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11 Ottobre 2004 In Diritto bancario

Piccole e medie imprese: sinergie tra le riforme

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Di Rodolfo Pacifici
11 ottobre 2004

Le potenzialità delle piccole e medie imprese italiane sono, da tempo, oggetto di un acceso dibattito dentro e fuori il nostro Paese. E’ unanimemente riconosciuta l’ottima prova che questo tipo di iniziativa ha dato di sé, considerate anche le notevoli capacità di proiezione all’estero dimostrate, soprattutto nei Paesi dell’area danubiana, del resto tradizionale sbocco del nostro Nord-est.

Altrettanto note sono, tuttavia, le criticità, emergenti a causa della particolare congiuntura macroeconomica: l’incalzante concorrenza di prezzo (ma senza escludere forme di dumping sociale) dell’Estremo oriente, sta mettendo a dura prova le piccole e medie imprese italiane, sottolineando il bisogno di conseguire economie soprattutto di scala; il loro asset più pregiato, il brand, deve fronteggiare continui e multiformi attacchi; infine, l’apprezzamento dell’euro non può non incidere su sistemi fortemente orientati all’esportazione.

Tutto ciò si somma alla cronica sottocapitalizzazione delle nostre p.m.i.

In effetti, potremmo dire che è proprio questo dualismo che le rende inconfondibili : ad una spiccata capacità di penetrazione si associa una base ristrettissima, anzi per lo più familiare, e mezzi propri insufficienti. Dualismo che del resto si rispecchia nel combinato disposto delle riforme, a voler sottolineare che, tutto sommato, più che di criticità si deve parlare di potenzialità ancora da dispiegare.

Dunque, considerato il contesto macroeconomico e le ancora ampie possibilità di sviluppo, le recenti riforme hanno aggiornato l’ordinamento giuridico con una serie di misure, coordinate, anche se con delle discrepanze, volte a superare la fase di crescita delle piccole e medie imprese, e a traghettarle verso la piena maturità.

Mi riferisco in particolare:

– alla L. 350/2004 – L. Finanziaria per il 2004, e al D.L 269/2003, convertito in L. 326/2003 (volendo qui limitarci agli interventi di carattere fiscale);
– al Codice Civile, come novellato dal D. Lgs. 6/2003, che introduce, all’art. 2467, una norma chiaramente volta a contrastare lo squilibrio patrimoniale delle s.r.l., norma che trova un corrispondente, seppur non simmetrico, nelle norme sulla c.d. thin capitalization, introdotte dal D. Lgs. 344/2003 nel corpo del D.P.R. 917/86.

Il D.Lgs.326/2003 reca, all’art.1, una norma, la c.d. Tecno-Tremonti, volta ad incentivare gli investimenti in ricerca e sviluppo e a favorire lo sviluppo di sinergie tra imprese.

Essa riconosce a tutti i titolari di redditi d’impresa, in attività alla data di entrata in vigore del D.L., oltre alla deduzione ordinaria dei costi sostenuti per quegli investimenti, particolari agevolazioni:

– la ulteriore deduzione per un importo pari al 10% dei costi di ricerca e sviluppo iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali;
– la ulteriore deduzione per un importo pari al 30% dell’eccedenza di tali costi rispetto alla media degli stessi costi sostenuti nei 3 periodi d’imposta precedenti.

Per costi di ricerca e sviluppo iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali intendiamo, secondo il Principio contabile nazionale n. 24, costi effettivamente sostenuti, che non esauriscano la propria utilità nell’esercizio di sostenimento, e manifestino capacità di produrre benefici economici futuri. Deve inoltre trattarsi di costi che possano essere distintamente identificati ed attendibilmente quantificati.

L’incentivo è limitato al 20% della media dei redditi relativi ai tre esercizi precedenti al periodo d’imposta in cui si applica (quindi 2001, 2002 e 2003), senza considerare gli esercizi in perdita.

Per quanto riguarda le sinergie tra imprese, si fa qui espressamente riferimento alle “piccole e medie imprese”, da individuarsi, evidentemente, secondo i parametri comunitari.

In effetti questa norma recepisce e ufficializza la nascente prassi delle “reti” all’interno e tra i distretti (“nell’ambito di distretti industriali o filiere produttive, in numero non inferiore a 10”), con cui le p.m.i. mettono in comune, facendo ricorso “a nuove strutture consortili o ad altri strumenti contrattuali”, quindi con varietà di soluzioni (anche atipiche), mezzi e centri di servizio, nell’ottica dell’outsourcing e delle economie di scala.

Costituendo questo un aiuto di Stato, la sua erogazione deve essere preventivamente autorizzata dalla Commissione Europea, il che è espressamente previsto dalla norma (autorizzazione, al momento, niente affatto scontata).
Per far crescere le p.m.i. il legislatore lancia un appello agli investitori istituzionali, chiamati al ruolo di “white knight”: lo strumento è quello del private equity, incentivato dall’abbattimento, dal 12,5%, al 5% dell’imposta sostitutiva sui proventi dei fondi comuni di investimento e degli altri OICVM specializzati in mid cap.

Il regolamento del fondo deve prevedere che” non meno dei due terzi del relativo attivo siano investiti in azioni ammesse alla quotazione di società di piccola e media capitalizzazione”, risultato da conseguirsi in concreto nel corso della maggior parte dell’esercizio successivo.

Raggiunta finalmente la fase di maturità, e quindi la quotazione in un mercato regolamentato di uno Stato membro dell’Unione europea, le società potranno dedurne i relativi costi e fruire del “premio di quotazione”, data dalla riduzione dell’aliquota d’imposta dal 33% al 20%.

L’ammissione a quotazione deve avvenire tra il 2 ottobre 2003 e il 31 dicembre 2004; l’agevolazione si applica al periodo d’imposta in cui è stata disposta l’ammissione alla quotazione e ai due periodi successivi; inoltre, le azioni non devono essere state precedentemente negoziate in alcun mercato regolamentato dell’Unione europea.

Il reddito dichiarato è assoggettabile ad aliquota agevolata fino all’ammontare di 30 milioni di euro. L’agevolazione è applicata solo per i periodi di imposta in cui non siano intervenute sospensioni alla negoziazione nei mercati regolamentati.

Sussiste tuttavia, in capo alle aziende, un obbligo di “meritorietà”, in termini di capitalizzazione: le società devono effettuare, per ottenere l’ammissione alla quotazione, un’offerta di sottoscrizione di proprie azioni che dia luogo ad un incremento del patrimonio netto non inferiore al 15% del patrimonio netto risultante dal bilancio relativo all’esercizio precedente a quello di inizio dell’offerta, al netto dell’utile di esercizio.

La manovra si ricollega dunque, in questo punto, ai contenuti delle altre due riforme di cui più avanti parlerò.

Sul versante prettamente commerciale, si registrano novità in tema di promozione delle produzioni caratteristiche: le imprese spese potranno infatti fruire dell’ulteriore deduzione, rispetto a quella ordinaria, delle spese “direttamente sostenute per la partecipazione espositiva di prodotti”, il che sembra escludere le spese accessorie pure sostenute in occasione di fiere ed esposizioni.

Stesso trattamento è riservato alle spese sostenute per l’effettuazione di stage aziendali rivolti a studenti di corsi d’istruzione secondaria o universitaria, o a diplomati o laureati da meno di un anno, compresi i compensi eventualmente erogati agli stagisti.

Passando alle misure più “invasive”, l’art 2467 c.c., Finanziamenti dei soci, stabilisce la postergazione dei soci, nel rimborso dei finanziamenti a favore della società, rispetto alla soddisfazione degli altri creditori. Qualora poi, tale pagamento sia avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, esso deve essere restituito.

La norma vuole dunque porre un correttivo alla tendenza delle p.m.i. a fare eccessivo ricorso al capitale di debito, piuttosto che a quello di rischio, tendenza rivelatrice, a sua volta, delle difficoltà ad allargare la propria base societaria, e sinora favorita dalle norme stabilite in tema di deducibilità degli interessi passivi.

Questo assunto trova conferma nel co. 2 dell’art.2467, per il quale “s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”.

Occorre notare come la norma sia inserita nel corpus delle norme in tema di s.r.l.. Non in vi è invece, alcun riferimento alle s.p.a..

Si può da questo ragionevolmente dedurre che la norma trovi applicazione soltanto per le prime.

Per la verità, autorevole dottrina ha argomentato in senso contrario, traendo spunto dalla disposizione dell’art. 2497-quinquies, che estende la disciplina dell’art. 2467 ai finanziamenti erogati dalla società che esercita attività di direzione e coordinamento nei confronti delle sottoposte.

La norma opera in ogni caso di sottoposizione a tale attività, non solo quando vi sia controllo ex art. 2359 c.c.; del resto, in tal caso, la controllante sarebbe a tutti gli effetti socia della partecipata, e quindi non si avrebbe bisogno di un’ulteriore specificazione.

Notiamo tuttavia che una delle linee di fondo del diritto societario sia stata quella della ulteriore differenziazione dei due tipi societari, per cui la s.p.a. si è ancor più allontanata dal paradigma contrattuale, e il socio ha assunto ancor più la configurazione di un terzo, mentre la s.r.l. ha visto accentuarsi il suo carattere personalistico, diventando quasi, da “piccola società per azioni” che era, “società personale con il beneficio della limitazione della responsabilità”. Prova ne siano norme come quella che attribuisce ad ogni socio il diritto di ispezione dei libri sociali e delle scritture contabili, e di promuovere azione di responsabilità, o ancor più, quella che coinvolge nella responsabilità degli amministratori i soci che si siano ingeriti nell’amministrazione; così come nella possibilità del consortium relief, cioè di poter imputare l’utile per trasparenza, come nelle società di persone, qualora i soci siano non più di dieci e tutte persone fisiche.

Ritengo dunque che sia conforme, oltre che alla lettera della norma, allo spirito della riforma e a un’interpretazione sistematica, la prima interpretazione, considerando la s.r.l. come “paradigma” della piccola o media impresa.

I rimedi approntati consistono dunque, in primis, in una clausola di postergazione dei soci rispetto a quelli degli altri creditori. Il dubbio principale riguarda l’ambito temporale di operatività di questa previsione, se essa debba cioè operare sempre, oppure soltanto allo scioglimento della società, per liquidazione o procedura concorsuale. Non vi è, in realtà, alcun riferimento a quest’ultima notazione: si può dunque pensare che essa operi sempre, e, a presidio delle ragioni creditorie nella fase liquidatoria della società, operi la revoca di diritto del pagamento effettuato entro l’anno precedente l’apertura del fallimento o della liquidazione coatta amministrativa, costruita in maniera analoga alla art. 67. co. 2 della Legge fallimentare.
Tuttavia entrambe le interpretazioni appaiono validamente sostenibili, in mancanza di precedenti giurisprudenziali.

Un dubbio potrebbe porsi qualora i crediti dei soci siano assistiti da cause legittime di prelazione, se cioè queste debbano prevalere sull’effetto di postergazione.
Particolarmente notevole è l’ulteriore qualificazione di questi finanziamenti: essi devono essere in favore della società, cioè effettuati in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società:

a) risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure
b) la situazione finanziaria della società renderebbe ragionevole un conferimento
Nel primo caso si fa riferimento al rapporto, noto alle scienze aziendalistiche, tra capitale di debito e capitale di rischio, come indice di sufficiente patrimonializzazione dell’impresa; nel secondo si fa espresso riferimento al canone di ragionevolezza. Potrebbe ipotizzarsi, ad esempio, il caso di una persistente illiquidità della società, ai limiti dell’insolvenza, oppure quello di una grave difficoltà dell’impresa nel reperire fonti di credito, tale da dover trovare soluzione non già nei finanziamenti dei soci, unici disposti a concederlo, ma nell’aumento del capitale di rischio, a titolo, se non di aumento del capitale sociale, almeno di versamento in conto capitale o a fondo perduto.

Il caso sub a) diventa dunque un caso di specie di quello sub b).

E’ da notarsi come il legislatore non abbia stabilito una soglia limite, ma abbia rimesso tutto a una valutazione di carattere economico-patrimoniale, quindi, in prospettiva, al prudente apprezzamento del giudice. Il momento in cui si potrà fornire, la prova contraria della sottocapitalizzazione dell’impresa, sarà quella del giudizio, contro la revoca o la postergazione.

Rilevano i finanziamenti sotto qualsiasi forma concessi, dunque tutti i contratti con causa di finanziamento, tipici od atipici, sotto qualsiasi forma stipulata (ferme restando, ovviamente, quelle imposte dalla natura dei beni dedotti in contratto).
Questa valutazione rileverà, ovviamente, anche in tema di responsabilità degli amministratori per il pagamento dei debiti verso i soci (si parla sempre di quelli in favore della società): qualora i soci si rivelassero insolventi, e l’azione di revoca, dunque, infruttuosa, i creditori potranno agire in responsabilità contro gli amministratori, ex art. 2384. Responsabilità in cui concorreranno i soci che hanno concorso a decidere l’operazione (in primis, presumibilmente, i finanziatori), secondo il “personalistico” principio adottato per le s.r.l. (e ovviamente solo per queste).

La norma “gemella” dell’art. 2467 c.c. è quella recata dall’art. 98 T.U.I.R., come novellato dal D.Lgs. 344/2003.
Essa reca tuttavia, accanto alla similitudine concettuale, significative differenze.
Essa opera come causa di indeducibilità degli interessi passivi pagati dalla società sui finanziamenti dei soci, che vengono assimilati a dividendi, quindi ai frutti propri del capitale di rischio.

La costruzione della norma è tuttavia ben più rigida di quanto non sia l’art.2467.
Innanzi tutto non vi è alcun riferimento alla forma societaria, il che costituisce una grossa differenza; vi è piuttosto un riferimento all’entità dei ricavi, la norma infatti non si applica se non oltre la soglia prevista per gli studi di settore (a prescindere dall’applicabilità in concreto di questi all’impresa) e alla composizione della base societaria, poiché i finanziamenti dei soci che rilevano sono solo quelli dei soci qualificati, in termini di partecipazione al capitale. Non è difficile vedere un’analogia con i finanziamenti dei soci della s.r.l., proprio nella presumibile ristrettezza della base societaria; del resto la stessa Relazione di accompagnamento al D. Lgs. 344/03 parla della cronica sottocapitalizzazione delle nostre p.m.i.

Dunque, quanto alle società interessate, ciò che lì si desume dai tatti tipici e più ricorrenti, qui è espressamente prestabilito.

Altra differenza, la valutazione dalla legge civile rimessa alla corretta gestione degli amministratori, e poi al prudente apprezzamento del giudice, è qui operata ex lege: qualora il rapporto: capitale di debito apportato dai soci qualificati / capitale di rischio, opportunamente rettificati, superi una certa soglia, i finanziamenti si presumono volti a conseguire un illecito vantaggio fiscale, poiché non rispondenti alle ragioni finanziarie e patrimoniali dell’impresa. In altre parole, si istituisce una presunzione di squilibrio patrimoniale, e quindi di ragionevolezza di un conferimento, al ricorrere di un certo grado di capitalizzazione dell’impresa. Presunzione iuris tantum: è ammessa la prova contraria della capacità di credito dell’impresa in questione, sede in cui rivive quella valutazione di cui sopra.

Anche qui ciò che rileva è la sostanza economica dello scambio, la causa di finanziamento del contratto (quale che sia).

A ben vedere, affermare che queste norme contrastino la sottocapitalizzazione può non bastare.

Si prende in considerazione non solo l’entità della quota di partecipazione del socio, ma anche la sua personale esposizione della società, poiché i suoi finanziamenti sono rapportati alla quota di patrimonio netto contabile di sua pertinenza, aumentato degli apporti di capitale effettuati dallo stesso socio o da sue parti correlate in esecuzione dei contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza.

Si ripropone dunque al livello del socio lo stesso rapporto complessivamente rilevante per la società.

In altre parole, non basta la sottocapitalizzazione dell’impresa; ciò che veramente la norma vuole evitare è la sottocapitalizzazione dell’impresa dovuta allo squilibrio patrimoniale nei confronti dei soci (analogia con l’art. 2467); si ammette cioè l’ipotesi di una società sottocapitalizzata, che però si in grado di reperire il capitale di rischio alle ordinarie condizioni di mercato; o, in altre parole, la società non è sottocapitalizzata finchè non deve ricorrere a un eccesso di finanziamento dei soci.

Altra differenza, si fa qui riferimento non solo ai soci, ma anche alle loro parti correlate (si considerano parti correlate al socio qualificato le società da questi controllate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile e se persona fisica anche i familiari).
Se, come appare comprensibile, non rilevano i finanziamenti assunti nell’esercizio dell’attività bancaria o dell’attività svolta dai soggetti indicati nell’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87, rilevano i finanziamenti erogati dalle controllanti (“direttamente o indirettamente erogati o garantiti” ) e dalle società c.d. holding (le società che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni).

La norma dettata in tema di gruppi troverà dunque causa in altre esigenze, che non il contrasto alla sottocapitalizzazione, esigenze tuttavia non agevoli da individuare.
Tentiamo un’interpretazione sistematica.

Sia nell’art. 2497-quinquies, che nella disposizione recata dal TUIR manca ogni riferimento alla forma societaria; tuttavia, se per il socio qualificato che sia controllante della società, l’art. 98 del TUIR fa riferimento al controllo ex art. 2359 del c.c., per gli art. 2497 bis ss. c.c., l’attività di direzione e coordinamento è nozione distinta e più ampia dal controllo ex art 2359 (che fa soltanto presumere quell’attività).

Si noti ancora che la società che esercita attività di direzione e coordinamento può non detenere alcuna partecipazione nella sottoposta (del resto, anche nel controllo ex. art. 2359 può essere così): e dunque, da un punto di vista formale (e sia pure formalistico, se si vuole), essere del tutto terza, il che dovrebbe agevolare quella prova contraria prevista dall’art. 2467.

Manca nell’art. 2497-quinquies ogni specifica relativa all’attività bancaria o all’assunzione di partecipazioni in via esclusiva o prevalente), mentre possiamo notare come la norma dell’art. 98 TUIR sia simmetrica a quanto disposto dal D.Lgs. 87/92, che esclude la sua applicazione alle società capogruppo di gruppi non bancari che esercitino attività finanziaria solo nei confronti del gruppo, distinguendo così lo statuto dell’attività bancaria dalla disciplina dei gruppi che nulla hanno a che fare con l’attività bancaria.

Del resto sembrerebbe piuttosto incongruo ricercare la ratio dell’art. 2497-quinquies in una forma di tutela della riserva di attività bancaria: dopo aver stabilito che la raccolta del risparmio tra le società del gruppo non costituisce raccolta del risparmio tra il pubblico (art. 11 TULB), a) l’esercizio del credito nei confronti del gruppo non costituirebbe comunque attività bancaria, e b) non si capirebbe la ratio di una simile limitazione (piuttosto il contrario, al limite).

Bisogna dunque tornare al Codice Civile e ipotizzare che il legislatore abbia voluto assimilare la capogruppo al socio di s.r.l., nel “sospetto” che queste colonne portanti siano responsabili in primis della vituperata sottocapitalizzazione.

E le altre s.p.a.? Evidentemente per esse il legislatore ha ritenuto superati questi problemi, probabilmente grazie ai nuovi strumenti finanziari e partecipativi…..

La spiegazione non è certo soddisfacente, la verità manet in alta mente reposta.

Concludendo, possiamo dire che si va delineando un compiuto statuto della piccola e media impresa, come già nella normativa di rango comunitario, e già a livello nazionale, per la sola piccola impresa, anche se con incertezze destinate a protrarsi fino alle prime pronunce giurisprudenziali.
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