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Di Antonio Pezzuto, ex Dirigente della Banca d’Italia
Nello scorso mese di settembre la Banca d’Italia ha pubblicato un paper [1] molto interessante che illustra le quattro età in cui può essere suddivisa l’evoluzione della regolamentazione bancaria dall’Ottocento a oggi:
- il free banking, rimasto in vigore fino agli anni Venti del Novecento;
- la nascita della vigilanza in risposta alla Grande Depressione degli anni Trenta, con l’introduzione di controlli pubblici severi;
- la deregolamentazione bancaria, in auge fino all’esplosione della crisi finanziaria globale del 2007-2009;
- la risposta alla crisi finanziaria, avvenuta in due fasi. La prima (2010-2018), in cui sono state adottate regole più stringenti e coordinate a livello internazionale; la seconda, quella odierna, in cui si sono registrati in alcuni paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, deviazioni dagli standard internazionali.
Secondo gli autori, la regolamentazione bancaria è cambiata nel tempo, soprattutto in reazione alle crisi, ma è stata influenzata in misura determinante dagli orientamenti culturali prevalenti.
1. Il free banking
Nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento crisi bancarie, più o meno diffuse, sono scoppiate in molti paesi, con il ripetersi di alcune modalità prevalenti: eccesso di emissione di banconote, corsa al ritiro dei depositi dagli sportelli e deterioramento della qualità dei prestiti a causa del peggioramento delle condizioni dei debitori.
Malgrado i danni provocati dalle crisi bancarie, la prevalenza del pensiero liberale è la spiegazione principale del ritardo nell’introduzione di forme di regolamentazione dell’attività delle banche. In campo finanziario, questa corrente di pensiero ha trovato espressione nella teoria del “free banking”, secondo cui: i) non vi sarebbe alcun motivo per ritenere che istituzioni non regolamentate non debbano realizzare condizioni ottimali in termini di efficienza (operativa e allocativa) e di stabilità; ii) i costi e le inefficienze della regolamentazione risulterebbero superiori ai benefici attesi dalla stessa; iii) un’eccessiva azione regolamentare può comprimere l’iniziativa imprenditoriale degli operatori, abbassando in misura considerevole il livello di concorrenza all’interno del sistema.
Solo con lentezza si affermò il modello odierno della divisione del lavoro, nel quale la banca centrale ha il monopolio dell’emissione delle banconote, mentre le banche raccolgono depositi.
All’inizio la banca centrale o altri organismi pubblici non esercitavano funzioni di vigilanza. L’unico strumento largamente utilizzato per prevenire le crisi bancarie ed impedire che queste degenerassero in crisi sistemiche era la concessione del credito di ultima istanza (lender of last resort) a banche illiquide ma solvibili.
2. La nascita della vigilanza negli anni Trenta del Novecento
La Grande Depressione degli anni Trenta, sorta negli Stati Uniti con il crollo della borsa di New York e propagatasi ad altri paesi capitalistici, ha rappresentato il punto di svolta[2]. E’ infatti in quegli anni che nella maggior parte dei paesi avanzati nascono le prime forme di regolamentazione sulle imprese bancarie[3]: introduzione di barriere all’entrata per la costituzione di nuovi organismi creditizi e limiti all’apertura di sportelli bancari; restrizioni alle attività che le banche possono svolgere liberamente, con l’imposizione di vincoli di specializzazione; separazione tra la proprietà delle banche e quella delle imprese industriali; estensione della proprietà pubblica delle banche attraverso nazionalizzazioni; vincoli alla proprietà estera; introduzione di un sistema di assicurazione dei depositi negli Stati Uniti.
Si può quindi affermare che la regolamentazione bancaria nasce con il più grave fallimento di mercato (market failure) del XX Secolo, vale a dire la Grande Depressione che causò dissesti bancari, iperinflazione (in Europa), stagnazione dell’attività produttiva, fallimenti bancari diffusi e disoccupazione (negli Stati Uniti).
Dopo la seconda guerra mondiale il pensiero economico prevalente riteneva che le forze economiche non fossero in grado di auto-correggersi in caso di fallimenti del mercato. Si auspicava quindi l’intervento dello Stato per assicurare il corretto funzionamento dell’economia e della finanza.
Si trattò di una lunga fase di “repressione finanziaria”. Alle misure di vigilanza strutturale (che intervengono sulla struttura del mercato e sul grado di concentrazione) e prudenziale (che mirano a controllare il livello di rischio delle attività), i paesi affiancarono, nella conduzione della politica monetaria, misure che contribuirono a frenare e a orientare l’attività bancaria verso il settore pubblico: massimali sui prestiti, vincoli di portafoglio, alti coefficienti di riserva obbligatoria, limiti alle operazioni in cambi e in valuta estera.
Le regole introdotte negli anni Trenta del Novecento contribuirono a una lunga fase di stabilità tra il 1945 e il 1975, definita l’“età dell’oro” del capitalismo, in un contesto macroeconomico caratterizzato da un formidabile sviluppo economico e sociale.
Intorno alla metà degli anni Settanta cominciarono ad affiorare i primi segnali di fragilità, con il manifestarsi di molte crisi bancarie, tra cui quella della banca Herstatt in Germania e quella della Banca Privata Italiana nel nostro Paese. All’instabilità finanziaria, le banche centrali reagirono con la costituzione nel 1974 del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, a cui si deve la creazione, negli anni Ottanta, del coefficiente di solvibilità patrimoniale per controllare i rischi dell’attività bancaria.
3. La deregolamentazione bancaria
A partire dagli anni Settanta il dibattito sposta l’attenzione sui fallimenti delle politiche economiche pubbliche, considerata la sostanziale incapacità delle politiche monetarie e fiscali di impedire il susseguirsi di periodi alta inflazione ed elevata disoccupazione (c.d. stagnazione). Si riafferma quindi il pensiero liberale sulla scia delle idee di quattro economisti (Hayek, Friedman, Stigler e Buchanam), che propugnano un ridimensionamento del ruolo del settore pubblico nell’economia.
In parallelo al mutato clima ideologico, negli anni Settanta e Ottanta le economie mondiali sperimentarono trasformazioni profonde. Il rollo del sistema dei cambi fissi creato a Bretton Woods, la globalizzazione dei mercati finanziari, il rallentamento della crescita economica ed errori nei controlli pubblici determinarono il ritorno delle crisi bancarie. Anche l’innovazione finanziaria e il progresso tecnologico crearono le condizioni per un allentamento delle regole.
Alla base di queste convinzioni vi era l’assunto che l’industria finanziaria avesse al proprio interno gli incentivi giusti per tenere sotto controllo i rischi.
La vigilanza bancaria, soprattutto nei paesi anglosassoni, si è trasformata in “light-touch supervision”, in ossequio all’indirizzo secondo cui il mercato è in grado da solo di raggiungere condizioni di equilibrio.
La crescente diffusione di idee liberiste e gli interventi in campo economico varati sotto l’amministrazione di Reagan e il governo della Tatcher contribuirono alla deregolamentazione bancaria. Furono infatti introdotte misure diverse, come la riduzione delle barriere all’entrata, l’abolizione delle specializzazioni operative, l’apertura dei mercati domestici alle banche straniere, nel contesto della liberalizzazione dei movimenti di capitali, il ricorso sempre più frequente alle privatizzazioni delle banche pubbliche, l’aumento della concorrenza bancaria, il graduale passaggio da un approccio di vigilanza di tipo strutturale ad uno di tipo prudenziale, basato sui requisiti di capitale.
E in Italia? Nel nostro Paese si affermò definitivamente l’idea che la banca è un’impresa, svolge cioè un’attività imprenditoriale, che non esercita un servizio pubblico, pur continuando a godere di una protezione pubblica per la specificità della sua attività, connotata dalla simultanea presenza in bilancio di impieghi illiquidi e depositi liquidi.
Una spinta decisiva alla rimozione dei controlli strutturali è venuta dalla Prima (77/780) e dalla Seconda Direttiva di Coordinamento Bancario (89/646), che hanno affermato i principi della libertà di costituzione delle banche, della liberalizzazione dell’apertura di sportelli, della libertà di insediamento di banche estere nei mercati nazionali.
4. La risposta alla crisi finanziaria globale
La crisi finanziaria globale degli anni 2007-2009, sorta negli Stati Uniti per il progressivo deterioramento della qualità dei mutui subprime e poi propagatasi velocemente ad altre economie, industrializzate ed emergenti, con carattere sistemico, ha plasticamente mostrato che le forze di mercato non sono da sole in grado di garantire la stabilità del sistema finanziario e di assicurare un flusso di finanziamenti regolare al settore reale dell’economia.
La reazione alla crisi è stata tempestiva, incisiva e di vasta portata[4]. I policy makers hanno agito su tre fronti principali: salvataggio delle banche in difficoltà con risorse pubbliche, impiego di politiche monetarie ultra-espansive, anche di tipo non convenzionale, costruzione di un nuovo impianto regolamentare.
Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, le cause della crisi sono riconducibili a due ampi gruppi: quelle macroeconomiche e quelle microeconomiche.
Le cause d’ordine macroeconomico sono connesse principalmente con gli squilibri globali, causati dal finanziamento del disavanzo di parte corrente degli Stati Uniti con il risparmio accumulato in Giappone e nei paesi emergenti[5], e con la politica monetaria eccessivamente espansiva adottata dalla FED per contrastare gli effetti recessivi indotti dagli attacchi terroristici dell’11 settembre e dall’esplosione della bolla tecnologica[6].
Le cause d’ordine microeconomico sono legate: i) alla politica di deregolamentazione del sistema bancario statunitense[7], che aveva favorito una crescita incontrollata dei rischi; ii) al passaggio dal modello tradizionale “originate-to-hold” (eroga e detieni) al modello “originate to distribute” (eroga e distribuisci), fortemente orientato alla cartolarizzazione degli attivi che, al di là dei benefici prodotti in termini di frammentazione del rischio di credito, di aumento dell’offerta di credito e di minore assorbimento di capitale, ha provocato significative criticità, come l’indebolimento dell’attività di selezione e monitoraggio del credito, l’inadeguatezza del patrimonio a fronteggiare i rischi assunti, la creazione di strumenti finanziari complessi, opachi e illiquidi (come i collateralised debt obligations, CDO e le mortgage backed securities, MBS), negoziati su mercati non regolamentati (over-the-counter, OTC); iii) a diffuse carenze nei sistemi di misurazione e gestione dei rischi, riconducibili all’utilizzo di modelli matematici di valutazione e gestione del rischio, che facevano ampio impiego di informazioni sui prezzi delle attività relative a fasi cicliche preesistenti; iv) a meccanismi di incentivazione e remunerazione del top management, che hanno contribuito all’accumulo di rischi eccessivi e hanno privato le banche delle risorse necessarie a coprire le perdite emerse in seguito alla materializzazione dei rischi; v) a gravi debolezze nell’attività di valutazione del merito di credito da parte delle agenzie di rating; vi) a lacune nella regolamentazione e supervisione finanziaria[8].
La crisi finanziaria e le drammatiche conseguenze in termini di perdite di posti di lavoro e di crollo dell’attività produttiva hanno determinato il ripristino di rigorosi controlli pubblici, in un contesto difficile, contraddistinto da bassa crescita del prodotto, redditività contenuta delle banche e tassi di interesse vicino allo zero (zero lower bound) o addirittura negativi.
Più in dettaglio, è stata introdotta una regolamentazione più incisiva sugli elementi chiave della finanza e del settore bancario, unitamente a strumenti di controllo dei rischi più rigorosi. Non basta. Agli intermediari, principalmente quelli con operatività cross-border, è stato richiesto di innalzare la quantità di capitale e di migliorarne la qualità. La copertura dei rischi è stata ampliata, rafforzando quella relativa alle attività di negoziazione, alle cartolarizzazioni, alle esposizioni verso società veicolo fuori bilancio e ai derivati. E’ stato introdotto il leverage ratio[9]per ridurre l’eccessivo indebitamento delle banche nelle fasi espansive del ciclo economico. Sono stati ampliati gli strumenti per il controllo dei rischi aggiungendo, nella dotazione di capitale, buffer aggiuntivi che possono essere utilizzati in caso di shock esterni per limitare la pro-ciclicità. Sono stati resi obbligatori nuovi requisiti di liquidità, con l’introduzione di due coefficienti[10] volti da un lato a misurare la resilienza delle banche a potenziali crisi di liquidità nel breve periodo e, dall’altro, a evitare squilibri strutturali nella composizione per scadenze di poste attive e passive di bilancio su un orizzonte temporale di un anno.
Su impulso del Financial Stability Board (FSB), sono state rese più severe le regole per le banche di rilevanza sistemica globale (Global Systemically Important Banks, G-SIBs), allo scopo di contenerne l’assunzione di rischi, applicando vincoli addizionali di capitale e di assorbimento delle perdite (Total Loss Absorbing Capacity – TLAC).
Nell’Unione europea è stato creato un sistema comune per la vigilanza finanziaria, volto alla definizione di norme prudenziali armonizzate (c.d. single rulebook) per le banche, le assicurazioni e i mercati. Sono stati inoltre costituiti il Meccanismo unico di vigilanza (Single Supervisory Mechanism, SSM)[11], che ha introdotto un’unica autorità per i paesi dell’area dell’euro, e il Meccanismo di risoluzione unico (Single Resolution Mechanism, SRM)[12] per garantire una risoluzione ordinata delle banche in dissesto. Sono state infine gettate le basi per la creazione di un sistema comune di assicurazione dei depositi (European Deposit Insurance Scheme, EDIS)[13].
Si è cercato di estendere il perimetro della regolamentazione agli intermediari finanziari non bancari, che in precedenza non erano soggetti a controlli di natura prudenziale e che avevano contribuito alla propagazione della crisi finanziaria.
La nascita di un nuovo sistema internazionale di vigilanza come risposta alla crisi finanziaria globale segna quindi la fine del modello di supervisione “light touch” e l’affermarsi di un approccio di tipo “intensive supervision”, dati i fallimenti di mercato causati dall’incapacità di “autoregolazione” degli intermediari.
L’azione di rafforzamento della regolamentazione bancaria non è ancora terminata. Rimangono da completare i lavori per il recepimento negli ordinamenti nazionali delle regole derivanti dall’accordo di Basilea 3 del dicembre 2017, che entreranno gradualmente in vigore a partire dal 2023.
Nel contesto attuale, in cui l’economia globale sta vivendo una fase di grande incertezza in conseguenza della crisi epidemiologica e del conflitto russo-ucraino, in alcune giurisdizioni, tra cui gli Stati Uniti, sono stati introdotti nella regolamentazione elementi non in linea con gli standard internazionali[14], in particolare con quelli stabiliti dal FSB, cui possono essere in larga misura attribuite le cause della crisi di alcune banche regionali statunitensi nella primavera del 2023[15].
Poiché orientamenti verso un approccio meno stringente in materia di regolamentazione e supervisione bancaria si sono diffusi anche al di fuori degli Stati Uniti, sarebbe opportuno, soprattutto in questa fase, resistere alle pressioni per deregolamentare il sistema e introdurre possibili correttivi suggeriti dai recenti episodi di insolvenza.
5. Considerazioni conclusive
Ridurre la complessità regolamentare può produrre benefici in termini di efficienza e incoraggiare un migliore processo decisionale da parte delle autorità e dei soggetti regolamentati. Tuttavia, è bene rimarcare che affrontare il rischio sistemico in un sistema finanziario complesso non deve comportare la sostituzione di norme eccessivamente complesse con norme semplici o meno rigorose.
Una soluzione ragionevole sarebbe quella di ridurre la complessità ritenuta non necessaria, con il risultato che le autorità potrebbero accrescere la capacità di affrontare situazioni impreviste e gli intermediari avrebbero meno incentivi a spostare i rischi al di fuori del perimetro regolamentare.
Per il raggiungimento di questo obiettivo, gli autori indicano quattro opzioni:
- scoraggiare l’adozione di regole che accrescono la complessità del quadro normativo e operativo;
- evitare il sovrapporsi di autorità e di finalità nell’azione di vigilanza;
- ricercare un giusto equilibrio tra proporzionalità delle regole e tutela della stabilità finanziaria;
- introdurre maggiori elementi di proporzionalità per abbassare i costi di compliance, senza determinare un aumento del rischio del sistema finanziario nel suo complesso o delle banche di piccole e medie dimensioni.
Note:
[1] De Bonis R. e Trapanese M., Le quattro età della regolamentazione bancaria: che fare oggi?, Banca d’Italia, Questioni di Economia e Finanza, n. 796/2023.
[2] Sulle cause della Grande Depressione non vi è unanimità di pensiero. Secondo Fischer, la crisi ebbe origini reali: gli investimenti rallentarono e il tentativo di preservare il Gold Standard determinò un clima deflazionistico in molti paesi, aggravando le condizioni dei debitori. Secondo Friedman, la crisi ha invece origini monetarie: i panici bancari del 1930, con le corse dei depositanti agli sportelli, hanno ridotto la moneta in circolazione, con implicazioni negative sulla crescita economica. Infine, per Bernanke, la contrazione del PIL negli Stati Uniti è stata provocata non solo dal rallentamento della velocità di circolazione della moneta, ma soprattutto dalla riduzione dell’offerta di credito, quale conseguenza dei numerosi fallimenti di imprese e banche.
[3] Piace ricordare che l’Italia anticipò le riforme degli anni Trenta, con l’emanazione della legge bancaria nel 1926, che introdusse l’istituto della riserva obbligatoria e la possibilità di applicare alle banche un rapporto determinato tra patrimonio e depositi. Quest’ultimo provvedimento fu però efficace solo nei confronti delle piccole banche, non delle grandi banche miste, poi entrate in crisi e salvate dall’intervento pubblico.
[4] Negli Stati Uniti, ad esempio, è stato approvato nell’ottobre del 2008 un piano di salvataggio (Troubled asset relief programme, TARP) di dimensioni enormi, che prevedeva l’acquisizione da parte del Tesoro americano di circa 700 miliardi di dollari di titoli “tossici” connessi ai mutui fondiari, detenuti dalle banche, per fornire liquidità al mercato.
[5] Gli afflussi di capitali necessari a finanziare il deficit delle partite correnti avrebbero contribuito ad alimentare la bolla immobiliare, fornendo liquidità a buon mercato, che sarebbe stata utilizzata dagli intermediari per ampliare l’offerta di credito a clientela particolarmente rischiosa.
[6] Il prolungato mantenimento di bassi tassi d’interesse nella prima metà del decennio avrebbe avuto l’effetto di: incoraggiare le famiglie americane ad aumentare l’indebitamento bancario da destinare ai consumi e all’acquisto di abitazioni, nella convinzione che il prezzo degli immobili sarebbe lievitato in futuro; invogliare i prestatori di fondi ad assumere maggiori rischi per conseguire più elevati guadagni.
[7] Il processo di deregulation si è sviluppato lungo l’arco di un quinquennio: ha avuto inizio nel 1999 con l’approvazione di due provvedimenti di legge volti, rispettivamente, all’abolizione del principio di separazione dell’attività bancaria di tipo retail dall’investment banking e alla limitazione dei controlli di vigilanza su banche di investimento e istituti di credito ipotecario; è proseguito nel 2000 con l’emanazione di un atto legislativo che ha sottratto alla regolamentazione la negoziazione dei prodotti derivati; è terminato nel 2004 con la decisione della Security and Exchange Commission (SEC) di escludere le banche di investimento dal rispetto dei vincoli patrimoniali.
[8] La normativa in materia di adeguatezza patrimoniale (Basilea 1) ha incentivato la trasposizione del rischio fuori dei bilanci bancari e la creazione di un sistema bancario ombra (shadow banking system), costituito da SIV e conduits che operavano con dotazioni di capitale insufficienti, con crescenti sbilanci di liquidità e disallineamenti delle scadenze. Le entità che componevano questo sistema parallelo, pur essendo esposte a rilevanti rischi, non erano sottoposte ad alcuna forma di controllo ovvero assoggettate a controlli molto blandi. Inoltre, le autorità di supervisione hanno incentrato la loro azione sulla vigilanza micro-prudenziale, trascurando di prestare la necessaria attenzione al rischio sistemico. Infine, le nuove regole contabili si sono rivelate insufficienti ad assicurare una chiara e completa rappresentazione contabile dei rischi.
[9] Il coefficiente, dato dal rapporto tra i mezzi propri e il totale delle attività, deve essere almeno uguale al 3 per cento.
[10] Il Liquidity Coverage Ratio (LCR), espresso dal rapporto tra attività liquide di alta qualità e deflussi di cassa stressati, e il Net Stable Funding (NSFR), misurato dal rapporto tra attività fisse e passività totali.
[11] Dal 2014 i compiti e i poteri di vigilanza sulle banche sono esercitati dalla BCE e dalle autorità di vigilanza dei paesi dell’area dell’euro. La BCE vigila direttamente sulle c.d. banche “rilevanti” (significant). Le altre banche, quelle “meno rilevanti” (less significant) sono soggette alla vigilanza delle autorità nazionali, nell’ambito degli indirizzi formulati dalla BCE.
[12] Il SRM è pienamente operativo dal 2016. La risoluzione delle crisi delle banche è gestita secondo regole armonizzate dal Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board, SRB) o dalle autorità di risoluzione nazionali, nell’ambito di istruzioni e orientamenti comuni stabiliti dal Comitato.
[13] Nel 2018 la Commissione europea ha presentato una proposta legislativa per la riforma del sistema di assicurazione dei depositi, che è tuttora in una fase di discussione, poiché non si è fin qui pervenuti a una posizione condivisa per la diversità degli orientamenti espressi dalle delegazioni nazionali.
[14] La riforma del Dodd-Frank Act del 2018 ha innalzato da 50 a 250 miliardi di dollari la soglia di attività al di sotto della quale le banche sono esentate dalle regole e dai controlli più stringenti, che invece vengono applicati alle grandi banche di rilevanza sistemica. La riforma risponde alla necessità di graduare gli interventi normativi e quelli di vigilanza all’effettivo grado di rischio e al modello di business di ogni singola banca.
[15] Le autorità statunitensi hanno riconosciuto che la crisi della Silicon Valley Bank trae origine dalla incapacità degli amministratori e del management di controllare i rischi. Ma anche i supervisori non avevano valutato con la dovuta attenzione le vulnerabilità della banca, legate alla crescita delle dimensioni e della complessità di bilancio.
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