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Tribunale di Verona, sez. III, sent. n. 1473 del 21/6/2018
Sentenza:
L’omessa o l’erronea indicazione del TAEG non incide sulla validità del contratto ai sensi dell’art. 117 TUB, ma può al più rilevare sotto il profilo della responsabilità precontrattuale, nell’ipotesi in cui venga dedotto uno specifico danno eziologicamente connesso all’inadempimento dell’obbligo informativo gravante sull’istituto concedente. Ne consegue che laddove, pur non essendo stato reso noto il TAEG, siano stati dettagliatamente indicati tutti i costi e gli oneri a carico del cliente, che, in tal modo, è stato reso edotto dell’impegno economico complessivamente derivante dall’operazione di finanziamento, alcuna violazione può in concreto ipotizzarsi.
Motivazione della decisione:
La società […] ed i soci […] hanno agito in giudizio chiedendo che, previo accertamento dell’invalidità della clausole determinative degli interessi del contratto di leasing immobiliare a tasso variabile omissis, venga dichiarata la gratuità del contratto medesimo, e che la società concedente venga condannata alla restituzione di tutte le somme indebitamente percepite.
A sostegno delle loro pretese, gli attori hanno allegato che il tasso di mora pattuito in caso di ritardato pagamento delle rate previste dal contratto sarebbe, di per sé considerato, superiore al tasso soglia; che, in ogni caso, il TEG (comprensivo degli interessi corrispettivi, moratori, nonché di ogni altro costo previsto in contratto) sarebbe superiore al tasso soglia; che si sarebbe verificato un fenomeno anatocistico sia in applicazione del piano di ammortamento alla francese sia per effetto dell’applicazione degli interessi di mora sulle rate scadute, già comprensive degli interessi corrispettivi; che nel contratto non sarebbe stato indicato il TAEG; che, infine, le clausole determinative dell’interesse corrispettivo e moratorio sarebbero nulle a causa della manipolazione del tasso EURIBOR tra il 2005 e il 2008, accertata dall’Antitrust.
Si è costituita in giudizio la società concedente, chiedendo il rigetto delle domande attoree.
A seguito dell’appendice scritta, è stata rigettata, in quanto esplorativa, la richiesta di c.t.u. svolta da parte attrice e la causa è stata rinviata alla data odierna per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale.
Le pretese avanzate dagli attori non possono essere accolte per tutti i motivi qui di seguito esposti.
È innanzitutto infondata la doglianza secondo la quale gli interessi moratori pattuiti in contratto supererebbero il tasso soglia usura e non sarebbero, pertanto, dovuti dal debitore in applicazione dell’art. 1815, comma 2, c. c.
Ritiene, infatti, questo Giudice che tale tipo di interessi, a differenza di quelli corrispettivi, pur essendo passibile – in ossequio a quanto enunciato da Cass. 350/2013 – di un controllo di usurarietà sul piano soggettivo (controllo che, in ogni caso, esula dall’oggetto del presente giudizio, non essendo stati nemmeno allegati dagli attori i presupposti atti a ravvisare siffatto tipo di usura), non possa, allo stato, essere viceversa sottoposto al vaglio di usurarietà oggettiva ex l. 108/1996.
Si deve invero, a questo proposito, osservare che una verifica in termini oggettivi del carattere usurario degli interessi moratori risulta oggi preclusa dalla mancanza di un tasso soglia, rilevato trimestralmente dalla Banca d’Italia secondo le prescrizioni impartite dal Ministero delle Finanze, che possa fungere da parametro di liceità, in applicazione dell’art. 2 l. 108/1996.
È, infatti, noto che le rilevazioni effettuate dalla Banca d’Italia riguardano unicamente gli interessi corrispettivi e che, di contro, alcuna rilevazione ufficiale è stata sino ad ora effettuata con riferimento agli interessi di mora, sicché la pretesa di confrontare le pattuizioni relative agli interessi moratori con i tassi soglia determinati sulla base di statistiche aventi ad oggetto i soli tassi corrispettivi non potrebbe che rivelarsi del tutto arbitraria ed errata.
I due tipi di interessi considerati, infatti, si differenziano profondamente nelle loro funzioni (risarcitoria per i moratori, e di prezzo per l’accesso al credito per i corrispettivi), con la conseguenza che i tassi medi applicati dal sistema bancario e finanziario a titolo di corrispettivo per l’erogazione del denaro sono fatalmente destinati a differire rispetto a quelli mediamente applicati a titolo di liquidazione forfettaria del danno da ritardo, i quali, come tali, non posso che essere pattuiti tenendo in considerazione variabili ed elementi ulteriori rispetto a quella rappresentata dal mero costo del denaro.
La profonda disomogeneità dei parametri presi in considerazione (i quali, pur essendo accomunati dalla loro natura di obbligazione pecuniaria accessoria, differiscono profondamente, come detto, per la causa che li determina) impedisce, dunque, di ritenere analogicamente applicabile il TEGM – e quindi il tasso soglia – determinato per gli interessi corrispettivi pure agli interessi moratori, sino a che il Ministero delle Finanze non avrà commissionato alla Banca d’Italia una rilevazione specifica del TEGM per gli interessi di mora (si vedano, in questo senso, pure Trib. Milano 5279/2016; Trib. Milano 13719/2016).
Passando a considerare la doglianza secondo cui la sommatoria tra il tasso convenzionalmente pattuito per gli interessi corrispettivi, quello stabilito per gli interessi moratori e le altre voci di costo supererebbe il tasso soglia usura, la stessa deve ritenersi infondata, giacché muove dall’erronea premessa secondo cui l’usurarietà del contratto deve essere accertata sommando i due tipi di interessi sino a qui considerati.
A questo proposito, è sufficiente infatti osservare che la tesi invocata dagli attori si scontra irrimediabilmente con la regola di diritto positivo secondo cui gli interessi moratori giammai si aggiungono a quelli corrispettivi, bensì si sostituiscono a questi ultimi dal giorno della mora, alla luce di quanto disposto dall’art. 1224 c.c. (cfr., ex multiis, Trib. Verona 805/2016; Trib. Verona 1070/2015; Trib. Milano 4016/2016).
Alla luce delle considerazioni sino a qui svolte, nonché della circostanza che il tasso di interesse corrispettivo convenzionalmente pattuito (3,989%) è, invece, per stessa ammissione di parte attrice (si veda p. 19 della perizia tecnica prodotta in atti), di gran lunga inferiore al tasso soglia rilevato del trimestre precedente alla conclusione del contratto, pari all’ 8,12%, si deve escludere che il contratto oggetto di causa sia connotato da profili di usurarietà.
Nemmeno la doglianza attorea relativa al verificarsi di un fenomeno anatocistico, vietato dall’ordinamento, per effetto dell’applicazione degli interessi di mora sulle rate scadute e non pagate, già comprensive di una quota di interessi, merita accoglimento.
Sebbene, infatti, la pretesa della società di leasing di conteggiare interessi sulla rata rimasta insoluta potrebbe astrattamente integrare il fenomeno anatocistico lamentato dagli attori, in violazione del principio sancito dall’art. 1283 c.c., deve nondimeno evidenziarsi che dapprima l’art. 3 della Delibera CICR del 9.2.2000 (disposizione che non può ritenersi essere stata abrogata dall’art. 120 TUB, nel testo introdotto dalla 1. 417/2013, non essendo quest’ultima norma mai divenuta immediatamente operativa, in assenza della relativa delibera CICR di attuazione) e, da ultimo, tanto il comma 2 dell’art. 120 TUB, come modificato dall’art. 17bis del DL 18/2016, convertito nella l. 49/2016, quanto l’art. 3 della successiva delibera CICR del 3.8.2016 hanno espressamente consentito – in deroga al disposto dell’art. 1283 c.c. – l’applicazione di interessi moratori sugli interessi corrispettivi già scaduti.
L’art. 3 della delibera CICR del 2000 prevedeva, infatti, la possibilità che su ciascuna rata di rimborso di un prestito potessero essere calcolati gli interessi a decorrere dalla data di scadenza purché:
a) si trattasse di rapporto instaurato successivamente al 22.4.2000;
b) il contratto contenesse un’apposita clausola che, per il caso di inadempimento di una singola rata, consentisse di applicare gli interessi di mora sull’importo complessivamente scaduto;
c) che tale clausola fosse stata specificamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 6 della delibera medesima.
La lett. b) del comma 2 del nuovo art. 120 TUB, poi, espressamente stabilisce che “gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora”, e l’art. 3, comma 1, della delibera attuativa CICR 3.8.2016 conferma che “nelle operazioni indicate dall’art. 2, comma 1, ivi compresi i finanziamenti a valere su carte di credito, gli interessi debitori maturati non possono produrre interessi, salvo quelli di mora”.
Dalla regolamentazione primaria e secondaria testé richiamata è possibile dedurre, quindi, l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un’espressa eccezione al divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., in virtù della quale gli interessi corrispettivi già scaduti possono produrre nuovi interessi, purché abbiano natura moratoria e siano dunque caratterizzati dalla funzione di liquidare convenzionalmente il danno da ritardo.
Ebbene, nel caso oggi esaminato le parti hanno previsto, in un’apposita clausola (art. 11) del contratto originario del 28.12.2004 (clausola in vigore anche a seguito della sottoscrizione della scrittura privata integrativa, per effetto del richiamo alle pattuizioni contenute nel contratto originaro), specificamente approvata dalla società debitrice, che l’utilizzatore debba corrispondere al concedente gli interessi di mora in caso di ritardato pagamento dei canoni.
Del tutto infondata è altresì la doglianza relativa al fenomeno anatocistico asseritamente verificatosi per effetto della pattuizione di un piano di ammortamento alla francese.
A prescindere, infatti, dalla astratta configurabilità, in diritto, di un effetto anatocistico legato ad un piano di ammortamento con metodo di calcolo c.d. alla francese, della quale vi è più di una valida ragione per dubitare, il profilo di illegittimità sollevato dagli attori non merita nemmeno di essere vagliato nel merito, essendo la doglianza del tutto carente già solo sotto il profilo assertivo.
Per un verso, infatti, dai documenti prodotti in giudizio, non è dato comprendere in modo univoco come siano composte (in relazione alla quota di capitale e di interessi) le rate che la debitrice deve corrispondere alla società di leasing, e, per altro verso, la stessa perizia di parte prodotta dagli attori fonda le proprie deduzioni su una ricostruzione meramente ipotetica del criterio di calcolo degli interessi con metodo c.d. alla francese, alternativa rispetto a quella derivante applicando il metodo c.d. all’italiana, finendo così per prospettare come una semplice possibilità – formulata in termini puramente dubitativi – l’avvenuta corresponsione di interessi anatocistici.
Per quanto riguarda, poi, la mancata indicazione in contratto del TAEG, merita di essere condiviso l’orientamento sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, che, muovendo dalla considerazione secondo cui esso non costituisce un tasso di interesse o una specifica condizione economica da applicare al contratto, ma svolge unicamente una funzione informativa finalizzata a mettere il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi, osserva che l’omessa o l’erronea indicazione del TAEG non incide sulla validità del contratto ai sensi dell’art. 117 TUB, ma può al più rilevare sotto il profilo della responsabilità precontrattuale, nell’ipotesi in cui venga dedotto uno specifico danno eziologicamente connesso all’inadempimento dell’obbligo informativo gravante sull’istituto concedente (si veda, da ultimo, Trib. Roma 121/2018).
Ne consegue che laddove, pur non essendo stato reso noto il TAEG, siano stati dettagliatamente indicati – come è accaduto nel caso di specie – tutti i costi e gli oneri a carico del cliente, che, in tal modo, è stato reso edotto dell’impegno economico complessivamente derivante dall’operazione di finanziamento, alcuna violazione può in concreto ipotizzarsi.
Resta, infine, da vagliare, l’assunto attoreo secondo cui le clausole determinative dell’interesse corrispettivo e moratorio sarebbero nulle a causa della manipolazione del tasso EURIBOR effettuata tra il 2005 e il 2008 da parte di taluni istituti di credito europei.
Tale doglianza non merita accoglimento.
Gli attori deducono, infatti, che l’illiceità del parametro di indicizzazione degli interessi pattuiti in contratto, derivante da un’intesa restrittiva della concorrenza – cui non ha partecipato la società convenuta (si veda la sentenza dell’Antitrust prodotta da parte attrice) -, avrebbe determinato la nullità per indeterminatezza e per illiceità delle clausole relative agli interessi, che, nel contrato stipulato a valle tra la società di leasing e la società debitrice, hanno preso a riferimento tale parametro.
Del tutto infondato si palesa innanzitutto l’assunto secondo il quale la clausola relativa agli interessi convenzionali di mora sarebbe indeterminata, solo che si consideri come il contratto di leasing àncora il tasso di mora a parametri compiutamente determinabili ex ante (EURIBOR a 3 mesi maggiorato di 9 punti percentuali), sicché la clausola in parola soddisfa senz’altro il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto, richiesto dall’art. 1346 c.c. in alternativa a quello della determinatezza, ai fini della validità del contratto medesimo.
Non ricorre, poi, nessun’altra ipotesi, tra quelle contemplate dall’art. 1418 c.c., che possa indurre a qualificare come nulla la clausola in esame.
Non è, infatti, ravvisabile una fattispecie di nullità testuale, giacché il comma 2 dell’art. 101 TFUE sancisce espressamente la sola nullità degli accordi concorrenziali tra imprese elencati al comma 1, e non anche dei contratti stipulati, a valle, tra le imprese e gli utenti finali.
Né sussiste un’ipotesi di nullità virtuale della clausola per contrasto con norme imperative ai sensi del comma 1 dell’art. 1418 c.c.: tale forma di nullità può dirsi, infatti, integrata soltanto quando il contenuto del contratto violi norme inderogabili, che vietano singole clausole o la stipulazione stessa del contratto (in assoluto o a determinate condizioni).
Nel caso di specie, la clausola determinativa degli interessi predisposta dal concedente, lungi dal porsi di per sé in contrasto con norme imperative, si è limitata a prendere a riferimento un parametro poi rivelatosi essere illecito, alla determinazione della cui illiceità non ha, peraltro, nemmeno concorso il comportamento dell’istituto convenuto.
A fronte di una situazione come quella oggi in esame, il rimedio predisposto dall’ordinamento in favore del contraente a valle non è, dunque, quello della nullità parziale del contratto con riguardo alla clausola determinativa degli interessi (nullità che, oltre a non essere giuridicamente configurabile, producendo la gratuità del contratto, finirebbe per penalizzare ingiustamente un soggetto – il concedente del tutto estraneo, al pari dell’utilizzatore, all’intesa anti concorrenziale), bensì quello del risarcimento del danno che il contraente, che assume essere stato leso per effetto dell’applicazione di tassi di interesse più elevati, può esercitare nei confronti delle imprese cui l’intesa distorsiva della concorrenza è imputabile.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono regolate come in dispositivo, sulla base dei valori medi previsti dal DM 55/14 per le cause di valore indeterminabile, diminuite per la fase istruttoria, non essendo stata svolta alcuna attività.
P.Q.M.
Il Tribunale di Verona, definitivamente decidendo, rigettata ogni contraria istanza, domanda ed eccezione, così provvede:
rigetta le domande avanzate in giudizio dagli attori;
condanna parte attrice a rimborsare a parte convenuta le spese di lite, che si liquidano in E 12.000,00 per compensi, oltre rimborso forfettario al 15%, IVA come per legge e CPA.
Verona, 21/06/2018
Depositata in cancelleria il 21/06/2018.
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