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Di Valerio Sangiovanni
Avvocato, Rechtsanwalt e Dottore di ricerca in Diritto commerciale
3 dicembre 2012
Si riproduce per gentile concessione dell’autore Valerio Sangiovanni e dell’editore Utet Giuridica la nota a sentenza già apparsa in Obbligazioni e Contratti, 2012, pp. 595-602
Tribunale di Palermo, sez. III, 14 febbraio 2012, n. 684
G.U. Monfredi
Obbligazioni pecuniarie – Anatocismo – Usi contrari – Natura di usi normativi – Diritto alla ripetizione – Prescrizione – Termine di decorrenza
Per i contratti bancari stipulati prima dell’entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000 deve escludersi l’esistenza di un uso normativo idoneo a derogare al precetto dell’art. 1283 c.c., con la conseguenza che è nulla – anche se oggetto di espressa pattuizione – la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, con diritto per il cliente di ripetere i pagamenti già effettuati ovvero di rifiutare legittimamente la prestazione degli interessi che, in virtù della previsione contrattuale contraria all’art. 1283 c.c., sarebbero ancora dovuti e risultano computati dalla banca.
SINTESI
a) L’anatocismo bancario
La sentenza in commento si occupa dell’annoso problema dell’anatocismo bancario. Le banche sono solite prevedere nei contratti il diritto di capitalizzare a determinate scadenze gli interessi. Il problema che si è posto nel corso degli anni è se la relativa clausola sia legittima.
b) La nullità della clausola
La soluzione fatta propria dai più recenti orientamenti giurisprudenziali è nel senso che la clausola di capitalizzazione sia nulla. L’art. 1283 c.c., difatti, consente l’apposizione di una clausola che preveda l’anatocismo in presenza di un uso. L’uso d’inserire una pattuizione del genere nei contratti (in particolare nelle norme uniformi bancarie) è stato però reputato dalla Corte di cassazione come un mero uso negoziale, e non come un uso normativo. Gli usi negoziali non sono in grado di derogare al divieto dell’art. 1283 c.c.
c) La prescrizione del diritto alla ripetizione
Affermata la nullità della clausola di capitalizzazione, il cliente bancario può pretendere – secondo la regola generale (art. 2033 c.c.) – la restituzione degli interessi anatocistici che sono stati illegittimamente addebitati. La sentenza in esame si sofferma su tale aspetto, pervenendo al risultato che il termine di prescrizione (decennale) decorre non tanto dai singoli addebiti in conto corrente quanto piuttosto dal momento in cui il conto corrente viene chiuso.
SOMMARIO:
1. Introduzione – 2. L’art. 1283 c.c. – 3. Usi negoziali e usi normativi – 4. La nullità della clausola sulla capitalizzazione degli interessi – 5. La prescrizione della pretesa del cliente bancario.
1. Introduzione
Le evoluzioni giurisprudenziali e normative, che si susseguono ormai da decenni, dimostrano l’estrema sensibilità del tema “anatocismo” per il mondo bancario . Risultando, come ormai afferma la giurisprudenza, l’illegittimità delle clausole di capitalizzazione degli interessi inserite nei contratti prima della riforma del 1999, le banche convenute in giudizio sono costrette a restituire le somme ingiustamente addebitate. Se inoltre, come statuiscono i più recenti orientamenti giurisprudenziali, la prescrizione opera solo a far tempo dalla chiusura del conto, ancora oggi è possibile – in diversi casi – ottenere la condanna alla restituzione degli interessi anatocistici. Gli istituti di credito temono pertanto di vedersi esposti a un elevato numero di citazioni in giudizio. Generalmente le somme per le quali le banche vengono condannate non sono particolarmente elevate; tuttavia l’estrema diffusione dell’anatocismo implica che frequentemente le controparti degli istituti di credito possono ancor’oggi aspirare alla restituzione di quanto illegittimamente addebitato. Non è allora un caso che la sentenza del Tribunale di Palermo in commento torni sul tema dell’anatocismo nei contratti bancari, occupandosi – sotto un primo profilo – dell’invalidità della clausola di capitalizzazione nonché – sotto un secondo profilo – dell’identificazione del momento di decorrenza del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione di quanto ingiustamente addebitato al cliente.
In via d’introduzione è utile rammentare che per anatocismo si intende la previsione contrattuale in base alla quale gli interessi che la controparte della banca è tenuta a pagare in forza di un determinato rapporto vengono a un certo punto “capitalizzati” (cioè considerati non più come interessi, ma come capitale), con la conseguenza che anche su di essi possono essere addebitati interessi. Tale meccanismo di capitalizzazione può operare a diverse scadenze, dovendosi distinguere fra capitalizzazione trimestrale, semestrale o annuale. Articolate sono le ragioni per cui la legge tende a ostacolare la previsione di interessi anatocistici, e su di esse non potremo soffermarci in questa nota. Basterà accennare a un certo sfavore del legislatore per la c.d. “fecondità” del danaro, che può creare un eccessivo onere finanziario in capo al debitore e che – talvolta – sfocia in fenomeni che si avvicinano all’usura.
La materia dell’anatocismo è attualmente disciplinata in tre testi: il codice civile in via generale, il t.u.b. per i profili bancari e una deliberazione CICR attuativa delle disposizioni di legge. L’anatocismo è regolato anzitutto nell’art. 1283 c.c., secondo cui, in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi. Nel t.u.b. vi è una delega al CICR, il quale viene incaricato di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori (art. 120, 2° co., t.u.b.) . La normativa CICR di riferimento è la delibera 9 febbraio 2000, recante “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria”.
Per un’appropriata comprensione delle problematiche attinenti all’anatocismo, bisogna operare una distinzione di fondo fra i contratti conclusi fino al 30.6.2000 e i contratti conclusi successivamente a tale data. Mentre per un lungo periodo di tempo (anni ottanta e novanta) l’anatocismo era stato sostanzialmente accettato dalla giurisprudenza, la quale non aveva sindacato il fatto che la clausola fosse inserita nelle norme bancarie uniformi e quindi in tutti i moduli predisposti dagli istituti di credito, nel corso del 1999 si sono succedute alcune sentenze, le quali – innovando il precedente indirizzo giurisprudenziale – hanno affermato la nullità della clausola di capitalizzazione.
Nel medesimo anno è intervenuto il legislatore: il d.lgs. n. 342/1999 ha espressamente dichiarato legittime le clausole di capitalizzazione, demandando a una deliberazione CICR l’attuazione degli aspetti di dettaglio. Vi è però stato un successivo intervento della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 25, 3° co., d.lgs. n. 342/1999 , disposizione che prevedeva che le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera CICR 9.2.2000, fossero valide ed efficaci fino a tale data . Si è pertanto tentata una sanatoria ex lege delle clausole contrattuali di capitalizzazione. La Corte costituzionale ha tuttavia dichiarato l’illegittimità costituzionale di detta comma (anche se solo per eccesso di delega, senza entrare nel merito della questione), lasciando aperte le porte alla contestazione di nullità delle clausole di capitalizzazione contenute nei vecchi contratti.
Il contenzioso ancora in corso davanti ai giudici italiani, come del resto dimostra la sentenza in commento, concerne i contratti anteriori al 30.6.2000. Come si può immaginare, il fatto che la magistratura si trovi ad affrontare questioni così risalenti nel tempo determina alcuni problemi particolari, sia di carattere operativo sia di carattere giuridico.
Dal punto di vista operativo, nella prassi può capitare che le società che hanno subito addebiti anatocistici non siano più in possesso della relativa documentazione (o ne posseggano solo una parte), circostanza che può rendere difficile la prova degli addebiti e del loro ammontare. Se solo si pone attenzione alla sentenza in esame, si può notare come si sia dovuto ricostruire gli addebiti di interessi anatocistici dal 1980 (!) al 2000. Poiché nei primi anni ottanta gli strumenti informatici non erano diffusi, il recupero della documentazione può risultare difficile anche per questa ragione.
Oltre che per la complessa produzione di documenti in giudizio, le azioni intentate dai clienti contro le banche in materia di anatocismo possono risultare difficoltose nel calcolo degli interessi ingiustamente addebitati. Tali addebiti sono avvenuti talvolta per un lungo arco di tempo, e molto addietro nel passato. La complessità tecnica fa sorgere quasi inevitabilmente l’esigenza di rivolgersi a un c.t.u. per l’esperimento delle necessarie verifiche. I quesiti devono essere ben formulati dal giudice per consentire al c.t.u. di operare in modo efficace. Se i quesiti non sono particolarmente circostanziati, gli stessi c.t.u. possono trovare difficoltà nell’interpretare il pensiero della Corte di cassazione e nel dare corretta applicazione ai principi enunciati dalla Suprema corte. La complessità nel calcolo degli interessi (e la discrezionalità nei criteri utilizzabili dai consulenti tecnici) fa sì che talvolta gli esiti delle consulenze tecniche mostrino significative divergenze fra il c.t.u. e i c.t.p. A ciò si aggiunga che l’intervento del c.t.u., e talvolta di c.t.p., fa lievitare i costi del processo.
Sotto un profilo più strettamente giuridico, considerato che – dall’entrata in vigore della nuova normativa è passata una dozzina d’anni – spesso i tribunali si trovano ad affrontare la questione della prescrizione delle pretese avanzate dai clienti bancari. Anche la sentenza in commento si occupa di simili problematiche, negando peraltro che essa si sia verificata.
Nel nostro commento ci occuperemo della situazione vigente prima del 30.6.2000 (ma ancora attuale), considerato che il Tribunale di Palermo si è occupato di un contratto concluso prima di tale data.
2. L’art. 1283 c.c.
L’art. 1283 c.c. pone alcuni limiti alla possibilità che gli interessi producano a loro volta interessi. La prima condizione è che gli interessi siano scaduti. La Corte di cassazione ha riaffermato il principio di legge, statuendo che il giudice può condannare al pagamento di interessi su interessi solo se si sia accertato che alla data della scadenza giudiziale erano già scaduti gli interessi principali (sui quali calcolare gli interessi secondari) e cioè che il debito era esigibile e che il creditore era in mora . Ai fini della determinazione del momento in cui gli interessi scadono, la situazione può complicarsi nei casi in cui ogni rata con la quale si paga un debito contiene sia una parte di capitale sia una parte d’interessi. In queste fattispecie il mancato pagamento di una rata alla scadenza convenuta comporta che viene a scadenza anche la quota d’interessi inserita in tale rata. A questo riguardo la Corte di cassazione ha affermato, in tema di credito fondiario , che il mancato pagamento di una rata di mutuo comporta l’obbligo di corrispondere gli interessi di mora sull’intera rata, compresa la parte che rappresenta gli interessi di ammortamento.
La legge specifica altresì che la produzione di interessi può avvenire solo dal giorno della domanda giudiziale. In linea di principio la banca si trova pertanto costretta ad agire in giudizio per ottenere gli interessi anatocistici. Inoltre il momento del decorso di tali interessi è, appunto, quello della domanda giudiziale (e non un momento precedente). Agli interessi anatocistici fatti valere in giudizio, e dopo la presentazione di apposita domanda, ci si riferisce talvolta con l’espressione di “anatocismo giudiziale”.
In alternativa rispetto al caso appena esaminato (interessi scaduti a partire dalla domanda giudiziale), la legge prevede che gli interessi su interessi possono essere pretesi anche per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza (c.d. “anatocismo convenzionale”). Anche in questa ipotesi rimane ferma la necessità della intervenuta scadenza degli interessi, ma vi è un accordo fra le parti che legittima l’addebito. La legge, nella specificare che la convenzione deve essere posteriore alla scadenza, mira a salvaguardare la libertà di determinazione del debitore, al quale non può essere imposta fin dall’inizio una clausola così gravosa. Al riguardo la Corte di cassazione ha affermato che non si sottrae al divieto dell’anatocismo dettato dall’art. 1283 c.c. l’apposita convenzione che, stipulata successivamente a un contratto di garanzia e relativa alle obbligazioni derivanti da quel rapporto, preveda l’obbligo per la parte debitrice di corrispondere anche gli interessi sugli interessi che matureranno in futuro, in quanto è idonea a sottrarsi a tale divieto solo la convenzione che sia stata stipulata successivamente alla scadenza degli interessi.
La legge specifica infine che, in ambedue i casi (interessi scaduti dalla domanda giudiziale oppure per effetto di convenzione posteriore), si deve trattare di interessi dovuti per almeno sei mesi.
3. Usi negoziali e usi normativi
La particolarità dell’art. 1283 c.c., sulla quale si concentra il contenzioso, è che vengono fatti salvi gli “usi contrari”: in presenza di usi contrari non operano i limiti all’anatocismo che abbiamo appena analizzato . La giurisprudenza degli ultimi anni mostra che al centro delle controversie in materia di anatocismo vi è frequentemente l’eccezione delle banche di sussistenza di un uso contrario, che legittimerebbe gli interessi su interessi . Gli interventi giurisprudenziali si sono concentrati sulla natura degli usi di cui discorre l’art. 1283 c.c.
La distinzione da operarsi in generale è quella fra uso negoziale e uso normativo. L’uso negoziale è la fattispecie indicata nell’art. 1340 c.c., secondo cui le clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti. L’uso normativo è invece la diversa ipotesi di cui si trova traccia nelle preleggi. In questa sede, dopo l’affermazione che gli usi sono fonti del diritto (art. 1 preleggi), si stabilisce che nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti gli usi hanno efficacia solo in quanto sono da essi richiamati (art. 8, 1° co., preleggi); inoltre viene statuito che gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati si presumono esistenti fino a prova contraria (art. 9 preleggi). A differenza degli usi negoziali, gli usi normativi sono vere e proprie norme. Secondo le indicazioni della giurisprudenza, gli elementi dell’uso normativo sono due: l’uno, esteriore, costituito da un mero fatto consistente nella ripetizione uniforme e costante di un dato comportamento; l’altro, psicologico, consistente nella convinzione di osservare, così operando, una norma giuridica . L’uso normativo opera automaticamente, mentre l’uso negoziale, in quanto operante sullo stesso piano delle clausole contrattuali, non può considerarsi inserito nel contratto se non in virtù di un’espressa o implicita manifestazione di volontà.
La questione della natura degli usi concernenti l’anatocismo è stata da sempre dibattuta, come dimostra la presenza di sentenze contrastanti sul punto. Un primo indirizzo giurisprudenziale, maggioritario fino al 1999, li ha qualificati come usi normativi. A titolo di esempio secondo una sentenza della Corte di cassazione del 1988 gli usi che consentono l’anatocismo, richiamati dall’art. 1283 c.c., sono usi normativi, in quanto operano sullo stesso piano di tale norma come espressa eccezione al principio generale ivi affermato, onde essi hanno l’identica natura delle regole dettate dal legislatore e il giudice può applicarli attingendone comunque la conoscenza (iura novit curia), con la conseguenza che anche in sede di legittimità è ammessa un’indagine diretta sugli usi in questione e, una volta accertata l’esistenza, una decisione sulla base dei medesimi, indipendentemente dalle allegazioni delle parti e dalle considerazioni svolte in proposito dai giudici di merito . Al contrario: un secondo orientamento giurisprudenziale, minoritario fino al 1999, ha qualificato gli usi in materia anatocistica come negoziali. In questa direzione si può citare – sempre a titolo esemplificativo – una sentenza della Corte di cassazione del 1999 : secondo questo intervento dei giudici la clausola di un contratto bancario, che preveda la capitalizzazione degli interessi dovuti dal cliente, deve reputarsi nulla, in quanto si basa su un uso negoziale e non su un uso normativo come esige l’art. 1283 c.c. L’inserimento della clausola nel contratto, in conformità alle norme bancarie uniformi predisposte dall’ABI, non esclude la suddetta nullità, poiché a tali norme deve riconoscersi soltanto il carattere di usi negoziali e non quello di usi normativi.
Al fine di porre termine ai contrasti giurisprudenziali, si è pronunciata – nel 2004 – la Corte di cassazione a Sezioni Unite , con una decisione di grande rilievo per lo svilupparsi di tutta la successiva giurisprudenza e non a caso citata nella sentenza in commento. Le Sezioni Unite affermano che gli “usi contrari” suscettibili di derogare al precetto dell’art. 1283 c.c. sono veri e propri “usi normativi”, consistenti nella ripetizione generale, uniforme, costante e pubblica di un determinato comportamento (usus), accompagnato dalla convinzione che si tratta di comportamento (non dipendente da un mero arbitrio soggettivo ma) giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme a una norma che già esiste o che si ritiene debba far parte dell’ordinamento giuridico (opinio). Secondo la Cassazione, dalla comune esperienza emerge che i clienti si sono nel tempo adeguati all’inserimento della clausola anatocistica non in quanto ritenuta conforme a norme di diritto oggettivo già esistenti o che sarebbe auspicabile fossero esistenti nell’ordinamento, ma in quanto comprese nei moduli predisposti dagli istituti di credito, in conformità con le direttive dell’associazione di categoria, insuscettibili di negoziazione individuale e la cui sottoscrizione costituiva al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari.
Si tratta di un atteggiamento psicologico lontano dalla spontanea adesione a un precetto giuridico, se non altro per l’evidente disparità di trattamento che la clausola stessa introduce tra interessi dovuti dalla banca e interessi dovuti dal cliente. Secondo le Sezioni Unite, l’accertamento della qualità di uso negoziale della prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi, e quindi della nullità delle clausole contrattuali relative, vale anche per il passato, non potendosi ritenere che, alla luce di precedenti indirizzi giurisprudenziali, essa avesse la natura, diversa, di uso normativo idoneo a costituire valida deroga alla regola codicistica della capitalizzazione semestrale.
4. La nullità della clausola sulla capitalizzazione degli interessi
Sulla scorta della decisione delle Sezioni Unite, l’affermazione più significativa contenuta nella sentenza del Tribunale di Palermo è che, anteriormente alla riforma del 2000, le clausole contrattuali che prevedevano la capitalizzazione degli interessi erano contrarie a legge e, come tali, nulle. Il principio può ormai considerarsi consolidato, essendo stato ripetuto in più occasioni dalla Corte di cassazione.
A ben vedere l’art. 1283 c.c. non specifica la sanzione da applicarsi alla clausola che prevede interessi anatocistici. Letteralmente la disposizione si esprime nel senso che gli interessi scaduti “possono” produrre interessi solo a certe condizioni. Tale espressione implica che, in assenza dei relativi presupposti di legge, gli interessi scaduti “non possono” produrre interessi. Si tratta di un divieto fissato dalla legge e il contratto che contiene una clausola in contrasto con tale divieto si pone contro la legge.
Non ricorre però una fattispecie di nullità testuale (art. 1418, 3° co., c.c.), in quanto la legge non enuncia espressamente la sanzione della nullità quale conseguenza della violazione della disposizione.
Va allora valutato se la clausola che prevede interessi anatocistici non configuri un’ipotesi di nullità virtuale, per contrarietà a disposizione imperativa (art. 1418, 1° co., c.c.) . Secondo la Corte di cassazione l’ipotesi di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative si verifica, salvo che la legge disponga altrimenti, indipendentemente da un’espressa comminatoria della sanzione di nullità dei singoli casi. Infatti, la norma dell’art. 1418, 1° co., c.c. esprime un principio generale, rivolta a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione di precetti imperativi non si accompagna una specifica previsione di nullità . In tali casi, continua la Cassazione, compito del giudice, ai fini della declaratoria di nullità, è solo quello di stabilire se la norma o le norme contraddette dall’autonomia privata abbiano carattere imperativo, siano, cioè, dettate a tutela dell’interesse pubblico. Nel caso degli interessi anatocistici, bisogna rilevare che le sentenze che hanno affrontato la questione della possibile nullità della relativa clausola contrattuale non si sono generalmente occupate di accertare l’imperatività del disposto dell’art. 1283 c.c., dandola per scontata.
Il rinvio agli usi, nella tecnica legislativa del codice civile, è piuttosto frequente. Tuttavia, pur esistendo numerose disposizioni che richiamano gli usi, in diversi casi – oltre agli usi – vengono espressamente fatti salvi i patti contrari. A titolo di esempio si prenda il caso del termine essenziale: è possibile chiedere l’esecuzione oltre il termine dandone notizia all’altra parte, “salvo patto o uso contrario” (art. 1457, 1° co., c.c.). Oppure si pensi alla disposizione sul luogo di consegna della cosa mobile nella vendita, identificato nel luogo dove la cosa si trovava al tempo della vendita, se le parti ne erano a conoscenza, “in mancanza di patto o di uso contrario” (art. 1510, 1° co., c.c.). Quando il legislatore fa salvo sia il patto sia l’uso contrario, la deroga alla disposizione di legge può avvenire anche sulla base di un accordo fra le parti. Viceversa, nel caso dell’anatocismo, solo gli usi possono derogare al relativo divieto. Questa circostanza pare confermare l’inderogabilità del divieto di anatocismo.
Bisogna poi accennare agli effetti della nullità. Al riguardo va subito osservato che la nullità della singola clausola non determina nullità dell’intero contratto. Secondo la disposizione generale la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (art. 1419, 1° co., c.c.). Si potrebbe forse argomentare nel senso che le banche, se avessero saputo di non poter ottenere gli interessi anatocistici, non avrebbero concluso il contratto, che sarebbe risultato per esse eccessivamente sfavorevole dal punto di vista economico. È tuttavia difficile che un’argomentazione del genere riesca a fare breccia, in considerazione del fatto che la motivazione (economica) principale per cui le banche concedono credito è il conseguimento degli interessi semplici, rispetto ai quali gli interessi anatocistici si pongono solo come un elemento addizionale, economicamente non irrilevante, ma verosimilmente non decisivo ai fini della conclusione del contratto.
Escluso che si possa produrre la nullità dell’intero contratto per effetto della previsione anatocistica, la clausola nulla (quella sulla capitalizzazione degli interessi) si considera come non apposta, con la conseguenza che è improduttiva di effetti. Le prestazioni che sono già state effettuate sulla base della pattuizione nulla vanno restituite. Di conseguenza le azioni in giudizio in materia di anatocismo terminano tipicamente con la condanna della banca alla restituzione degli interessi indebitamente percepiti. Più precisamente si verifica un indebito oggettivo: secondo la previsione di legge, chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato (art. 2033 c.c.).
Recentemente le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno specificato che qualora, nell’ambito del contratto di conto corrente bancario, venga dichiarata la nullità della previsione di capitalizzazione trimestrale degli interessi, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c., gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna . Con questa statuizione si chiarisce che sono illegittime tutte le clausole che prevedono la capitalizzazione, indipendentemente dalla circostanza che essa operi trimestralmente, semestralmente oppure annualmente.
Con la declaratoria di nullità, la clausola sulla capitalizzazione viene definitivamente espunta dal contratto e impossibilitata a produrre effetti ex tunc. Ciò non significa peraltro che la banca non fosse legittimata ad applicare alcun interesse. Andrà pertanto operata una distinzione fra interessi legittimi e interessi illegittimi (quelli anatocistici), se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica per differenziare fra tali tipi di interessi. Gli interessi legittimamente addebitati non potranno essere chiesti in restituzione.
Infine, dal punto di vista processuale si può osservare che la nullità – secondo la regola generale (art. 1421 c.c.) – può essere rilevata d’ufficio dal giudice . In un intervento molto recente, la Corte di cassazione ha ribadito che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una banca nei confronti del correntista, la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente sul saldo passivo, in quanto stipulata in violazione dell’art. 1283 c.c., è rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c., anche in sede di gravame, qualora vi sia contestazione – ancorché per ragioni diverse – sul titolo posto a fondamento della domanda degli interessi anatocistici, rientrando nei compiti del giudice l’indagine in ordine alla sussistenza delle condizioni dell’azione .
5. La prescrizione della pretesa del cliente bancario
Un altro importante aspetto, trattato nella sentenza in commento, concerne la prescrizione del diritto del cliente a ripetere le somme illegittimamente addebitate dalla banca a titolo di interessi anatocistici . Il Tribunale di Palermo afferma che tale prescrizione non si è verificata, rigettando l’eccezione della banca e accogliendo la domanda del cliente.
Il problema della prescrizione è rilevante nel contesto dell’anatocismo in quanto gli addebiti di interessi anatocistici sono risalenti nel tempo e le pretese alle restituzioni potrebbero, per tale ragione, reputarsi oggi (in tutto o in parte) prescritte. Nel caso affrontato dal Tribunale di Palermo, il contratto di apertura di credito cessò nell’ottobre del 2004, ma gli addebiti contestati erano parecchio risalenti nel tempo: a partire addirittura dal 1980. A seconda della durata del termine di prescrizione (5 oppure 10 anni) e del momento di decorso del medesimo (dai singoli addebiti oppure dalla chiusura del rapporto), le pretese alla restituzione possono o meno essersi prescritte. Due sono allora gli aspetti in materia di prescrizione che necessitano di analisi: 1) quale sia il termine di prescrizione della pretesa alla restituzione e 2) da quando tale termine decorra. Il Tribunale di Palermo ritiene che il termine applicabile sia quello decennale e che decorra dal momento della cessazione del rapporto contrattuale con la banca.
Al fine d’identificare la corretta durata del termine di prescrizione, bisogna individuare l’azione che il cliente fa valere nei confronti della banca. Tipicamente la domanda avanzata dall’utente bancario è doppia: declaratoria di nullità della clausola di capitalizzazione e (conseguente) restituzione degli interessi illegittimamente addebitati. L’azione di nullità in sé considerata è imprescrittibile, tuttavia le azioni di ripetizione si possono prescrivere (art. 1422 c.c.). L’eccezione della banca fondata sulla prescrizione dell’azione di nullità è pertanto destinata a essere rigettata, diversamente dall’eccezione relativa alla prescrizione dell’azione di ripetizione, laddove sia passato troppo tempo. Con riferimento alla durata del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici indebitamente addebitati, si tratta della prescrizione ordinaria: i diritti si estinguono con il decorso di dieci anni (art. 2946 c.c.).
Con riguardo al momento in cui decorre il termine di prescrizione, la disposizione generale di riferimento è l’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Nel contesto della ripetizione d’interessi anatocistici ingiustamente addebitati sono in sostanza possibili due interpretazioni. Secondo una prima interpretazione andrebbero tenuti distinti i singoli addebiti e il diritto alla restituzione si prescrive con il decorso di dieci anni da ogni addebito. Secondo una seconda interpretazione, invece, i diritti si prescrivono decorso il termine di dieci anni dal momento in cui è stato chiuso il conto corrente utilizzato per gli addebiti. La distinzione è evidentemente di estrema rilevanza pratica, in quanto la seconda interpretazione consente la ripetizione anche a lunga distanza di tempo, mentre la prima produce di fatto l’effetto di rendere oggi impossibile la restituzione.
Anche la questione del momento di decorso del termine di prescrizione (come quella relativa alla natura degli usi anatocistici esaminata sopra) è divenuta oggetto di una – importante – sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione . La Cassazione ha deciso che se – dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente – il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
Per arrivare a questa conclusione la Corte di cassazione si basa sull’interpretazione della disciplina legislativa del contratto di apertura di credito bancario (art. 1842 ss. c.c.), contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di denaro, che il cliente può utilizzare anche in più riprese e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in tutto o in parte la disponibilità eseguendo versamenti che gli consentiranno poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito accordatogli . Se, pendente l’apertura di credito, il correntista non si sia avvalso della facoltà di effettuare versamenti, pare indiscutibile che non vi sia alcun pagamento da parte sua, prima del momento in cui, chiuso il rapporto, egli provveda a restituire alla banca il denaro in concreto utilizzato. In tal caso, qualora la restituzione abbia ecceduto il dovuto a causa del computo d’interessi in misura non consentita, l’eventuale azione di ripetizione d’indebito non potrà che essere esercitata in un momento successivo alla chiusura del conto, e solo da quel momento comincerà pertanto a decorrere il relativo termine di prescrizione.
La Corte di cassazione continua affermando che, qualora – invece – durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo cui non accede alcuna copertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento. Non è così, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere.
Secondo le Sezioni Unite, un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto, né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà d’indebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto.
La Corte di cassazione fonda la sua interpretazione sul dato testuale dell’art. 2033 c.c., che esige un “pagamento” non dovuto. Nel caso dell’apertura di credito, non vi sarebbe in pendenza del rapporto un tale pagamento, ma solo un ripristino della disponibilità utilizzabile a credito. Solo alla cessazione del rapporto residua un debito nei confronti della banca, che deve essere onorato. Nel corso del rapporto possono essere addebitati interessi al correntista, ma tali addebiti non implicano un pagamento immediato nei confronti della banca: non vi è alcuno spostamento patrimoniale che configuri un pagamento in senso tecnico. Solo alla fine del rapporto il cliente dovrà restituire tutta la somma per la quale è a debito, compresi gli interessi nel frattempo maturati.
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La motivazione
Con atto di citazione notificato in data 5.2.2008 … – premesso di essere titolare di un conto corrente bancario con facoltà di scoperto aperto dapprima presso … e, successivamente, in esito alla incorporazione della predetta banca con quella adita, presso … – conveniva in giudizio quest’ultima, chiedendo dichiararsi la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale di interessi, competenze e spese apposta al contratto e, per l’effetto, la restituzione delle somme indebitamente percepite dalla convenuta nel periodo dal 1.1.1980 al 30.6.2000.
Con comparsa di costituzione e risposta del 29.4.2008, si costituiva in giudizio la banca convenuta la quale si opponeva alle domanda formulate ex adverso evidenziando in via preliminare il proprio difetto di legittimazione passiva per il periodo antecedente al 6.9.1997, data della cessione delle poste attive e passive facenti capo alla …, atteso che in relazione alle passività opera il limite di quelle indicate nell’atto di cessione e comunque risultanti dallo stato passivo della banca cedente.
L’istituto bancario eccepiva sempre in via preliminare la decadenza dell’azione per mancata impugnazione degli estratti conto e comunque la prescrizione dei crediti azionati.
Nel merito, … rilevava l’infondatezza dell’azione di controparte stante la legittimità, per il periodo anteriore alla delibera CICR del 9.2.2000, delle clausole di capitalizzazione trimestrale in quanto rispondenti a un uso normativo, chiedendo ad ogni modo e in via subordinata, in caso di declaratoria di nullità della clausola de qua, che fosse applicata ai fini del ricalcolo la capitalizzazione semestrale degli interessi debitori.
Omissis
Ciò detto, risulta invece fondata la doglianza di parte attrice in ordine all’illegittimità della capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, pure pacificamente applicata nell’ambito del rapporto per cui è causa e riscontrata dal c.t.u.
Preliminarmente, giova sottolineare che parte convenuta non ha mai contestato l’avvenuto inserimento nel contratto per cui è causa di clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e delle competenze (cfr. ord. del 23.10.2008) limitandosi ad affermarne la validità in quanto, a suo dire, rispondenti a un uso normativo e, in ogni caso (per ciò che attiene alla c.m.s.), oggetto di espressa pattuizione.
In relazione alla validità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi il Tribunale osserva quanto segue.
L’art. 120 t.u.b., come modificato dall’art. 25 d.lgs. 342/1999, ha attribuito al CICR il potere di stabilire le modalità e i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria. Con l’emanazione della relativa deliberazione (in data 9.2.2000, pubblicata nella G.U. 22.2.2000), deve oggi ritenersi certa la legittimità della capitalizzazione degli interessi pattuite mediante apposite clausole contenute nei contratti bancari.
La disciplina introdotta dal CICR vale per i contratti bancari stipulati dopo la data di entrata in vigore della relativa delibera e per quelli stipulati prima a decorrere dal 1.7.2000. L’art. 7 della delibera CICR stabilisce infatti che le condizioni pattuite devono essere adeguate alle disposizioni contenute nella delibera entro il 30.6.2000.
Resta il problema della sorte dei contratti stipulati prima della delibera CICR – problema che rileva nel caso di specie, ove oggetto del contendere è un contratto chiuso nell’ottobre 2004 – e che va risolto alla luce del principio affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza 4.11.2004, n. 21095, secondo la quale:
– deve escludersi l’esistenza di un uso normativo idoneo a derogare al precetto dettato dall’art. 1283 c.c.;
– è dunque nulla, anche se oggetto di espressa pattuizione, la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, con conseguente diritto per il cliente di ripetere i pagamenti già effettuati (ove vi siano stati), ovvero di rifiutare legittimamente la prestazione degli interessi che, in virtù della previsione contrattuale contraria all’art. 1283 c.c., sarebbero ancora dovuti e risultino computati dalla banca.
Per le stesse ragioni deve essere dichiarata la nullità della clausole di capitalizzazione trimestrale sulla commissione di massimo scoperto.
Accertata e dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, questi ultimi – alla luce di quanto affermato da un’ulteriore recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte – dovrebbero essere calcolati (sempre per il periodo antecedente al 30.6.2000) senza alcuna capitalizzazione.
Tuttavia tale principio va raccordato con quello della domanda ex art. 112 c.p.c.; sicché, avendo l’odierno attore esplicitamente richiesto di applicare, ai fini del ricalcolo delle somme dovute, la capitalizzazione annuale degli interessi passivi, questo giudice non può escludere ogni forma di capitalizzazione, altrimenti configurandosi un vizio di ultrapetizione.
E infatti, parte attrice ha formulato la richiesta finalizzata ad escludere ogni forma di capitalizzazione solo all’udienza di precisazione delle conclusioni e, dunque, tardivamente.
Va dunque dichiarata la nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e delle competenze dedotte nel contratto di conto corrente, con conseguente condanna della banca alla restituzione di quanto indebitamente percepito.
In ultimo, deve essere rigettata, perché infondata, l’eccezione di prescrizione decennale formulata dalla banca.
In proposito, va rilevato che il rapporto di conto corrente per cui è causa, stando a quanto allegato e non contestato, risulta cessato alla data dell’ottobre del 2004; ebbene, da tale momento deve essere fatto decorrere il termine decennale dell’azione di ripetizione dell’indebito.
Osserva, infatti, questo Tribunale che la Suprema Corte, con la pronunzia a Sezioni Unite n. 2.12.2010, n. 24418, ha affermato e spiegato che:
– “l’unitarietà del rapporto contrattuale ed il fatto che esso sia destinato a protrarsi ancora per il futuro non impedisce di qualificare indebito ciascun pagamento non dovuto, se ciò dipende dalla nullità del titolo giustificativo dell’esborso, sin dal momento in cui il pagamento abbia avuto luogo ed è sempre da quel momento che sorge il diritto del solvens alla ripetizione e che la relativa prescrizione inizia a decorrere”;
– “il pagamento, per dar vita ad una eventuale pretesa restitutoria di chi assume di averlo indebitamente effettuato, deve essersi tradotto in uno spostamento patrimoniale in favore dell’accipiens e lo si può definire indebito quando difetti di una idonea causa giustificativa”;
– “l’annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista comporta un incremento del debito o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria in favore della banca”;
– “occorre dunque avere riguardo alla natura e al funzionamento del contratto di apertura di credito bancario che in conto corrente è regolata”.
Ne consegue che se dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisca per far dichiarare la nullità delle clausole anatocistiche e per la ripetizione di quanto indebitamente pagato, il termine di prescrizione decennale dell’azione di ripetizione decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati.
Solo da tale momento, invero, sussiste un pagamento indebito e dunque sorge il diritto a ripetere le somme versate con riferimento a tutto il periodo contrattuale (non quindi dieci anni a ritroso dalla chiusura del conto).
Orbene, non avendo la banca neppure allegato che vi sia stato un versamento avente natura solutoria, deve ritenersi che la stessa non abbia adempiuto all’onere della prova da cui era gravata ex art. 2967, 2° co., c.c.
Pertanto, alla luce delle superiori considerazioni, il diritto alla ripetizione delle somme indebitamente trattenute dalla banca nel periodo corrente dal 1.1.1980 (data individuata da parte attrice) al 30.6.2000 non è certamente prescritto, posto che l’odierna azione è stata introdotta nel 2008, appena quattro anni dopo la chiusura del conto, avvenuta come detto nell’ottobre del 2004.
Né su tale condivisibile impostazione incide, a parere di questo giudice, il tenore dell’art. 2, 61° co., d.l. n. 225/2010 (c.d. decreto mille proroghe) che, nel dettare una norma che si autodefinisce interpretativa dell’art. 2935 c.c., fa riferimento esclusivo “ai diritti nascenti dall’annotazione in conto”, non già a quelli nascenti dal pagamento indebito di somme che invece – stando agli argomenti sopra riportati – costituisce il fatto generatore del diritto di ripetere le somme medesime.
Omissis
Alla luce di tali risultati, la banca convenuta dovrà corrispondere agli attori la somma complessiva di € 53.114,46, oltre interessi legali dal 12.11.2007, data di ricezione da parte della banca della lettera di messa in mora.
Omissis.
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