 c.c.»; osserva inoltre che il legislatore ha preso atto del sistema di contabilità delle aziende di credito e delle loro efficienza e razionalità, sostituendo la dichiarazione di verità e liquidità del credito al regolarità formale delle registrazione.
(24) Cf. A. Nigro, op.cit., 355-356.
(25) Cf. Corte di Cassazione, 5 novembre 1979, n. 5729; in BBTC, 1980, II, 148-149, dove si afferma anche che «la norma dell’art. 102 ha, nel sistema, lo stesso valore di quella che secondo il codice di rito consentono a certi creditori di ottenere il decreto ingiuntivo in base a documenti formati direttamente da loro o sulla base di atti e scritture da loro tenuti»; tesi accoglibile, come già detto, solo rispetto ad un accostamento riguardante l’“eccezionalità” di queste disposizioni.
(26) E’ interessante notare in proposito che una circolare della Banca d’Italia del 17 dicembre 1985, n. 15619, ha stabilito per le aziende di credito di cui all’art. 5 l.b., con esclusione delle sole cooperative di credito, un capitale minimo di 25 miliardi di lire.
(27) Cf. M. Bussoletti, Problemi vecchi e nuovi in tema di estratti dei saldaconti bancari, in Banche e banchieri, 1991, 417.
([28]) Per quanto risulta dalle pubblicazioni, c’è un unico caso giurisprudenziale che ha escluso la successione in questione: la Pretura di Bergamo respingeva (decreto 15 aprile 1992) il ricorso per decreto ingiuntivo presentato da una cassa di risparmio, trasformata in società per azioni, e fondato sull’estratto di saldaconti ai sensi dell’art. 102 l.b.; nella motivazione si afferma che la Cassa di risparmio di Torino non è più ente pubblico, ma un normale soggetto di diritto privato, a seguito della ristrutturazione avuta con il d.lgs. n. 356 del 1990, e che l’art. 16 di questo decreto «pur stabilendo che i nuovi soggetti succedono nei diritti, nelle attribuzioni e nelle situazioni giuridiche degli enti originari, non specificano che i nuovi soggetti sono “società bancarie” e quelli originari sono “enti”, mentre l’art. 17 espressamente stabilisce che alle società bancarie… non si applicano le norme che disciplinano l’organizzazione degli enti originari». Il Morera, commentando tale decreto, afferma che «l’art. 16 specifica proprio che i nuovi soggetti sono società bancarie e che quelli originari sono enti; … mentre poi l’art. 17 evidenzia opportunamente il principio che le norme relative all’organizzazione dell’ente pubblico (originario) non possono trovare applicazione nell’ambito della società per azioni» e che la ratio dell’art. 16 è quella di garantire un’ampia continuità nei rapporti giuridici (Pretura di Bergamo, 15 aprile 1992; in Foro it., 1993, I, 314, con nota di U. Morera).
Il Parrella, accogliendo il “risultato” del suddetto decreto, ma non le motivazioni, afferma che la previsione di cui all’art. 102 l.b., così peculiare ed atipica, non pare inquadrabile nelle categorie volutamente generiche di cui all’art. 16 del d.l. 356 del 1990, e che, sul piano della voluntas legis, è problematico giustificare il passaggio a soggetti privati di facoltà concesse a determinati enti anche in ragione della natura pubblica ed in un sistema che si andava a riformare (L. Parrella, op. cit., 185-186).
([29]) La banca universale è un ente creditizio che raccoglie fondi e concede finanziamenti in ogni forma e con ogni scadenza, opera nei diversi settori del mercato dei capitali e fornisce un’ampia gamma di servizi di consulenza e intermediazione; si supera così la distinzione tra aziende e istituti di credito, eliminando la differenziazione tra attività a breve e a lungo termine (è chiaro che la banca, dato il carattere d’impresa dell’attività bancaria, dovrà darsi un preciso ed attento programma di interventi). Si tratta dunque di un’innovazione di fondamentale importanza per il settore bancario e riconfermata, ovviamente, nel d.lgs. n. 385 del 1993.
([30]) Cf. M. Valignani, L’efficacia probatoria dell’estratto conto secondo l’art. 50 della legge bancaria, in DBMF, 1995, 55, il quale nota che il legislatore ha tenuto presente anche il corretto utilizzo della norme di privilegio bancario negli oltre cinquant’anni di vigenza, non essendoci stati abusi delle banche in danno dei clienti. Ma, si può obiettare che ci sono stati casi di “mancata accortezza” nell’iniziare una procedura monitoria a danno dei clienti.
([31]) Cf. L. Parrella, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Commento al d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Vol. I, AA. VV., ed. Zanichelli, 2003, 711.
([32]) Nel Dossier n. 250 (Roma, agosto 1993, 128) dell’Ufficio ricerche e documentazione in materia economica – finanziaria del Dipartimento delle Finanze si legge che l’elemento di maggiore novità rispetto alla vecchia disposizione dell’art. 102 l.b. è la fine del privilegio riservato ai soggetti in essa indicati.
([33]) Qualche perplessità suscita la scelta del legislatore di mantenere la Banca d’Italia tra i soggetti della procedura monitoria agevolata, non tanto per lo scarso rilievo pratico, ma in quanto la Banca d’Italia, quale ente pubblico, gode già del privilegio di cui all’art. 635 c.p.c..
([34]) Tutte le banche iscritte all’albo di cui all’art. 13 t.u.b., cioè «le banche autorizzate in Italia e le succursali delle banche comunitarie stabilite nel territorio della Repubblica», non ovviamente le cd. banche di fatto (d’altronde il termine “banca”, ai sensi dell’art. 1 t.u.b., co. 1, lett. b), «indica l’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria»). Inoltre, non v’è ragione per negare la fruibilità dell’art. 50 t.u.b. alle banche comunitarie che esercitano in Italia le attività ammesse al beneficio del mutuo riconoscimento senza stabilirvi succursali.
([35]) Cf. M. Valignani, op. cit., 60.
([36]) M. Condemi, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Tomo I, a cura di F. Capriglione, 2a edizione, ed. Cedam, 2001, 371.
([37]) V. Farina, La determinazione del credito «bancario» in conto corrente, in BBTC, 1999, I, 340.
([38]) Cf. L. Parrella, A proposito dell’art. 102 l. banc. e dell’art. 50 del Testo Unico, cit., 195.
([39]) G. Tarzia, La prova dei contratti bancari e dei crediti bancari, in DBMF, 1995, 496.
([40]) V. Farina, op. cit., 346.
([41]) G. Minervini, Dal decreto 481/92 al testo unico in materia bancaria e creditizia, in Giur. Comm., 1993, I, 838.
([42]) Il Condemi, invece, ritiene che «la possibilità di avvalersi degli speciali poteri di certificazione e attestazione, lungi dal potersi qualificare come un ingiustificato privilegio a favore delle banche, potrebbe collocarsi nel solco del principio costituzionale di cui è espressione l’art. 47 Cost., che riserva al risparmio, inteso in un’accezione più circoscritta, una tutela rafforzata, finalizzata, attraverso la previsione di specifici poteri, alla salvaguardia della stabilità del sistema bancario». M. Condemi, op. cit., 370.
([43]) Cf. L. Parrella, in Testo unico in materia bancaria e creditizia. Commento, cit., 713.
([44]) In Foro it., 1984, I, 1775.
([45]) G. Minervini, op. cit., 827.
([46]) Cf. Dizionario Enciclopedico Italiano. Istituto della Enciclopedia Italiana – Treccani.
([47]) «Se tra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti, ancorché in monete differenti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario».
([48]) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Forma e formalismo dell’estratto di saldaconto, in BBTC, 1970, II, 553; i quali ritengono l’uso del plurale “estratto dei loro saldaconti” conforme a quello “delle scritture contabili”.
([49]) Cf. Tribunale di Bologna, 5 giugno 1965; in BBTC, 1965, II, 577.
([50]) Corte di Cassazione, 10 ottobre 1977, n. 4310; in Foro it., 1977, I, 2428. La giurisprudenza successiva si è attestata su questa posizione.
([51]) Corte di Cassazione, 10 ottobre 1977, n. 4310; cit..
([52]) “Relazione al Testo Unico in materia bancaria e creditizia”, in Il codice della banca. Commento sistematico [articolo per articolo] ad decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, a cura di E. Gianfelici, ed. Giuffrè, 1995, 98.
([53]) Cf. L. Parrella, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. Commento al d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Vol. I, AA. VV., ed. Zanichelli, 2003, 718.
([54]) L’art. 50. t.u.b. fa riferimento alle “scritture contabili”, mentre l’art. 102 l.b. parla di “scritturazioni”; ma la differenza è meramente lessicale.
([55]) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Alcuni rilievi sull’art. 102 della legge bancaria, in BBBTC, 1970, I, 174, 175; i quali affermano che «si è evidentemente fuori del documento ricognitivo (art. 2720 c.c.) anche se fra le fattispecie vi sono degli accostamenti».
([56]) La contrattualistica bancaria distingue il personale direttivo in due categorie: i dirigenti in senso stretto ed i funzionari.
([57]) Il co. 1 dell’art. 39 l.b. (in materia di cauzioni) disponeva: «La Banca d’Italia ha facoltà di stabilire per gli amministratori delegati, gerenti, direttori generali, direttori centrali, capi servizio e per i direttori delle filiali (in appresso denominati dirigenti) …».
([58]) Vocabolario della lingua italiana Treccani.
([59]) Cf. M. Valignani, L’efficacia probatoria dell’estratto conto secondo l’art. 50 della legge bancaria, in DBMF, 1995, 63, il quale afferma inoltre che «non si capirebbe per quale motivo la legge avrebbe dovuto pretendere una qualificazione particolarmente elevata, quale quella di dirigente in senso contrattuale, per una attività concettualmente modesta, di mero carattere ricognitivo, e priva di qualsiasi contenuto discrezionale o decisorio, quale quella di cui all’art. 50».
([60]) M. Condemi, op. cit., 374.
([61]) Cf. M Valignani, op. cit., 63.
([62]) Cf. L. Parrella, op. cit., 723-724.
([63]) Cf. A. Nigro, Sull’efficacia probatoria degli estratti di saldaconti bancari, in Gius. civ., 1980, I, 354-355.
([64]) Corte di Appello di Bologna, 2 dicembre 1968; in BBTC, 1970, II, 380.
([65]) Così si esprime la relazione Ungaro alla Commissione Camera dei Deputati in sede di conversione del r.d. 17 luglio 1937, n. 1400.
([66]) B. Foglia – E. Sparano, Forma e formalismo, cit., 537, che elaborano le due argomentazioni a sostegno della non invalidità dell’estratto di saldaconti per mancanza della dichiarazione di verità e liquidità.
([67]) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Forma e formalismo, cit., 534-535; i quali affermano che, non essendoci alcuna conseguenza specifica indicata sulla mancanza della dichiarazione, «la funzione di garanzia non pare seriamente sostenibile ed allora la spiegazione dell’emendamento può riferirsi solo nel precedente di cui all’art. 760 c.comm.», in questa noma veniva imposto al creditore di dichiarare, nella domanda di ammissione al passivo, che il suo credito era vero e reale, «tale formalità era una sopravvivenza della conferma con giuramento richiesta da precedenti legislazioni (Codice sardo, sub art. 533; Codice civile del 1865, sub art. 607), che venne soppressa in quanto non idonea non solo ad offrire garanzie reali, non essendo obbligatoria per tutti, ma inutile in quanto la denunzia di falso credito già di per sé comportava una responsabilità penale a carico del dichiarante»; inoltre, gli autori affermano che l’estratto di saldaconto non è un atto processuale e che vige, sul piano del diritto processuale, il principio della strumentalità delle forme.
([68]) G. Cabras, Efficacia probatoria dell’estratto dei saldaconti bancari e fallimento del cliente, in Giur. comm., 1979, II, 163
([69]) Corte di Cassazione, 26 febbraio 1965, n. 311; in BBTC, 1965, II, 489; la cui motivazione termina dicendo che «esattamente, pertanto, è stata dichiarata la nullità del decreto ingiuntivo, perché emesso in base ad un documento non idoneo né ai sensi dell’art. 634 c.p.c., né ai sensi dell’art. 102 menzionata legge speciale».
([70]) Caso diverso si aveva se c’era la regolare bollatura e vidimazioni di scritture contabili non obbligatorie, infatti, il Tribunale di Napoli ritenne che, ai sensi dell’art. 634 c.p.c., «l’estratto notarile del giornale di sezione del c/c della filiale …, con attestazione del notaio e della sua vidimazione e bollatura, e sul quale risultano annotati gli essenziali elementi contabili del saldo, costituisce senz’altro prova scritta idonea per la pronuncia del decreto ingiuntivo». Tribunale di Napoli, 19 ottobre 1979; in Bancaria, 1980, 95.
([71]) Cf. L. Parrella, op. cit., 724.
([72]) Cf. V. Farina, op. cit., 346-347, che considera la sanzione di dubbia efficacia. Dottrina dominante ritiene che l’art. 485 c.p. configuri un caso di dolo specifico (Cf. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale-II, ed. Giuffrè, 2000, 121).
([73]) Cf. M. Valignani, op. cit., 69-70.
([74]) Discussa è la natura del giudizio di opposizione: giudizio autonomo (tesi sostenuta da F. D’Onofrio e da A. Rocco), mezzo di impugnazione del decreto ingiuntivo (tesi prevalente in dottrina e giurisprudenza), di continuazione del processo iniziato col ricorso ingiuntivo (tesi sostenuta da C. A. Nicoletti).
([75]) Tali disposizioni sono l’art. 650 c.p.c., che, nel disciplinare l’opposizione tardiva, indica alcune limitazioni che non avrebbero senso se il decreto ingiuntivo non fosse incontrovertibile; e soprattutto l’art. 656 c.p.c., il quale dispone che il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo ai termini dell’art. 647 c.p.c. può impugnarsi con la revocazione straordinaria o con l’opposizione di terzo revocatoria esattamente come è previsto nei confronti delle sentenze passate ingiudicato.
([76]) «Il documento di cui all’art. 102 l.b. non è un atto processuale, pur essendo “prova scritta” per l’ottenimento dell’ingiunzione. Gli atti processuali, infatti, sono quelli che servono a costituire, modificare o estinguere un rapporto processuale e si distinguono, pertanto, dagli atti giuridici per il fatto di appartenere al processo determinando effetti immediati sul rapporto processuale. Come tali non possono definirsi atti processuali i documenti anche preparatori di un processo» (B. Foglia – E. Sparano, Forma e formalismo, cit., 536.
([77]) Cf. Tribunale di Bologna, 5 giugno 1965; in BBTC, 1965, II, 577.
([78]) Corte di Cassazione, 5 novembre 1979, n. 5279; in BBTC, 1980, II, 147.
([79]) Corte di Cassazione, 10 agosto 1990, n. 8128; in Gius. civ., 1991, I, 51.
([80]) M. Bussoletti, Problemi vecchi e nuovi in tema di saldaconti bancari, in Banca e banchieri, 1991, 416.
([81]) «Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento».
([82]) Cf. V. Santarsiere, Profili in materia di apertura di credito, regolata in conto corrente, e sconto bancario, in Gius. civ., 1991, I, 55.
([83]) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Alcuni rilievi sull’art. 102, cit., 176-177.
([84]) Cf. G. Gallo, L’efficacia probatoria dell’estratto conto bancario, in Mondo bancario, settembre-ottobre 2002, 42.
([85]) Cf. F. Riolo, in Codice commentato della banca. Disciplina generale, Tomo I, a cura di F. Capriglione e V. Mezzacapo, ed. Giuffrè, 1990, 1197.
([86]) Corte di Cassazione, 20 luglio 1967, n. 1860; in Gius. civ. 1968, 326.
([87]) F. Maimeri, Estratti di scritture contabili e saldaconti ex art. 102 della legge bancaria, in Bancaria, 1980, 97.
([88]) B. Foglia – E. Sparano, Alcuni rilievi sull’art 102, cit., 178-179.
([89]) Corte di Cassazione, 14 dicembre 1971, n. 3638; in Foro it., 1972, I, 326.
([90]) Corte di Cassazione, 1 agosto 1987, n. 6656; in BBTC, 1988, II, 145.
([91]) Corte di Cassazione, 7 marzo 1992, n. 2765; in BBTC, 1993, II, 390.
([92]) Corte di Cassazione, 4 novembre 1992, n. 11948; in Mass. giur. it., 1992, 1038.
([93]) Corte di Cassazione, 30 gennaio 1995, n. 1101; in Mass. giur. it., 1995, 150.
([94]) Cf. Tribunale di Napoli, 30 ottobre 1965; in Dir. e giur., 1966, 376.
([95]) Cf. Tribunale di Napoli, 17 maggio 1965; in Dir. e giur., 1967, 847.
([96]) Cf. V. Carbone, “De profundis” per il saldaconto bancario, in Corr. giur., 1994, 1104.
([97]) M. R. De Simone, A proposito dell’efficacia probatoria nel giudizio di cognizione del certificato di saldaconto, in BBTC, 1991, II, 445.
([98]) Corte di Cassazione, 18 luglio 1994; in DBMF, 1995, 136.
([99]) Cf. V. Carbone, op. cit., 1104.
([100]) Cf. B. Foglia – E. Sparano, Alcuni rilievi sull’art. 102, cit., 186-187.
([101]) Il 1° gennaio 1994.
([102]) Cf. E. di Leo, Il contenzioso in tema di interessi bancari, Palazzo di Giustizia di Bari – 26 gennaio 2002.
([103]) Per tale iscrizione non occorre la notifica del titolo, inoltre, l’eventuale successiva sospensione dell’esecuzione non incide sull’iscrizione dell’ipoteca.
([104]) «Qualora il deposito, l’apertura di credito o altre operazioni bancarie siano regolate in conto corrente, il correntista può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, salva l’osservanza del termine di preavviso eventualmente pattuito».
([105]) L. Parrella, A proposito dell’art. 102 l. banc. e dell’art. 50 del Testo Unico, cit., 195.
([106]) Cf. L. Parrella, A proposito dell’art. 102 l. banc. e dell’art. 50 del Testo Unico, cit., 196-197.
([107]) L’art. 2730 c.c. dispone che «la confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. La confessione è giudiziale o stragiudiziale».
([108]) Cf. F. Martorano, Il valore probatorio dell’estratto conto e dell’estratto di saldaconto, in BBTC, 1982, I, 826
([109]) Non sono mancate in passato opinioni che attribuivano all’approvazione, anche tacita, dell’estratto conto la preclusione di ogni contestazione fondata su ragioni sostanziali, attinenti alla legittimità dell’inclusione o dell’eliminazione di partite contabili.
([110]) Cf. M. Condemi, op. cit., 376-377.
([111]) A. Nigro, Profili probatori, in Casi e materiali di diritto bancario I, 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, AA. VV., ed. Giuffrè, 1991, 356.
([112]) Cf. B. Inzitari, Gli effetti della approvazione del conto corrente bancario e impugnativa delle singole partite, in Giur. it., 1985, I, 1091.
([113]) Cf. M. Condemi, op. cit., 2001, 378.
([114]) M. F. Nodali, Nota alla sentenza Cass. 3 marzo 1995, n. 2460, in Giur. it., 1996, I, 396.
([115]) Cf. M. Condemi, op. cit., 378.
([116]) Corte di Cassazione, 25 settembre 2003, n. 14234; in Giust. civ. Mass., 2003, f. 9.
([117]) Corte di Cassazione, 16 marzo 2004, n. 5316; in Banca dati. Aurum. ed. UTET, 2004.
([118]) L’efficacia probatoria dell’estratto conto è stata talvolta subordinata all’esistenza di una ordinata contabilità, ma tale posizione giurisprudenziale non ha avuto seguito.
([119]) F. Martorano, op. cit., 827.
([120]) Cf. Corte di Cassazione, 26 luglio 2001, n. 10186; in Mass. giur., 2001, 863.
([121]) Cf. Corte di Cassazione, 14 dicembre 1971, n. 3638; in Mass. foro it., 1971, 1060.
([122]) Cf. B. Inzitari, op. cit., 1094.
([123]) Tribunale di Catania, 1 agosto 2000; in Foro etneo. Massimario trimestrale della giurisprudenza catanese, Anno V, n. 1, gennaio-marzo 2001.
([124]) Cf. G. Tarzia, op. cit., 498.
([125]) Corte di Cassazione, 22 maggio 1990, n. 4617; in Mass. foro it., 1990, 624.
([126]) Cf. V. Farina, op. cit., 344; il quale riporta uno stralcio di una sentenza inedita della Corte di Appello di Cagliari, del 20 luglio 1998, che si esprime in senso contrario.
([127]) Prova che può essere data con qualsiasi mezzo, anche con presunzioni semplici e attraverso testimonianza. Cf. Corte di Cassazione, 29 gennaio 1982, n. 575; in Foro it., 1983, 1990.
([128]) Cf, G. Tarzia, op. cit., 495.
([129]) Tribunale di Trani, 1° giugno 1999; in www.mythnet.it/trani.ius
([130]) Corte di Cassazione, 20 agosto 2003, n. 12233; in Banca dati giuridiche. Aurum, ed. UTET, 2004.
([131]) Tribunale di Napoli, 24 aprile 1997; in Giur. it., 1998, II, 1202.
([132]) Corte di Cassazione, 15 settembre 2000, n. 12169; in Mass. foro it., 2000, 1102.
([133]) Cf. Corte di Cassazione, 30 gennaio 2002, n. 1233; in Banca dati giuridica. Aurum. ed UTET, 2004.
([134]) Cf. Corte di Cassazione, 25 febbraio 2002, n. 2751; in Gius. civ., 2002, I, 1863; qui si trattava di opposizione a decreto ingiuntivo emesso sulla base del saldaconti, poi nell’opposizione la banca aveva prodotti gli estratti conto con la detta modalità.
([135]) Pretura di Bari, 30 aprile 1996; in Osservatorio sulla giustizia civile. Quaderno barese 3.
([136]) M. Valignani, op. cit., 59; il quale afferma che tale estratto conto è «doppiamente di chiusura, di chiusura contabile e, il più delle volte, di chiusura del rapporto».
([137]) Cf. Corte di Cassazione, 1° agosto 1987, n. 6656; cit..
([138]) Con questa legge si è modificato anche l’art. 1956 c.c., dove si statuisce che «il fideiussore per un’obbligazione futura è liberato se il creditore, senza speciale autorizzazione del fideiussore, ha fatto credito al terzo, pur conoscendo che le condizioni patrimoniali di questo erano divenute tali da rendere notevolmente più difficile il soddisfacimento del credito. Non è valida la preventiva rinuncia del fideiussore ad avvalersi della liberazione».
([139]) Corte di Cassazione, 19 marzo 1993, n. 3291; in Foro it., 1993, 5171, con nota critica di G. Valcavi.
([140]) Corte di Cassazione, 5 dicembre 2003, n. 18650; in Banca dati giuridiche. Aurum, ed. UTET, 2004.
([141]) Corte di Cassazione, 30 gennaio 1995, n. 1101; in Mass. giur. it., 1995, 150.
([142]) Corte di Cassazione, 2 maggio 2002, n. 6258; in Mass. giur. it., 2002, 451
([143]) Nei moduli fideiussori disposti dalle banche vi sono quasi sempre le clausole di rinuncia alla facoltà di proporre eccezioni e di pagamento a prima richiesta. La giurisprudenza ha riconosciuto la validità di tali clausole. Se si accetta l’ipotesi di una clausola paragonabile a quella del solve et repete, allora il fideiussore potrà contestare gli estratti conto esibiti dalla banca, ma avrà preventivamente eseguito il pagamento richiestogli; conclusione diversa si ha se si considera tali clausole capaci di rendere autonome le garanzie prestate. C’è da rilevare, inoltre, che il 3 dicembre 1994, la Banca d’Italia, a seguito di istruttoria, con provvedimento n. 12, imponeva all’ABI di eliminare, tra le altre, le condizioni contrattuali che modificano in senso sfavorevole al cliente la disciplina stabilita dall’art. 1945 c.c. relativamente all’opponibilità di eccezioni da parte del fideiussore.
([144]) L. Parrella, Commento sub art. 50, cit., 731.
([145]) Corte di Cassazione, 11 marzo 1966, n. 694; in Foro it., I, 280
([146]) Corte di Cassazione, 20 luglio 1967, n. 1861; in Gius. civ., 1968, 324.
([147]) L. Parrella, Commento sub art. 50, cit., 722.
([148]) G. Cabras, Efficacia probatoria dell’estratto dei saldaconti bancari e fallimento del cliente, in Giur. comm., 1979, II, 169.
([149]) Si è notato come le espressioni usate dalla legge fallimentare dimostrino l’estraneità dei decreti di formazione e di verificazione del passivo fallimentare al diritto probatorio vero e proprio; si parla infatti di “esibizione” o “presentazione” e non di “produzione” dei “documenti giustificativi”.
Cf. G. Laserra, Osservazioni sulla struttura dei decreti di formazione e di verificazione dello stato passivo fallimentare, in BBTC, 1960, II, 459.
([150]) Cf. G. Laserra, op. cit., 463-465.
([151]) G. Cabras, op. cit., 172.
([152]) F. Martorano, Il valore probatorio dell’estratto conto e dell’estratto di saldaconto, in BBTC, 1982, I, 841.
([153]) Corte di Cassazione, 5 novembre 1979, n. 5729; in Foro it., 1980, I, 681.
([154]) Tribunale di Perugia, 8 marzo 1959; in BBTC, 1960, II, 457.
([155]) F. Martorano, op. cit., 840.
([156]) Cf. Corte di Appello di Bologna, 14 maggio 1977; in Giur. comm., 1979, II, 171.
([157]) A. Nigro, Sull’efficacia probatoria degli estratti di saldaconti bancari, in Gius. civ., 1980, I, 356.
([158]) A. Nigro, op. cit., 356.
([159]) Tribunale di Catania, 24 gennaio 1980; in BBTC, 1982, II, 102.
([160]) F. Martorano, op. cit., 841.
([161]) Corte di Cassazione, 18 luglio 1994, n. 6707; in Corr. giur., 1994, 1098.
([162]) Cf. F. Martorano, op. cit., 841.
([163]) Tribunale di Udine, 19 ottobre 1994; in Fall., 1995, II, 956.
([164]) C. Trentini, Efficacia probatoria dell’estratto conto bancario, in Fall., 1997, I, 213.
([165]) D. Finardi, Banca e fallimento: una verifica continua; in Fall., 2003, 80.
([166]) Tribunale di Padova, 18 maggio 2001; in Fall., 2002, 393.
([167]) Cf. D. Finardi, op. cit., 79.
([168]) Corte di Cassazione, 9 maggio 2001, n. 6465; in Fall., 2002, 389.
([169]) Cf. Tribunale di Monza, 9 aprile 2002; in Fall., 2003, 200.
([170]) Tribunale di Roma, 21 settembre 1999; in Riv. cur. fall., 1999, f. 3, 44.
([171]) In www.senato.it
([172]) A. Cavalaglio, L’accertamento dei creduti bancari davanti al giudice delegato, in Fall., 2002, II, 812.
Ai sensi dell’Art. 1 della Legge Fallimentare (R.D. n. 267 del 16/03/1942) non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
La Corte di Cassazione (con sentenze nn. 5420 del 4 aprile 2012 e 22546 05 novembre 2010) ha stabilito che il debitore, benché non costituito avanti al tribunale, può indicare per la prima volta, anche in sede di reclamo alla sentenza di fallimento comunque emessa, i mezzi di prova di cui intende avvalersi, e questo pure al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all’art. 1 l. fall., tenuto conto che – come espresso dalla Corte cost., con sent. n. 198 del 1° luglio 2009 – permane un ampio potere di indagine officioso in capo all’organo giudicante.
In tema di presupposti dimensionali per l’esonero dalla fallibilità del debitore, nel computo dei ricavi, ai fini del riconoscimento della qualifica di piccolo imprenditore, il triennio cui si richiama il legislatore nell’art. 1 legge fallimentare va riferito agli ultimi tre esercizi in cui la gestione economica è scadenzata, e non agli anni solari; a tale conclusione si perviene attraverso una interpretazione sistematica delle norme e il richiamo, tra esse, dell’art.14 legge fallimentare, che, in tema di istanza di fallimento, impone al debitore – che chieda la dichiarazione di fallimento in proprio – di depositare le scritture contabili e fiscali degli ultimi tre anni, cioè degli ultimi tre esercizi cui ha riguardo la documentazione funzionale all’accertamento delle sue condizioni di fallibilità (così Cass. civ., sent. n. 24630 del 3 dicembre 2010).
Nel verificare la sussistenza del requisito della fallibilità posto dall’art. 1 legge fallimentare, è prioritario il dato ricavabile dalle scritture contabili; tuttavia, possono tenersi in considerazione anche altri elementi dai quali risulti comunque l’esistenza di debiti ulteriori, anche qualora essi siano in parte contestati, essendo comunque rilevanti quale dato dimensionale dell’impresa; la contestazione, infatti, non ne impedisce l’inclusione nel computo dell’indebitamento complessivo e non si sottrae alla valutazione del giudice chiamato a decidere sull’apertura della procedura concorsuale, anche se la relativa pronuncia non pregiudica l’esito della controversia volta all’accertamento di quel debito (così Cass. civ, sent. n. 25870 del 2 dicembre 2011).
Ai fini dell’accertamento del requisito di fallibilità occorre pertanto procedere ad una valutazione dell’esposizione complessiva dell’imprenditore, anche con riguardo ai debiti non scaduti, trattandosi di requisito assunto dal legislatore quale indice dimensionale dell’impresa; per tale motivo vanno considerati anche i debiti condizionati, come quelli derivanti dalla prestazione di garanzie, che presuppongono la preventiva escussione del debitore (così Cass. civ, sent. n. 9760 del 4 maggio 2011).
L’art. 15 della l. fall. prevede altra causa di impedimento alla dichiarazione di fallimento, disponendo che non si può egualmente dichiarare il fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila.
L’art. 15, l. fall, prevede quindi una aggiuntiva condizione per la dichiarazione di fallimento, la cui sussistenza deve essere necessariamente valutata dal tribunale in base al materiale probatorio e informativo acquisito, a prescindere anche dalla proposizione di una eccezione da parte del debitore.
Non costituiscono peraltro un sintomo inequivocabile dello stato di insolvenza i debiti emersi nel corso dell’istruttoria prefallimentare che superino di poco il limite sancito dall’art. 15 (così Tribunale Chieti, sent. n. 188 del 9 febbraio 2010).
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