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Di Maura Castiglioni, Avvocato
20 gennaio 2003
L’azione revocatoria fallimentare di cui all’art. 67, comma 2 r.d. 267/42 relativamente ai pagamenti effettuati senza autorizzazione formale allo scoperto.
I c.d. “sconfinamenti” nell’ambito di rapporti bancari, intesi quali utilizzazioni da parte del cliente – con il consenso o comunque con la tolleranza della banca – di somme superiori a quelle pattuite, non sono infrequenti nella prassi, seppure limitate ad una parte della clientela. Può accadere infatti che gli istituti di credito intervengano con propri fondi su conti scoperti, autorizzando concessioni di scoperto nei confronti di clienti verso i quali ripongono una particolare fiducia.
Tali sconfinamenti rimangono ben distinti rispetto all’oggetto del contratto
bancario al quale si riferiscono, costituendo difatti una prestazione accessoria e pertanto non applicandosi agli stessi la disciplina del contratto in cui sono inseriti. Ne deriva perciò che la banca può pretendere l’immediata restituzione senza alcun preavviso ed inoltre può, in qualunque momento e senza necessità di recesso, non tollerare più tali sconfinamenti e rifiutarsi di pagare gli assegni emessi dal cliente.
Nell’ipotesi di fallimento di quest’ultimo, per stabilire l’applicabilità alle
rimesse in conto effettuate dell’azione revocatoria di cui all’art. 67 della legge fallimentare (r.d. 267/42), occorre distinguere l’ipotesi in cui le stesse confluiscano su di un conto passivo durante l’ordinario svolgimento del rapporto, da quella in cui esse intervengano in una situazione di scoperto di conto a seguito del superamento (o persino della mancanza) della concessione di credito.
La differenza pratica sta tutta nell’esistenza formale di un affidamento – e si tratterà allora di un conto c.d. “passivo” – oppure nell’assenza di qualsiasi autorizzazione allo scoperto o comunque di un superamento della stessa – e si tratterà di “scoperto di conto corrente”.
Difatti nella prima ipotesi tali rimesse, prive di natura solutoria (non
estinguono un “debito”), svolgono esclusivamente la funzione di ripristinare la provvista prima esistente e pertanto non sono suscettibili di alcuna
revocatoria fallimentare; nel caso di “scoperto di conto” invece, le rimesse
assumono carattere solutorio (e cioè estinguono un debito) essendo destinate ad estinguere un credito esigibile della banca, ed unicamente in questa ipotesi sono suscettibili di revoca ex art. 67 l. fall. sempre che sussista la scientia decotionis, ossia che la banca sia a conoscenza dello stato di insolvenza del cliente (Cass. civ. sez. I, 11 settembre 1998, n. 9018, conf. Cass. civ. sez. I, 15 maggio 1991, n. 5448).
Vi è però da dire che tale consapevolezza in capo alla banca spesso si
presume nella conoscenza da parte di quest’ultima delle operazioni di conto
corrente che dimostrano l’insolvenza (o il pericolo di decozione) del cliente.
La revocabilità delle rimesse in conto sussiste altresì quando le stesse siano state effettuate dopo la revoca del fido concesso – e questo perché in tale momento si cristallizza un “debito” – o comunque quando a seguito di accertamento risultino avere concretamente e definitivamente concorso a ridurre il debito del cliente verso la banca in conseguenza della utilizzazione del fido.
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