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15 Novembre 2018 In Diritto bancario, Notizie dalla Corte

CASSAZIONE: La ripartizione dell’onere della prova nei giudizi di ripetizione degli indebiti in conto corrente bancario

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Cassazione Civile, sez. I, sent. n. 27705 del 30 ottobre 2018

(Pres. Carlo DE CHIARA – Rel. Loredana NAZZICONE)

 

Sentenza:

In ordine all’onere della prova, è opportuno chiarire come esso si atteggi nei giudizi in questione [n.d.r.: domande di ripetizione dell’indebito in conto corrente bancario]: a) Il cliente, il quale agisce ex art. 2033 c.c., per la ripetizione dell’indebito corrisposto alla banca nel corso del rapporto di conto corrente, ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto vantato: vale a dire, a fronte dell’annotazione di poste passive sul suo conto corrente nell’assunto costituenti dazione indebita, la causa petendi dell’azione, in ragione della natura non dovuta di quegli addebiti (per l’esistenza di un’indebita capitalizzazione, interessi non consentiti, costi non concordati, e così via). In tal senso dono plurime decisioni di questa Corte in materia di domanda di ripetizione di indebito oggettivo, secondo le quali il creditore istante è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa: quindi, la dazione e la mancanza di una causa che lo giustifichi, ovvero il venir meno di questa (cfr. Cass. 25 gennaio 2011, n. 1734; 17 marzo 2006, n. 5896; 13 novembre 2003, n. 17146); b) A sua volta, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dalle annotazioni passive in conto, quale fatto estintivo, essa ha l’onere di allegare l’inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata. Deve considerarsi, in proposito, che l’eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene (da ultimo, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4372 e Cass. 26 luglio 2017, n. 18581, che richiamano precedenti ulteriori, fra cui Cass. 29 luglio 2016, n. 15790; Cass. 20 gennaio 2014, n. 1064); c) Se, a questo punto, il tempo decorso dalle annotazioni passive integri il periodo necessario per il decorso della prescrizione, diviene onere del cliente provare il fatto modificativo, consistente nell’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quei versamenti come mero ripristino della disponibilità accordata e, dunque, possa spostare l’inizio del decorso della prescrizione alla chiusura del conto. Apertura di credito che non è di per sé, come è noto, un contratto necessariamente riconnesso a quello di conto corrente.

 

Motivazione integrale:

FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 28 gennaio 2016, la Corte d’appello di Brescia ha respinto le impugnazioni, principale ed incidentale, proposte avverso la decisione di primo grado, la quale aveva dichiarato la nullità delle clausole sugli interessi a tasso ultralegale e sulla capitalizzazione trimestrale, condannando la banca alla restituzione della somma di Euro 8.924,16, oltre interessi legali dal 28 maggio 2007, quale importo indebitamente percepito con riguardo al contratto di conto corrente bancario intercorso fra le parti, cui erano stati applicati un tasso ultralegale e la capitalizzazione trimestrale.
La Corte, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che, ai fini del decorso della prescrizione dalla chiusura del conto corrente bancario, è necessario, ove il cliente alleghi il pagamento dell’indebito, che egli provi la natura non solutoria, ma ripristinatoria delle rimesse effettuate, in quanto egli alleghi e dimostri l’esistenza di un’apertura di credito e del relativo importo, essendo l’esistenza del contratto di apertura di credito un fatto costitutivo del diritto alla ripetizione vantato. Tuttavia, nella specie, il correntista non ha neppure specificamente indicato di quali contratti si tratterebbe, né, tantomeno, li ha provati, limitandosi al generico riferimento a saldi negativi ed agli addebiti nell’estratto conto per la causale “spese gestione fido” e “revisione fido”; mentre solo nella comparsa conclusionale ha operato deduzioni più chiare, peraltro nuove ed in ordine alle quali, in ogni caso, la mera presenza costante di saldi passivi non permette da sola di desumere l’esistenza e l’ammontare di singoli affidamenti, rendendo impossibile per il giudice di verificare la natura dei versamenti.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società, sulla base di due motivi. Resiste la banca con controricorso.
Le parti hanno, altresì, depositato la memoria di cui all’artt. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in virtù del principio secondo cui occorre presumere la natura normalmente ripristinatoria del versamento, salvo la banca non provi il contrario.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 e 2935 c.c., perché essa ha sin dall’inizio dedotto l’esistenza di un fido di fatto, mentre il contratto di apertura di credito non ha forma scritta necessaria e si poteva fondare l’accertamento circa tali elementi su altre prove indirette, quali gli estratti conto, i riassunti scalari, i report della centrale rischi, la stabilità dell’esposizione, l’entità del saldo debitore, la previsione di una commissione di massimo scoperto, la mancanza di richieste della banca, ed altro; mentre il limite dell’affidamento si può individuare nello stesso massimo scoperto consentito di fatto.
2. – I due motivi, da trattare congiuntamente in quanto intimamente connessi, sono infondati, laddove in parte sono addirittura inammissibili.
2.1. – Come palesa lo svolgimento del medesimo, ove ripetutamente assume in modo apodittico la natura solutoria delle rimesse, il ricorso mira a sottoporre alla Corte un nuovo giudizio sul fatto, precluso in sede di legittimità.
In sostanza, il ricorrente insiste nella ritenuta disponibilità, relativa ad un preteso affidamento di fatto: ma la Corte del merito ne ha risolutivamente escluso la prova.
2.2. – Né merita censura la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto decorrente la prescrizione non dalla chiusura finale del conto, ma dai singoli versamenti, in assenza di un’apertura di credito: essendosi essa pienamente conformata alla costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui le rimesse sul conto corrente dell’imprenditore sono da considerare “ripristinatorie” quando il conto stesso, all’atto della rimessa, risulti “scoperto”, onde per accertare se una rimessa del correntista sia destinata al pagamento di un proprio debito verso la banca ed abbia quindi funzione solutoria, ovvero valga solo a ripristinare la provvista sul conto corrente, occorre fare riferimento al criterio del “saldo disponibile” del conto (per tutte, Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418).
Presupponendo infatti il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione che sia intervenuto un atto giuridico definibile come “pagamento”, che l’attore pretende essere indebito, la sola annotazione di ogni singola posta di interessi che si assumono illegittimamente addebitati dalla banca al correntista è, di per sé, scarsamente significativa, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione: occorre, invece, verificare se, pendente il contratto di apertura di credito e prima della chiusura del conto, il correntista abbia effettuato quei versamenti.
Poiché la decorrenza della prescrizione dalla data del pagamento è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti, in mancanza di un’apertura di credito non può che concludersi per detto dies a quo.
In definitiva, sul punto va ribadito come, qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o “scoperto”), cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento, allora dovrà dirsi che quei versamenti integrino la nozione di “pagamento”; il contrario, quando i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, consistano in meri atti ripristinatori della provvista, pur sempre nella disponibilità del cliente.
2.3. – In ordine all’onere della prova, è opportuno chiarire come esso si atteggi nei giudizi in questione.
a) Il cliente, il quale agisce ex art. 2033 c.c., per la ripetizione dell’indebito corrisposto alla banca nel corso del rapporto di conto corrente, ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto vantato: vale a dire, a fronte dell’annotazione di poste passive sul suo conto corrente nell’assunto costituenti dazione indebita, la causa petendi dell’azione, in ragione della natura non dovuta di quegli addebiti (per l’esistenza di un’indebita capitalizzazione, interessi non consentiti, costi non concordati, e così via).
In tal senso dono plurime decisioni di questa Corte in materia di domanda di ripetizione di indebito oggettivo, secondo le quali il creditore istante è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa: quindi, la dazione e la mancanza di una causa che lo giustifichi, ovvero il venir meno di questa (cfr. Cass. 25 gennaio 2011, n. 1734; 17 marzo 2006, n. 5896; 13 novembre 2003, n. 17146).
b) A sua volta, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dalle annotazioni passive in conto, quale fatto estintivo, essa ha l’onere di allegare l’inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata.
Deve considerarsi, in proposito, che l’eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene (da ultimo, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4372 e Cass. 26 luglio 2017, n. 18581, che richiamano precedenti ulteriori, fra cui Cass. 29 luglio 2016, n. 15790; Cass. 20 gennaio 2014, n. 1064).
c) Se, a questo punto, il tempo decorso dalle annotazioni passive integri il periodo necessario per il decorso della prescrizione, diviene onere del cliente provare il fatto modificativo, consistente nell’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quei versamenti come mero ripristino della disponibilità accordata e, dunque, possa spostare l’inizio del decorso della prescrizione alla chiusura del conto. Apertura di credito che non è di per sé, come è noto, un contratto necessariamente riconnesso a quello di conto corrente.
Giova al riguardo osservare come la decisione citata dal ricorrente (Cass. 26 febbraio 2014, n. 4518, non massimata), laddove in motivazione ha statuito che “i versamenti eseguiti su conto corrente, in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens” e che “Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto”, ha quale presupposto, appunto, l’esistenza di un contratto di apertura di credito: onde il principio va ricondotto all’ambito di specie suo proprio.
Come si è in molte altre pronunce precisato, occorre dunque distinguere “a seconda che il contratto risulti affidato o meno: in caso di conto non affidato, tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie, con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente” (Cass. 24 maggio 2018, n. 12977; Cass. civ. (ord.), 22-02-2018, n. 4372).
Ne deriva che grava sull’attore in ripetizione, al fine di poter considerare detti versamenti alla stregua di meri atti di ripristino della disponibilità – come tali, non aventi lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca e, dunque, inidonei al decorso della prescrizione – l’onere di provare l’esistenza di un affidamento.
In definitiva, poiché la decorrenza della prescrizione dalla data del pagamento è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti, essa sussiste sempre in mancanza di un’apertura di credito: onde, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel pagamento come mero ripristino della disponibilità accordata.
Essendosi la corte del merito conformata al principio esposto, anche le censure in diritto proposte si palesano infondate.
3. – Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% ed agli accessori come per legge.
Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018



Rivista di Diritto Bancario Tidona - Il contenuto di questo documento potrebbe non essere aggiornato o comunque non applicabile al Suo specifico caso. Si raccomanda di consultare un avvocato esperto prima di assumere qualsiasi decisione in merito a concrete fattispecie.

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