Cassazione Civile, sez. I, sent. n. 16565 del 22 giugno 2018 (Pres. Didone, Rel. Campese)
Principio di diritto:
In tema di revocatoria fallimentare, la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno ormai consolidatosi in favore della stessa banca è revocabile, ai sensi dell’art. 67 l.fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l’eventus damni deve considerarsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, e non potendosi escludere a priori il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuatisi in seguito al passivo (cfr. Cass. 17358 del 2016, in motivazione; Cass. n. 4785 del 2010; Cass. n. 25571 del 2010; Cass. n. 7563 del 2011).
Motivazione:
RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
1. [Banca] ricorre per cassazione, affidandosi a due motivi, ulteriormente illustrati da memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 1 e resistiti dalla curatela del fallimento di R.M. e della società di fatto tra lui e D.G.M., avverso la sentenza della Corte di appello di L’Aquila del 23 aprile/15 novembre 2011, n. 1084, che, in parziale riforma della decisione di primo grado resa dal Tribunale di Teramo, dichiarò inefficace rispetto alla massa, ai sensi dell’art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., e dispose la revoca dell’operazione effettuata dalla [Banca] il 23 febbraio 1989, condannando [Banca] a rimborsare alla curatela fallimentare la somma di Euro 155.324,41, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, da commisurare al rendimento medio dei BOT con scadenza annuale emessi nel periodo di riferimento, correnti dalla data della domanda fino al soddisfo.
1.1. Per quanto qui ancora di effettivo interesse, la corte aquilana, pur affermando che, erroneamente, il giudice di prime cure aveva accolto la domanda attrice rilevando la nullità dell’atto costitutivo di pegno concesso con scrittura privata dell’8 ottobre 1995 e la inoperatività della prelazione del credito pignoratizio per mancanza dei requisiti della data certa di quell’atto e di determinazione del credito garantito, benché la curatela non avesse tempestivamente sollevato la corrispondente eccezione, nondimeno ritenne che la suddetta operazione del 23 febbraio 1989 (con la quale la filiale di (OMISSIS) del menzionato istituto di credito ebbe ad acquistare dalla società in bonis, il giorno successivo alla presentazione del ricorso per l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata, cui fece seguito quella di concordato preventivo e, poi, la dichiarazione di fallimento, i titoli (OMISSIS) al prezzo di Lire 300.750.000, mai versato nelle casse della fallita ma utilizzato per ripianare una parte del debito da quest’ultima maturato nei confronti della banca) presentasse i caratteri dell’atto estintivo del pagamento del debito pecuniario scaduto ed esigibile, revocabile ex art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., accertandone l’esistenza dei necessari presupposti.
2. Il primo motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3); insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso del giudizio, cioè circa la sussistenza del pagamento effettuato con mezzi anormali (art. 360 c.p.c., n. 5)”, censura la decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto configurabile, nella specie, l’esistenza di un pagamento effettuato con mezzi non normali, e ribadisce l’assoluta normalità di un atto estintivo di un debito effettuato dal creditore mediante il realizzo di un pegno non più revocabile.
2.1. Il secondo motivo, recante “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1223 e 1224 c.c., art. 67, comma 1, n. 2, l.fall., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) e nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, laddove la Corte di merito ha riconosciuto al Fallimento (oltre al capitale di Euro 155.324,41 ed agli interessi legali) “la rivalutazione monetaria da commisurare al rendimento medio dei BOT con scadenza annuale nel periodo di riferimento””, ascrive alla corte aquilana di aver attribuito alla curatela anche il maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, benché la stessa non lo avesse allegato, né richiesto.
3. Ritiene, pregiudizialmente, il Collegio che, malgrado il ricorso sia stato redatto, quanto all’esposizione sommaria dei fatti di causa, mediante la quasi integrale riproduzione di una serie di atti processuali di primo e secondo grado, così traducendosi, in realtà, in un’esposizione dei fatti non proprio sommaria, è comunque possibile procedere al suo esame rivelandosi, invero, sufficientemente agevole ricavarne, con chiarezza, dal suo contesto, i fatti concretamente rilevanti, così da comprendere le censure sollevate in questa sede con i motivi descritti in precedenza.
4. Il primo motivo è, nel suo complesso, inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, risultando il provvedimento impugnato conforme, nella sua corrispondente motivazione, alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di revocatoria fallimentare, la rimessa in conto corrente bancario effettuata con denaro proveniente dalla vendita di un bene costituito in pegno ormai consolidatosi in favore della stessa banca è revocabile, ai sensi dell’art. 67 l.fall., non assumendo alcun rilievo la circostanza che il ricavato della vendita sia destinato a soddisfare un credito privilegiato, in quanto l’eventus damni deve considerarsi in re ipsa, consistendo nella lesione della par condicio creditorum ricollegabile all’uscita del bene dalla massa in forza dell’atto dispositivo, e non potendosi escludere a priori il pregiudizio delle ragioni di altri creditori privilegiati, insinuatisi in seguito al passivo (cfr. Cass. 17358 del 2016, in motivazione; Cass. n. 4785 del 2010; Cass. n. 25571 del 2010; Cass. n. 7563 del 2011).
4.1. Né la ricorrente, che si limita ad invocare il superato orientamento espresso, da ultimo, da Cass. n. 26898 del 2008 (peraltro già disatteso anche dalla corte territoriale), offre convincenti argomentazioni per indurre questa Corte a mutare la più recente opinione suddetta.
5. Il secondo motivo è, invece, fondato.
5.1. Posto, invero, che l’obbligazione restitutoria, a contenuto pecuniario, che sorge in capo all’accipiens soccombente in revocatoria ex art. 67 l.fall., ha natura di debito di valuta (cfr. Cass. n. 27084 del 2011; Cass. n. 12736 del 2011), giova rimarcare, da un lato, che il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l’onere di domandare il risarcimento del “maggior danno” ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, e non può limitarsi a chiedere semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest’ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta (cfr. Cass., SU., n. 5743 del 2015. In senso conforme, si veda anche Cass. n. 22273 del 2010); dall’altro, che la rivalutazione monetaria per i debiti di valuta non spetta automaticamente, in difetto della prova del pregiudizio da parte del creditore (cfr., ex plurimis, Cass. n. 23157 del 2014; Cass. n. 5639 del 2014; Cass. n. 19437 del 2011).
5.2. Nella specie, dalla stessa sentenza oggi impugnata emerge che: i) la curatela fallimentare odierna controricorrente ebbe a chiedere, nella citazione introduttiva del presente giudizio, la condanna della banca “… al rimborso della somma di Lire 300.750.000, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 23 febbraio al saldo” (cfr. pag. 3); il giudice di prime cure aveva in tali sensi statuito (cfr. pag. 4 della medesima sentenza); iii) con il terzo motivo di gravame, la banca aveva contestato il riconoscimento, in favore della controparte, della rivalutazione monetaria in mancanza della prova del maggior danno (cfr. pag. 5); iv) la corte distrettuale, decidendo su tale motivo, e richiamati i principi di Cass., SU., n. 19499 del 2008 (e delle pronunce successive delle sezioni semplici ad essa conformi), ritenne che “il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali” (cfr. pag. 12), e che, “Poiché, come è noto, nel periodo che qui interessa il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza annuale è stato sempre superiore al saggio degli interessi legali” (cfr. pag. 13), la sentenza di primo grado doveva essere confermata, con la condanna della [Banca] a rimborsare alla curatela fallimentare, oltre alla somma di Euro 155.324,41, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria da commisurarsi “al rendimento medio dei BOT con scadenza annuale emessi nel periodo di riferimento, correnti dalla data della domanda fino al soddisfo” (cfr. dispositivo, pag. 14).
5.2.1. Appare, dunque, evidente – argomentando dalla citata Cass., SU, n. 5743 del 2015, ed utilizzandosi il medesimo passo motivazionale ivi rinvenibile – come la riportata, originaria richiesta della curatela non fosse una domanda di riconoscimento del maggior danno, ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, ma proprio una domanda di rimborso del capitale e della rivalutazione monetaria. Non era stata, dunque, invocata una somma di denaro, “oltre agli interessi ed al maggior danno da svalutazione monetaria”, come si deve nei debiti di valuta ex art. 1224 cod. civ. se si intenda essere indennizzati del maggior danno da svalutazione monetaria rispetto a quello già coperto dagli interessi legali, ma si era formulata una domanda che implicitamente, ed erroneamente, assumeva che il debito fosse di valore.
5.3. La corte aquilana, pertanto, disattendendo il descritto motivo di gravame della Banca con la motivazione di cui si è detto, ha chiaramente contraddetto i principi di cui alla citata Cass., SU., n. 5743 del 2015, finendo con l’attribuire alla curatela ivi appellata il maggior danno da svalutazione monetaria, ex art. 1224 c.c., comma 2, (sub specie di rivalutazione monetaria da calcolarsi come indicato nella sentenza oggi impugnata), malgrado l’assenza di una sua corrispondente domanda correttamente formulata.
6. In conclusione, dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso, ne va accolto il secondo, in relazione al quale la sentenza impugnata deve essere cassata, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può procedersi alla decisione della causa nel merito, ex art. 384 c.p.c., comma 2, condannandosi l’odierna ricorrente a rimborsare alla curatela fallimentare la somma di Euro 155.324,41, oltre interessi legali dalla data della domanda giudiziale fino al soddisfo.
7. La cassazione con decisione nel merito impone a questa Corte di procedere, di ufficio, quale conseguenza della pronuncia adottata, ad un nuovo regolamento delle spese processuali dei gradi di merito, nonché alla statuizione su quelle di questo giudizio di legittimità. Tenendo conto dell’evoluzione giurisprudenziale, successiva all’instaurazione della controversia, sulle diverse questioni trattate, oltre che della parziale reciproca soccombenza determinata dall’esito complessivo della lite, appare possibile la loro integrale compensazione tra le parti ex art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica apportatagli dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lettera a), risalendo l’inizio del giudizio di primo grado al settembre 1996.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso, accogliendone il secondo. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna la banca a rimborsare alla curatela fallimentare la somma di Euro 155.324,41, oltre interessi legali dalla data della domanda giudiziale fino al soddisfo. Compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 15 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2018.
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