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16 Ottobre 2015 In Diritto bancario

Rimedi al decreto ingiuntivo bancario non opposto: rimedi pretori per antichi problemi, tra limiti del giudicato, usura ed equità sostanziale

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Di Andrea Agnese, Avvocato

 

1 – Decreto ingiuntivo e giudicato

Un problema molto sentito dal litigator bancario consiste nella impossibilità di reagire a un decreto ingiuntivo della banca il cui termine impugnatorio sia oramai perento.

Ciò in special modo laddove il decreto ingiuntivo porti un credito che andrebbe depurato da illegittima capitalizzazione anatocistica degli interessi, da commissioni di massimo scoperto illegittime, da interessi divenuti usurari.

A livello teorico, un primo problema è quello di capire se il decreto ingiuntivo sia passibile o meno di giudicato. Tale questione riveste un rilievo oramai di interesse esclusivamente speculativo, visto che oramai da molto tempo la Suprema Corte ha chiarito che anche sul decreto di ingiunzione scende il giudicato.

A titolo esemplificativo, si veda la seguente decisione a Sezioni Unite:

Come già accennato in parte espositiva, giusta un primo, più risalente, indirizzo giurisprudenziale il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata sostanziale in relazione al diritto in esso consacrato (Cass. 7 ottobre 1967, n. 2326, Foro it., Rep. 1968, voce Ingiunzione (procedimento per), n. 68) e, cioè, solamente in relazione al credito del quale il giudice ha ingiunto il soddisfacimento e non anche in relazione al diritto rispetto al quale nessuna ingiunzione è stata emessa (Cass. 3 maggio 1974, n. 1244, id., Rep. 1974, voce cit., n. 10, resa in una fattispecie in cui il decreto ingiuntivo non opposto aveva accolto la domanda del creditore limitatamente al pagamento della sorte capitale escludendo gli interessi: in applicazione del riferito principio questa corte ha negato che su questa ultima richiesta si fosse formato un accertamento negativo, preclusivo della proposizione di tale pretesa in sede ordinaria).

Sempre in questo ordine di idee si è affermato ancora, che:

— il decreto ingiuntivo non opposto acquista, al pari di una sentenza di condanna, autorità di cosa giudicata sostanziale soltanto in relazione al credito (ancorché non corrispondente a quello vantato dall’istante) di cui si è ingiunto il pagamento, con la conseguenza, pertanto, che al lavoratore che abbia ottenuto con decreto monitorio il pagamento del (solo) suo credito originario non resta preclusa la richiesta degli interessi e della rivalutazione (ex art. 429 c.p.c.) delle somme stesse all’uopo potendo egli riproporre la domanda in via ordinaria, o con richiesta di altro decreto ingiuntivo (Cass. 2 aprile 1987, n. 3188, id., 1988, I, 3341);

— nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, che sia stato emesso per una somma inferiore a quella indicata nel ricorso, il creditore può insistere nella sua originaria domanda, perché la notifica del decreto ingiuntivo non implica una sua acquiescenza all’implicita pronuncia di rigetto della domanda per la parte non accolta, atteso che questa pronuncia, per la natura della fase monitoria, non ha i caratteri di una statuizione suscettibile di passaggio in giudicato (Cass. 24 giugno 1993, n. 7003, id., Rep. 1993, voce cit., n. 48);

— la commisurazione dell’ambito oggettivo del giudicato non solo al dedotto, ma anche al deducibile, coerente conseguenza dell’accertamento ordinario cui si riferisce l’art. 2909 c.c., non è, invece, compatibile con le peculiarità del procedimento per ingiunzione, strutturato, almeno nella fase propriamente monitoria, secondo regole finalizzate ad accertare non già la fondatezza o l’infondatezza della pretesa creditoria, ma esclusivamente la sussistenza di elementi sufficienti a giustificare l’ingiunzione, per cui quando il creditore della prestazione assistenziale della quale sia stata tardivamente pagata la sola somma capitale abbia richiesto ed ottenuto un decreto ingiuntivo relativo al pagamento degli interessi legali su tale somma, ben può lo stesso proporre, successivamente al passaggio in giudicato di questo, un’altra azione per richiedere, sulla base dello stesso fatto costitutivo, la rivalutazione monetaria sul medesimo importo (Cass. 6 luglio 2002, n. 9857, id., Rep. 2002, voce Cosa giudicata civile, n. 34).

Al riguardo, sostanzialmente nella stessa ottica della giurisprudenza ricordata sopra, si è precisato altresì, sempre nella giurisprudenza di questa corte, che:

— un decreto ingiuntivo non opposto, richiesto ed ottenuto per una frazione soltanto del credito risultante, per l’intero, da un’unica fattura di maggior importo, non è idoneo a rivestire, in un successivo giudizio di opposizione ad altro e successivo decreto ottenuto per altra frazione dello stesso credito, forza e natura di giudicato, né interno (trattandosi di diverso processo), né esterno o implicito (trattandosi non di rapporto presupposto, ma di altra «porzione» del medesimo rapporto obbligatorio, controverso quoad executionis) (Cass. 8 agosto 1997, n. 7400, id., Rep. 1997, voce Ingiunzione (procedimento per), n. 124);

— l’improcedibilità dell’opposizione fa acquistare al decreto ingiuntivo, indipendentemente dal decreto di esecutività, l’efficacia di cosa giudicata sostanziale in relazione al diritto in esso riconosciuto. L’autorità di cosa giudicata sostanziale è, però, limitata all’accertamento positivo del credito di cui viene ingiunta la soddisfazione e non è, perciò, preclusiva di altre azioni (quale quella di revocazione e quella di accertamento del dovuto in base alle variazioni degli indici Istat per il periodo successivo a quello preso in esame nel decreto ingiuntivo divenuto esecutivo) (Cass. 29 ottobre 2001, n. 13443, id., Rep. 2001, voce cit., n. 100).

4. – In termini opposti, rispetto alla giurisprudenza richiamata sopra in altre occasioni questa corte ha affermato — peraltro — che l’ambito oggettivo del giudicato va valutato in relazione alla richiesta fatta valere in giudizio.

Pertanto, nell’ipotesi in cui sia stato ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento degli interessi legali sulle somme erogate in ritardo dal ministero dell’interno a titolo di indennità di accompagnamento, il giudice cui sia stata successivamente richiesta la rivalutazione monetaria su dette somme non può disattendere l’eccezione di precedente giudicato sollevata dal convenuto basandosi soltanto sulla statuizione contenuta nel decreto ingiuntivo non opposto, dovendo invece desumere la portata preclusiva di quel giudicato dalla domanda di ingiunzione proposta, atteso che, ove in quella sede fosse stata richiesta anche la rivalutazione monetaria, si sarebbe formato in relazione a tale richiesta, implicitamente disattesa, il giudicato di rigetto, con conseguente preclusione della domanda nei successivi giudizi (Cass. 20 gennaio 1999, n. 499, id., Rep. 1999, voce Cosa giudicata civile, n. 45; 15 marzo 1999, n. 2304, ibid., n. 52).

Analogamente, in altre occasioni, dalla premessa che la rivalutazione monetaria è una componente dell’originario credito previdenziale o assistenziale, di cui condivide la natura giuridica, si è affermato che allorché il creditore della prestazione, della quale sia stata tardivamente pagata la sola somma capitale, promuova l’azione giudiziaria per gli interessi legali su tale somma, ottenendo un decreto ingiuntivo o una sentenza di accoglimento, passati in giudicato, egli non può più proporre successivamente un’altra azione per richiedere, sulla base dello stesso fatto costitutivo, la rivalutazione monetaria sul medesimo importo.

Si è affermato, infatti, che l’autorità di giudicato conseguente al decreto ingiuntivo non opposto (nella specie emesso per il pagamento degli interessi legali sulle somme erogate in ritardo dal ministero dell’interno a titolo di indennità di accompagnamento) copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, restando così precluse tutte le questioni costituenti il presupposto logico, essenziale ed indefettibile della pronuncia (Cass. 7 aprile 2000, n. 4426, id., Rep. 2000, voce cit., n. 39).

5. – Ritiene il collegio che il contrasto vada composto privilegiando il primo degli enunciati indirizzi, sulla base delle osservazioni che seguono, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso.

5.1. – In primo luogo, a premessa del discorso che seguirà, è opportuna una precisazione.

Nonostante il diverso apprezzamento talvolta espresso in dottrina, nessuna norma positiva prescrive — né expressis né per implicito — che il giudice del monitorio è tenuto, alternativamente, o ad accogliere per l’intero la domanda o a rigettarla totalmente.

Deve concludersi, pertanto, che nulla si oppone — come del resto è quotidiano nella pratica giudiziaria — perché il giudice adìto accolga solo «in parte» la domanda di ingiunzione, sul presupposto che solo «in parte» sussistono le condizioni di ammissibilità volute dagli art. 633 ss. c.p.c.

5.2. – Contemporaneamente, sempre in limine, si osserva che l’art. 640 c.p.c. espressamente prevede che il decreto di rigetto della domanda proposta in via monitoria non pregiudica la riproposizione della domanda stessa anche in via ordinaria.

Con la conseguenza, pertanto, che il provvedimento con il quale il giudice rigetta la domanda di ingiunzione, nonostante il carattere decisorio, essendo inidoneo ad acquistare autorità di cosa giudicata, non rientra tra le sentenze impugnabili con ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass. 25 febbraio 1981, n. 1148, id., Rep. 1981, voce Ingiunzione (procedimento per), n. 19; 5 gennaio 1983, nn. 31, 32, 44 e 45, id., Rep. 1983, voce cit., nn. 12, 11, 13 e 14).

Pacifico quanto precede osserva il collegio che non risultano, né nelle altre disposizioni relative al procedimento di ingiunzione, né nelle regole generali fissate con riguardo alle «impugnazioni» e alla cosa giudicata formale e sostanziale, elementi che consentano di affermare che il provvedimento di «rigetto» della domanda di ingiunzione è soggetto a un regime «diverso» a seconda che il rigetto stesso riguardi l’«intera» domanda fatta al giudice o solo una parte di questa.

Deve escludersi, altresì, che sia possibile — come pure è stato suggerito — nell’ambito del provvedimento di «rigetto parziale» della domanda d’ingiunzione distinguere a seconda che la «domanda» non accolta sia, o meno, «autonoma», rispetto a quella accolta.

Con la singolare conseguenza, pertanto, che ove siano stati azionati due crediti distinti e solo per uno è stato emesso provvedimento monitorio, il creditore può riproporre la domanda non accolta anche in via ordinaria, mentre qualora uno solo sia il credito, e il giudice abbia «parzialmente» accolto la richiesta, per la parte rigettata (come nella specie, quanto agli interessi maturati sino a una certa data) si forma la «cosa giudicata» o, comunque, una «preclusione» che impedisce la riproposizione della richiesta per i «capi» sui quali vi è stata reiezione esplicita (o, eventualmente, implicita) da parte del giudice del monitorio.

In realtà occorre ribadire che la disposizione di cui all’art. 640 c.p.c. è una necessaria conseguenza dell’inimpugnabilità del provvedimento di rigetto e della natura del procedimento monitorio, nel quale la pronuncia di rigetto emessa inaudita altera parte, non può avere il valore di un accertamento negativo della domanda dell’attore (in termini, ad esempio, Cass. 8 ottobre 1956, n. 3408, id., Rep. 1956, voce cit., n. 46, in motivazione).

Tali principî — in quanto non contraddetti da alcuna disposizione espressa (o incompatibile con essi) contenuta nel codice di rito — devono valere, come già osservato da remota giurisprudenza di questa corte (cfr. Cass. 8 ottobre 1956, n. 3408, cit., in motivazione), anche nel caso di rigetto parziale, ricorrendo la medesima situazione e la medesima esigenza di tutela del diritto dell’attore.

5.3. – Contrariamente a quanto evidenziato da parte di alcune pronunzie di merito e privilegiato da autorevole dottrina, ancora, deve escludersi che il «giudicato» (o, come da alcuni si sostiene la «preclusione pro iudicato») quanto alla domanda (o parte di domanda) non accolta derivi dalla notifica, su istanza del creditore, al debitore, del decreto (che ha accolto parzialmente la sua richiesta).

La notificazione del decreto, infatti, è necessaria al fine di evitare che esso divenga inefficace ai sensi dell’art. 644 c.p.c.

Tale notifica, pertanto, non rivela affatto un’acquiescenza a esso, per la parte in cui contiene un rigetto della domanda, ma rivela soltanto la volontà del creditore di avvalersene e cioè di evitarne la caducazione, per la parte per la quale la domanda è stata accolta.

Ciò è in armonia, del resto, con il principio, costantemente affermato, che la notificazione della sentenza in forma esecutiva non importa rinuncia all’impugnazione per i capi sfavorevoli.

Se fosse esatto l’assunto della dottrina sopra richiamata (e, supposto dalla sentenza ora oggetto di ricorso) il creditore, nel caso di accoglimento parziale della domanda, dovrebbe lasciar decorrere il termine stabilito dall’art. 644 senza notificare il decreto, e, successivamente, divenuto inefficace il decreto per la mancata notificazione, dovrebbe proporre nuovamente la domanda per l’intero credito.

L’accoglimento parziale, pertanto, costituirebbe una pronuncia assai più sfavorevole del rigetto totale, costringendo il creditore a una lunga attesa che potrebbe pregiudicare irrimediabilmente la soddisfazione del suo diritto (al riguardo, cfr. Cass. 8 ottobre 1956, n. 3408, cit., in motivazione).

5.4. – Attesa la natura del decreto monitorio questo, divenuto definitivo per la mancata opposizione dell’intimato, ha un’efficacia assimilabile a quella della sentenza, per la parte con cui ha accolto la domanda: non l’ha, invece, per la parte con cui l’ha respinta, perché la reiezione non è una pronunzia di accertamento negativo a favore del convenuto, non presente nel procedimento.

È sufficiente, al riguardo, considerare che mentre l’intimato può provocare il contraddittorio con l’opposizione e ottenere la reiezione della domanda, accolta dal decreto, l’istante non ha la possibilità di provocare un processo in contraddittorio, ma solo quella, riconosciutagli dall’art. 640 c.p.c., di agire separatamente per l’accoglimento della parte della domanda non accolta.

5.5. – Irrilevante, al fine di pervenire a una diversa conclusione, ancora, è il rilievo che il creditore con la notifica del «decreto» che ha accolto, parzialmente, la sua domanda notifica il ricorso contenente la diversa (maggiore) pretesa azionata e, per l’effetto, sollecita il contraddittorio anche sulla «maggiore» domanda (per la parte non accolta).

È esatto, infatti, che per aversi cosa giudicata non è necessario il contraddittorio effettivo, bensì la provocazione a contraddire a una domanda giudiziale, che rappresenta la condicio sine qua non perché il provvedimento di merito acquisti efficacia di cosa giudicata, ma tali principî — come evidenziato sopra — trasferiti al procedimento per ingiunzione non possono condurre a una conclusione diversa da quella sopra indicata.

La struttura del procedimento sommario, infatti, fa sì che il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo sia univoco, e cioè limitato all’accoglimento della domanda, perché solo in questo caso la valutazione della prova da parte del giudice, combinandosi con la mancata opposizione dell’intimato che vale come conferma della fondatezza della domanda, in quanto è indice della giustizia del provvedimento, dà al decreto quel fondamento dal quale gli deriva poi l’efficacia di cosa giudicata.

Se la provocazione a contraddire è, infatti, necessaria per completare nell’ingiunzione l’accertamento sommario del giudice, nel caso che la domanda venga respinta in toto manca assolutamente la possibilità di instaurare il contraddittorio e viene meno quindi quel complemento indispensabile del provvedimento che è rappresentato dall’acquiescenza dell’intimato.

Analogamente, nel caso di rigetto parziale, che per sua natura partecipa del rigetto e dell’accoglimento, si ha in via reciproca una pronuncia positiva parziale e, quindi, una litispendenza ristretta nei confronti della parte di domanda che è stata accolta, mentre sul resto non vi è alcuna possibilità di costituire il contraddittorio, cosicché, mancando tale presupposto, viene meno la possibilità che il decreto acquisti autorità di cosa giudicata sul punto.

5.6. – L’assunto che qui si critica, inoltre, non considera che ove il giudice, adìto con ricorso per ingiunzione, «rigetta», ancorché parzialmente, la domanda, la rigetta non perché la stessa non trova, in assoluto, alcun riscontro (è, cioè, infondata) ma perché fanno difetto le «condizioni di ammissibilità» di cui agli art. 633 ss. c.p.c.

È palese, pertanto, che l’eventuale giudicato (o preclusione da giudicato) riguarda non — come affermato dalla sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione — la «fondatezza» della (porzione di) pretesa non accolta, ma — esclusivamente — l’assenza, al momento dell’iniziale domanda, delle condizioni per l’emissione di un decreto ingiuntivo su «tutte» le richieste formulate nella domanda per ingiunzione.

5.7. – Al fine di pervenire ad una soluzione diversa da quella sopra indicata come corretta — da ultimo — non è pertinente neppure l’invocazione del principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.

Giusta tale ultimo assunto, passato in cosa giudicata il decreto non opposto quanto alla somma capitale reclamata, non può più invocarsi, in un successivo giudizio, una pronunzia sui soli interessi.

E ciò sia nell’eventualità questi non siano stati originariamente chiesti, sia nella diversa ipotesi in cui — come nella specie — benché richiesti non sono stati attribuiti dal giudice del monitorio.

Con riguardo all’eventualità (unica ricorrente nel presente giudizio e sulla quale queste sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi) la domanda di interessi è stata proposta dal creditore e non accolta dal giudice è evidente la non applicabilità del principio esposto sopra.

Non solo, infatti, la pretesa del creditore, quanto agli interessi, nel caso di specie, è stata «dedotta» espressamente (e non era unicamente astrattamente «deducibile») ma mancano nel sistema positivo rimedi — diversi da quelli indicati dall’art. 640 c.p.c. («riproposizione della domanda anche in via ordinaria») — a favore del creditore in caso di rigetto di parte della domanda (specie nella eventualità, come nel caso in esame, in cui l’intimato abbia omesso di fare opposizione, avverso il decreto emesso).

Il discorso, infine, allo stato della giurisprudenza attualmente maggioritaria, non muta neppure nell’eventualità il creditore ometta di chiedere la condanna del proprio debitore oltre che al pagamento della somma capitale anche degli interessi.

Giusta quanto affermato da queste sezioni unite, in sede di risoluzione di altro contrasto nell’ambito delle sezioni semplici, infatti «è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall’impedimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall’ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni» (Cass., sez. un., 10 aprile 2000, n. 108/SU, id., Rep. 2000, voce Obbligazioni in genere, n. 16).

6. – Non essendosi, il giudice del merito, attenuto ai principî di diritto di cui sopra il primo motivo del ricorso deve accogliersi con assorbimento dei restanti.

All’accoglimento del primo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa ad altra sezione della Corte d’appello di Bari perché si uniformi al seguente principio di diritto: «il decreto ingiuntivo non opposto acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata solo in relazione al diritto consacrato e non con riguardo alle domande, o ai capi di domanda non accolti. La regola contenuta nell’art. 640, ultimo comma, c.p.c. (secondo cui il rigetto della domanda di ingiunzione non pregiudica la riproposizione della domanda, anche in sede ordinaria), infatti, trova applicazione sia in caso di rigetto totale della domanda di ingiunzione che di rigetto parziale (e, quindi, di accoglimento solo in parte della richiesta)».

(Cass. civ., s.u., 1.5.06, n. 4510).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che giudicato formale e sostanziale non sono in rapporto di successione cronologica tra loro, essendo bensì contestuali, e che il giudicato scende sul decreto ingiuntivo al momento in cui il giudice lo dichiara esecutivo:

Il motivo è infondato. Nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione del principio secondo cui non è opponibile al fallimento il decreto ingiuntivo non munito di decreto di esecutorietà ai sensi dell’art. 647 c.p.c.. In tale giurisprudenza, peraltro, come rileva esattamente la difesa della ricorrente, l’affermazione è spesso contenuta in un obiter dictum, come nel caso di Cass. 25 marzo 1995, n. 3580 ove si affermava “che entrambi i provvedimenti sopra individuati (ex art. 647 c.p.c., ovvero sentenza sull’opposizione) non possono più essere emessi a seguito del fallimento, con effetti vincolanti per la massa”, ma in una situazione nella quale al momento del fallimento pendeva l’opposizione al decreto ingiuntivo; ovvero nel caso di Cass. 20 settembre 1971, n. 2627, che decideva, per escluderla, sulla sindacabilità in sede fallimentare della erroneità della sentenza che aveva accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo; ovvero ancora nel caso di Cass. 3 gennaio 2013, n. 38 chiamata a decidere sul rilievo di una sentenza emessa all’esito di opposizione a decreto ingiuntivo, pubblicata dopo la dichiarazione di fallimento. Nella giurisprudenza di legittimità, peraltro, è stata sempre salda l’affermazione, resa indipendentemente dal fallimento del debitore, che il decreto ingiuntivo munito del decreto di esecutorietà ha efficacia di cosa giudicata (così dalle risalenti Cass. nn. 659/1966, 1246/1966, 1776/1967, 1125/1968 sino alla più recente Cass. 31 ottobre 2007, n. 22959).

Tuttavia, all’attenzione di questa Corte è venuta anche la specifica questione, risolta sempre in senso negativo, della opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo, munito o meno della provvisoria esecutività, ma non munito del decreto ex art. 64 7 c.p.c., quando i termini per proporre opposizione siano inutilmente scaduti prima della dichiarazione di fallimento (Cass. 26 marzo 2004, n. 6085; Cass. 13 marzo 2009, n. 6198; Cass. ord. 23 dicembre 2011, n. 28553;Cass. 13 febbraio 2012, n. 2032; Cass. 17 luglio 2012, n. 12205; Cass. 11 ottobre 2013, n. 23202). In alcuni casi si è anche precisato che il decreto ingiuntivo è opponibile soltanto quando il decreto di esecutorietà è stato emesso prima della dichiarazione di fallimento (le citate Cass. nn. 6085/2004; 6198/2009; 12205/2012).

Tali ultime decisioni hanno argomentato, in un caso, distinguendo tra “giudicato formale, interno, endoprocessuale”, che si formerebbe al momento della scadenza dei termini per proporre opposizione, e giudicato sostanziale, che si formerebbe soltanto al momento della apposizione del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. (Cass. n. 6085/2004, richiamata da Cass. n. 6198/2009) e, in un altro, sottolineando che è “solo con la dichiarazione di esecutività che il giudice verifica se non sia possibile che, per la nullità della notificazione del decreto di ingiunzione, l’intimato non ne abbia avuta conoscenza, e dichiara che, per non esservi stata tempestiva opposizione, si sono verificate le condizioni perchè esso sia divenuto non ulteriormente opponibile ed abbia acquistato esecutorietà, si da poter fondare il diritto a procedere alla esecuzione forzata per la realizzazione coattiva del credito” (Cass. n. 12205/2012). A tale orientamento deve darsi continuità con qualche precisazione.

La diversificazione sul piano temporale tra giudicato formale e giudicato sostanziale non può essere accolta (esula, ovviamente, dal tema il caso delle decisioni in rito suscettibili di giudicato formale, ma non di giudicato sostanziale). La distinzione tra i due concetti si basa sulla disciplina dettata, da una parte, dall’art. 324 c.p.c. (la cui rubrica è intitolata “cosa giudicata formale”) e, dall’altra, dall’art. 2909 c.c. (la cui rubrica è intitolata “cosa giudicata”). Il primo stabilisce che “si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta nè a regolamento di competenza, nè ad appello, nè a ricorso per cassazione, nè a revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5”. Il secondo stabilisce che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Come è evidente, e come è riconosciuto da autorevole dottrina e dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 luglio 1987, n. 5840; Cass. 2 marzo 1988, n. 2217), non esiste alcuna contrapposizione fra cosa giudicata formale e cosa giudicata sostanziale, posto che i due concetti sono relativi a due aspetti del medesimo fenomeno. L’art. 2909, stabilisce, infatti, gli effetti sul piano sostanziale del giudicato, presupponendo che altrove si stabilisca quando si forma il giudicato. La decisione giurisdizionale non più impugnabile con i rimedi ordinari previsti dall’art. 324 c.p.c., determina, d’altro canto, gli effetti sul piano delle certezze giuridiche, che, ai sensi dell’art. 2909 c.c., vengono definiti giudicato sostanziale.

Affermata la coincidenza temporale del giudicato formale e di quello sostanziale, si deve stabilire se il giudicato si forma al momento del decorso dei termini per proporre opposizione al decreto ingiuntivo quando questa non sia stata proposta, ovvero al momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, dichiara esecutivo il decreto ingiuntivo. La seconda soluzione si impone per due connesse ragioni. In primo luogo, al momento dello scadere dei termini per l’impugnazione non vi è stato alcun controllo giurisdizionale sulla notificazione e sulla sua idoneità a provocare un contraddittorio eventuale e posticipato sulla domanda proposta con il decreto ingiuntivo. Tale controllo, invece, rappresenta un momento irrinunciabile a garanzia del diritto di difesa dell’intimato ed ha natura analoga all’imprescindibile controllo che nel giudizio a cognizione ordinaria il giudice deve necessariamente effettuare prima di dichiarare la contumacia del convenuto (artt. 164, 183 e 291 c.p.c.). Senza tale controllo sarebbe “fuori sistema” parlare di giudicato anche solo formale e vi è spazio, come si preciserà più avanti, solo per un giudicato interno, i cui presupposti, però, sono oggetto di verifica da parte del giudice all’interno del processo. In secondo luogo, l’art. 647 c.p.c., prevede che, nel caso in cui non sia stata fatta opposizione nel termine, “il giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione, quando risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto conoscenza del decreto”. L’eventuale rinnovazione della notificazione consente perciò all’ingiunto di proporre, nei termini decorrenti dalla nuova notificazione, opposizione che va qualificata come ordinaria, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., e non già tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; il che conferma che alla scadenza dei termini per proporre opposizione non si forma la cosa giudicata formale e che questa si forma solo dopo il controllo del giudice sulla notificazione. Coerentemente, l’art. 656 c.p.c., prevede che, non il decreto non opposto, ma “il decreto d’ingiunzione, divenuto esecutivo a norma dell’articolo 647, può impugnarsi per revocazione nei casi indicati nell’art. 395, nn. 1, 2, 5 e 6”; sono esperibili, perciò, come emerge chiaramente dal confronto con l’art. 324 c.p.c., mezzi straordinari previsti per l’impugnazione contro i provvedimenti passati in cosa giudicata, ai quali mezzi si aggiunge, per espressa previsione dello stesso art. 656, la revocazione per contrasto con precedente giudicato (art. 395, n. 5) nonchè, per l’espressa previsione dell’art. 650 c.p.c., l’opposizione tardiva (sul fatto che l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto e munito di esecutorietà ex art. 647, non viene meno di per sè a seguito dell’opposizione tardivamente proposta v. Cass. s.u. 16 novembre 1998, n. 11549 e Cass. 6 ottobre 2005, n. 19429). E’ il caso di rilevare, sul piano sistematico, che la mancata definizione del procedimento d’ingiunzione con il decreto ex art. 647 c.p.c., non rende ovviamente irrilevante il fatto che il decreto ingiuntivo non sia stato opposto nei termini. Qualora, infatti, l’intimato dovesse proporre opposizione, e non ricorressero i presupposti per una opposizione tardiva, il giudizio di opposizione, che si configura come uno sviluppo della fase monitoria, dovrebbe chiudersi, previa ancora una volta l’imprescindibile verifica della regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo, con il rilievo d’ufficio del giudicato interno, formatosi nell’ambito dell’unitario procedimento in corso (Cass. 6 giugno 2006, n. 13252; Cass. 26 marzo 1991, n. 3258; Cass. 3 aprile 1990, n. 2707). Il giudicato formale e sostanziale, tuttavia, si formerebbe solo con la sentenza che dichiara l’inammissibilità dell’opposizione, come è reso evidente dal fatto che ove il giudice dell’opposizione erroneamente non rilevasse il giudicato interno ed accogliesse l’opposizione, la sentenza, se non impugnata, sarebbe idonea a passare in cosa giudicata (Cass. 20 settembre 1971, n. 2627).

In conclusione, la funzione devoluta al giudice dall’art. 647 c.p.c., è molto diversa da quella della verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 d.a.c.p.c. sulla mancata proposizione di una impugnazione ordinaria nei termini di legge e dall’art. 153 d.a.c.p.c. sulla verifica che “la sentenza o il provvedimento del giudice è formalmente perfetto”. Se ne differenzia, infatti, per il compimento di una attività giurisdizionale avente ad oggetto la verifica del contraddittorio, che, come già detto, nel processo a cognizione ordinaria ha luogo come primo atto del giudice e nel processo d’ingiunzione, ove non sia stata proposta opposizione, ha luogo come ultimo atto del giudice. La conoscenza del decreto da parte dell’ingiunto non rappresenta perciò una condicio juris che può essere accertata al di fuori del processo d’ingiunzione, eventualmente anche dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo, ma costituisce l’oggetto di una verifica giurisdizionale che si pone all’interno del procedimento di ingiunzione e che “chiude il cerchio” dell’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione. Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c., non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale nè può più acquisire tale valore con un successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione poichè, intervenuto il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive l’art. 52 l. fall., deve essere accertato nel concorso dei creditori, secondo le regole stabilite dalla L. Fall., art. 92 e ss., in sede di accertamento del passivo

(Cass. civ., 31.1.14, n. 2112).

L’esecutività del decreto ingiuntivo non deve essere confusa con il giudicato sostanziale:

Col primo motivo del ricorso si deduce violazione degli artt. 641, 645, 647 c.p.c. in relazione agli art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., per aver ritenuto che solo il c.d. visto di esecutorietà determinasse il passaggio in giudicato del d.i., mentre non solo, in generale, il passaggio in giudicato consegue al decorso del tempo unito al comportamento processuale della parte e non ad un provvedimento del giudice, ma, in particolare, l’affermato principio non trova conforto nelle disciplina dell’istituto, evidenzia confusione tra l’esecutorietà del d.i. e la sua definitività ed inoppugnabilità; si richiama a norme che si riferiscono soltanto ai decreti ingiuntivi che non siano già stati dichiarati provvisoriamente esecutivi.

Col secondo motivo di ricorso si assume la violazione e falsa applicazione degli art. 95 R.D. n. 267 del 1942, artt. 641 e 647 c.p.c.. La Corte territoriale, secondo la banca ricorrente, avrebbe errato nel ritenere che la deroga all’accertamento del credito nelle forme della procedura concorsuale sia esclusa solo nelle ipotesi previste dall’art. 95.3 L.F. (R.D. n. 267 del 1942) e non ricorra anche per i titoli giudiziari dotati di inoppugnabilità ed inopponibilità; avrebbe errato ancora nel ritenere che tale inoppugnabilità discenda solo dal decreto pronunciato ex art. 647 c.p.c., così attribuendo a tale decreto una funzione costitutiva del diritto anziché di mera verifica, in contrasto con una giurisprudenza talmente ovvia che il principio risulta affermato solo a contrario (Cass. 7221/98; 1754/97).

Col terzo motivo del ricorso si denuncia come error in procedendo la carenza ed illogicità della motivazione conseguente all’omesso esame delle ampie argomentazioni formulate dalla ricorrente nell’atto d’appello e nella comparsa conclusionale.

Esaminando i motivi in ordine inverso alla rilevanza, si può osservare che il terzo motivo è inammissibile: non solo, violando il principio di autosufficienza, le ampie argomentazioni contenute nell’atto d’appello e nella comparsa conclusionale non vengono neppur genericamente accennate – onde solo l’esame diretto di tali atti, in questa sede precluso, consentirebbe di valutare la fondatezza del motivo – ma configura inoltre come vizio processuale quella che, secondo la stessa esposizione del motivo, costituirebbe invece una carenza motivazionale.

Infondato è poi, in parte qua, il secondo motivo, perché non è vero che la sentenza impugnata abbia negato l’opponibilità, alla massa dei creditori, della cosa giudicata, risultando, anzi, dalla ratio decidendi già ricordata in narrativa, l’esatto contrario: “ogni … provvedimento, ancorché a carattere giurisdizionale, ricognitivo di un credito, quale appunto il decreto ingiuntivo… è inefficace nei confronti della massa, tranne il caso che lo stesso abbia assunto carattere di sentenza passata in giudicato” afferma (c.3 della motivazione) la sentenza d’appello, negando poi al decreto de quo l’efficacia di giudicato, perché privo del visto di esecutorietà. Il richiamo all’art. 95.3 R.D. n. 267 del 1942 (L.F.) completa l’indagine, precisando che, per il carattere eccezionale e perciò tassativo della previsione della norma richiamata, al decreto ingiuntivo privo del visto e quindi dell’efficacia di giudicato, non può attribuirsi neppure il regime derogatorio che la legge fallimentare riconosce alle sentenze non definitive.

E, poiché il giudice a quo non contesta che il decreto ingiuntivo possa formare giudicato, le citazioni giurisprudenziali della banca ricorrente (Cass. 7221/98; 1754 e 9346/97), per ricavarne, a contrario, tale possibilità, sono sostanzialmente superflue.

Rimane – ed è il motivo essenziale del ricorso – da esaminare il primo motivo e la residua parte del secondo motivo che pongono il quesito se la efficacia di cosa giudicata consegue all’inutile decorso del termine per proporre opposizione – non vengono qui in esame altre ipotesi: ordinanza di estinzione, mancata riassunzione (in caso di cancellazione, sospensione, interruzione) sentenza di rigetto dell’opposizione – od occorra invece il visto di esecutorietà che verrebbe ad espletare così una funzione accertativa della regolarità della notifica e costitutiva dell’efficacia di giudicato (Cass. 1028/70).

L’efficacia di giudicato (sostanziale) del decreto ingiuntivo non opposto, senza necessità di visto, viene affermata, non univocamente, in dottrina, nel rilievo che sarebbe inutile la previsione di un termine (perentorio: Cass. 1251/66; 15959/00) per proporre opposizione se poi, all’inutile decorso, non si collegasse alcun effetto di irrevocabilità del decreto; più univoca, invece, la soluzione giurisprudenziale che, nelle massime più risalenti, è esplicita nel senso che il decreto ingiuntivo, solo se dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata (Cass. 784/64; 659/66; 1246/66; 1776/67; 1125/68; 2627/71) mentre l’ulteriore effetto del visto, di conferire l’esecutività al decreto che ne è privo, è sottolineato da altre pronunce (Cass. 181/65; 1028/70; 2412/70; 3244/73).

Non sono in contrasto, sul punto, le sentenze che ammettono la possibilità di eccepire l’irrevocabilità del decreto ai sensi dell’art. 345 c.p.c. (Cass. 3107/91; 758/90; S.U., 2388/82) e di rilevarne la irrevocabilità come giudicato interno (Cass. 2707/90; 1492/89) o riconoscono, nel caso di notifica nulla (ma non inesistente) o di notifica oltre il termine fissato dall’art. 644 c.p.c., la necessità dell’opposizione – eventualmente, tardiva: Cass. 9872/97; 10183/01 – onde evitare la sanatoria per eventuale acquiescenza (perché anche all’opposizione a decreto ingiuntivo è applicabile il principio, dettato dall’art. 161 c.p.c. c. 1, della conversione delle nullità in motivi di impugnazione: Cass. 2724/90; 5234/91). Si tratta, infatti, del giudicato formale, interno, endoprocessuale che si esprime nella impossibilità di utilizzare, contro il decreto, i mezzi di impugnazione ordinali, mentre la necessità del visto riguarda il giudicato sostanziale, ovverosia la possibilità del decreto non opposto di produrre effetti al di fuori del processo.

Tanto premesso, l’esigenza di un controllo giudiziario sulla esistenza e validità della notifica del decreto sembra ineliminabile, perché è conseguente al principio del contraddittorio: solo nei confronti dell’ingiunto che ha avuto conoscenza della provocano dell’ingiungente si può configurare una acquiescenza alla pretesa avversaria ed il visto ex art. 647 c.p.c. ne costituisce l’accertamento, necessario all’efficacia extraprocessuale del giudicato, come, simmetricamente, l’accertamento dell’omessa od inesistente notifica è condizione ineliminabile della declaratoria di inefficacia ex art. 188 disp.att.c.p.c.. La esecutività, in quanto può conseguire anche ai provvedimenti di cui agli artt. 641, 642, 654 c.p.c.., costituisce un effetto ulteriore e distinto rispetto all’accertamento del giudicato sostanziale. Il ricorso va perciò rigettato; con compensazione delle spese in considerazione del carattere controverso della questione

(Cass. civ., 26.3.04, n. 6085).

Il giudicato che scende sul decreto ingiuntivo copre il dedotto e il deducibile, in ciò ricomprendendo la inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi del rapporto e del credito precedenti al ricorso per decreto ingiuntivo e non dedotti in sede di opposizione al decreto ingiuntivo:

1.1. L’esecutorietà del decreto per mancata opposizione del destinatario o per omessa costituzione dell’opponente ai sensi dell’art. 647 c.p.c. comporta, per il successivo art. 656, l’impugnabilità di esso per revocazione, nei soli casi dei nn. 1, 2, 5 e 6 dell’art. 395 c.p.c. e per opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c. e, quindi, la formazione della cosa giudicata formale ex art. 324 c.p.c., dovendosi limitare la prevista revocazione ex art. 395 n. 5 solo al caso dell’opponente che ha eccepito l’autorità del giudicato di una precedente sentenza e non si è poi costituito, quando su tale eccezione non si sia pronunciato il giudice che dichiara esecutivo il decreto. Per tale profilo, non vi è quindi ostacolo a ritenere che, in caso manchi l’opposizione a decreto, dichiarato esecutivo ex art. 647 c.p.c., lo stesso s’intende passato in giudicato in senso formale, con il naturale effetto ulteriore che gli accertamenti in esso contenuti fanno stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e aventi causa (art. 2909 c.c.). Il decreto non opposto “accerta” sicuramente il credito azionato in sede monitoria e le fonti di esso e, per la prevalente dottrina e giurisprudenza, esclude l’inesistenza o inefficacia di fatti precedenti al ricorso introduttivo che potevano essere oggetto del giudizio di opposizione, a cognizione piena e tendente all’accertamento negativo delle pretese del ricorrente. Entro detto limite costituito dal thema decidendum del ricorso monitorio, come in ogni ipotesi di sentenza definitiva, si produce il giudicato sostanziale di decreto ingiuntivo non impugnato e si è quindi esattamente affermato: “Il giudicato d’accoglimento formatosi a seguito della mancata opposizione avverso un decreto ingiuntivo recante intimazione di pagamento di canoni arretrati in relazione ad un rapporto di locazione, non si limita a fare stato tra le stesse parti circa l’esistenza o la validità del rapporto corrente inter partes e sulla misura del canone preteso ma anche circa l’inesistenza di ogni fatto impeditivo o estintivo, anche non dedotto ma deducibile nel giudizio di opposizione, quale quello atto a prospettare l’inesistenza totale o parziale del credito azionato in sede monitoria dal locatore a titolo di canoni insoluti, per effetto di controcrediti del conduttore per somme indebitamente corrisposte in ragione di maggiorazioni contra legem del canone” (Cass. 11 giugno 1998 n. 5801, sulla scia di Cass. 20 aprile 1996 n. 3757 richiamata nella sentenza impugnata). Nel procedimento monitorio il giudice che emette il decreto è giudice dell’azione di cui al ricorso e ne decide, con l’ammissibilità, la fondatezza nel merito, esaminando l’esistenza dei fatti costitutivi del credito azionato; contestualmente egli è tenuto a rilevare l’assenza di fatti ostativi alla pretesa anteriori al ricorso e da lui rilevabili di ufficio che emergano dalla documentazione allegata dal ricorrente o dalla prova scritta presupposto indefettibile dell’ingiunzione (art. 633 n. 1 c.p.c.). Il giudice del decreto non può tener conto invece delle eccezioni in senso proprio che solo l’altra parte del rapporto può proporre con l’opposizione, la quale ha natura non solo d’impugnazione del decreto ma anche di comparsa di risposta al ricorso introduttivo dell’azione monitoria (Cass. 13 dicembre 1999 n. 13980); in mancanza di detta opposizione l’esecutorietà comporta il superamento di ogni eccezione che l’interessato avrebbe potuto rilevare con l’unica forma d’impugnazione riconosciutagli. Pertanto erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che la preclusione del giudicato da decreto ingiuntivo non opposto sia processuale e impedisca la sola ripetizione di indebito, in quanto essa copre anche il deducibile non dedotto con l’opposizione, cioé fatti impeditivi, modificativi e estintivi del credito azionato anteriori al decreto (Cass. 10 aprile 2000 n. 4531); quindi il giudicato sostanziale del decreto non opposto si estende non solo al statuizione (*) sul credito azionato, cioé sul bene della vita oggetto di ricorso, ma anche all’esistenza e validità del rapporto sul quale detto credito si fonda(Cass. S.U. 16 novembre 1998 n. 11549, con le sentenze citate a pag. 7 del ricorso). Nel procedimento monitorio il magistrato che provvede è giudice non solo dell’azione di cui al ricorso espressamente esaminato per emettere l’ingiunzione, ma anche delle eccezioni non proposte per mancata opposizione, coprendo la sua decisione con il dedotto dal creditore ricorrente anche il deducibile del debitore non opponente, per cui il giudicato da decreto non può che avere la medesima portata e misura di quello da sentenza nel giudizio ordinario, non potendosi riesaminare le questioni da esso decise definitivamente per l’acquiescenza del debitore che non ha tempestivamente proposto opposizione ovvero l’ha proposta non costituendosi successivamente. Il debitore ha l’onere d’opporsi al decreto se vuole impedire gli effetti del giudicato; quando adempie a detto onere, non si ha problema di giudicato che quindi non si forma nell’esecuzione provvisoria dell’art. 642 c.p.c. né con i decreti di rigetto del ricorso per ingiunzione o d’accoglimento parziale di esso per la parte non accolta, cui si riferisce la sentenza impugnata, che sul punto non rileva che in questi casi non può proporsi opposizione e quindi non v’é giudicato né un dedotto e deducibile sul quale lo stesso possa formarsi, come invece avviene nell’art. 647 c.p.c. Il giudicato sostanziale del decreto ovviamente non copre questioni sulle quali il giudice non si sia pronunciato se esse siano esterne al rapporto sostanziale e non costituiscono presupposto logico di questo, come si è detto per la questione della legittimazione alla causa rispetto al rapporto obbligatorio implicitamente riconosciuto dal decreto ingiuntivo (Cass. 19 aprile 2000 n. 5092) e come deve affermarsi per i fatti successivi al giudicato che si eccepisce, come ad es., nel caso, per le autorizzazioni ai pazienti per le analisi di medicina nucleare di cui si chiede il pagamento

(Cass. civ., 24.11.00, n. 15178).

Deve anche ricordarsi come un autorevole studioso del processo civile, Montesano, abbia sostenuto che nel caso del decreto ingiuntivo non si avrebbe a che fare, propriamente, con l’istituto del giudicato, bensì con una preclusione pro judicato. Il decreto ingiuntivo, in altre parole, non andrebbe oltre la statuizione portata dal decreto di ingiunzione, ossia mai extra litem né ultra partem.

Altra parte della dottrina ha espresso posizioni simili: Andrioli ha ritenuto che quello del decreto ingiuntivo sia un istituto dagli effetti analoghi, ma non coincidenti con il decreto ingiuntivo; Giudiceandrea ritiene che quello del decreto ingiuntivo sia sì un giudicato, ma dalla portata più limitata rispetto al giudicato comune.

Questa ricostruzione incide sul concetto di deducibile, portato con sé dall’istituto del giudicato; quest’ultimo, infatti, estende i propri effetti sul dedotto e sul deducibile, ossia, come statuito dalla Cassazione sopra ricordata, su tutti i fatti modificativi, estintivi ed impeditivi del credito portato dal decreto di ingiunzione.

Essa è stata infatti criticata da quanti hanno contestato la commistione tra preclusione e giudicato ed hanno ricordato come la sommarietà del giudizio monitorio non implichi una restrizione della sfera di efficacia del decreto di ingiunzione, rispetto a quella di una sentenza di merito di condanna (Garbagnati).

La teoria che non riconosce il giudicato al decreto ingiuntivo, pure se autorevolmente sostenuta, è stata respinta dalla Cassazione civile:

Il motivo è infondato.

Vero è, come afferma il ricorrente, che una parte della dottrina sostiene, in base alla lettera dell’art. 2909 c.c., che l’autorità del giudicato può derivare solamente da una sentenza e che il decreto ingiuntivo non opposto può dar luogo soltanto “a un fenomeno di preclusione presunzione pro iudicato” che impedisce all’ingiunto di opporsi all’esecuzione forzata e di esercitare la condictio indebiti (con la conseguenza che “dal decreto non si possono desumere effetti che vadano oltre i limiti della pura e semplice protezione di quanto conseguito o conseguibile in via di esecuzione”), ma è altrettanto vero che questa concezione è contrastata, oltre che dalla giurisprudenza, da un’altra parte, più consistente, della medesima dottrina, secondo la quale il decreto divenuto definitivo per mancata opposizione o a causa di opposizione dichiarata inammissibile deve essere assimilato in tutto e per tutto alla sentenza passata in giudicato. Si asserisce, al riguardo, che non può darsi peso al fatto che l’art. 2909 c.c., a proposito del giudicato, menzioni solamente la sentenza, dato che ciò non impedisce che la stessa efficacia abbiano anche altri provvedimenti che, pur avendo una forma diversa, sono identici nella sostanza alla sentenza, e, inoltre, che non possono trarsi argomenti, a favore della tesi contraria, dalla sommarietà del procedimento e dall’assenza del contraddittorio, dato che il provvedimento contiene pur sempre un accertamento operato dal giudice e dato che l’ordinamento non esclude in via assoluta l’eventualità della cognizione piena e del contraddittorio, ben potendo l’interessato, tramite l’opposizione, instaurare un ordinario giudizio contenzioso.

In particolare, a sostegno di questo secondo indirizzo, ritiene la Corte di dover riportare, condividendoli, i risultati cui è pervenuta una autorevole dottrina in base all’analisi di alcune disposizioni contenute nel codice di rito.

In primo luogo, poiché l’art. 656 c.p.c. consente l’impugnazione del decreto ingiuntivo divenuto esecutivo con i mezzi cd. straordinari (art. 395 c.p.c., n. 1, n. 2 e n. 6 e art. 404, comma 2, c.p.c.) – 1 quali, in quanto tali, presuppongono il giudicato – è evidente che anche al provvedimento in questione è dall’ordinamento riconosciuta l’autorità del giudicato.

In secondo luogo, come pure stabilisce l’art. 656 c.p.c., il decreto ingiuntivo divenuto esecutivo può essere impugnato per revocazione anche per il motivo previsto dal n. 5 dell’art. 395 c.p.c., che prevede il contrasto con una precedente sentenza passata in giudicato. Pertanto, poiché da parte dell’ordinamento si ammette una tale impugnazione, si deve del pari ammettere – altrimenti la disposizione di legge, in quanto priva di ratio, sarebbe addirittura illogica – che anche il provvedimento che chiude la procedura monitoria produce il giudicato.

In terzo luogo, è pacificamente riconosciuto che, come avviene per l’opposizione all’esecuzione promossa sulla base di una sentenza passata in giudicato, il debitore non può dedurre con l’opposizione all’esecuzione, instaurata in base a un decreto ingiuntivo divenuto esecutivo, eccezioni su fatti accaduti in epoca antecedente alla pronuncia del decreto, dato che tali eccezioni possono essere fatte valere solamente con l’opposizione prevista dagli artt. 645, 646 e 650 c.p.c. (v., in tal senso, per quanto concerne la giurisprudenza, Cass., 27 novembre 1973, n. 3244). E, da ciò, si trae la conseguenza che, qualora il decreto sia divenuto esecutivo, non può essere più contestato il diritto che ne costituisce l’oggetto, il che equivale ad affermare che, ai sensi dell’art. 2909 c.c., il diritto oggetto di accertamento nel procedimento monitorio può formare oggetto di giudicato.

Infine, posto che l’art. 642 c.p.c. ammette la richiesta di decreto ingiuntivo anche nel caso che il creditore sia già munito di un titolo stragiudiziale, se si negasse l’autorità del giudicato al provvedimento monitorio la norma dovrebbe essere ritenuta illogica, perché consentirebbe l’esercizio di un’azione da parte di un soggetto privo del necessario interesse ad agire. Né si dica che un tale interesse sussisterebbe comunque per il fatto che solo con il decreto ingiuntivo può essere iscritta l’ipoteca giudiziale sui beni del debitore, dato che il suddetto art. 642 c.p.c. non limita la richiesta del procedimento monitorio a colui che non sia ancora munito di ipoteca, ma la consente anche se il creditore, per altro verso, abbia già conseguito la garanzia reale; senza contare, poi, che l’iscrizione dell’ipoteca, costituendo un effetto secondario del provvedimento emesso dal giudice, non può giustificare, prescindendosi dagli effetti principali e diretti, l’interesse ad ottenere il provvedimento di cui si discute.

Questa essendo l’elaborazione che in dottrina è stata tratta dall’interpretazione delle indicate disposizioni di legge, la giurisprudenza, come è stato sopra accennato, ne condivide i risultati. Da parte di questa Corte, infatti, è stato più volte affermato che il decreto ingiuntivo, non opposto nel termine stabilito dalla legge, acquista autorità ed efficacia di cosa giudicata al pari di una sentenza di condanna (Cass., 2 aprile 1987, n. 3188; v., in ordine all’assimilabilità del decreto alla sentenza di condanna, anche Cass., 16 aprile 1968, n. 1125, Cass., 14 luglio 1967, n. 1776 e Cass., 17 maggio 1966, n. 1246) e che tanto la mancata opposizione quanto l’opposizione tardiva fuori dai casi previsti dalla legge fanno acquistare al decreto ingiuntivo autorità di cosa giudicata sostanziale in relazione al diritto in esso attribuito (Cass., 10 febbraio 1972, n. 349) e in ordine sia ai soggetti che alla prestazione dovuta (Cass., 7 ottobre 1967, n. 2326; per la configurabilità del giudicato interno, rilevabile anche d’ufficio, v. Cass., Sez. Un., 19 aprile 1982, n. 2387 e Cass., 26 marzo 1991, n. 3258).

Come avviene per la sentenza, inoltre, anche riguardo al decreto ingiuntivo il giudicato copre non solamente la decisione relativa al bene della vita chiesto dal ricorrente, ma anche quella, implicita, inerente all’esistenza del fatto costitutivo del diritto del quale viene chiesta la tutela. Ed invero, ancorché l’accertamento compiuto dal giudice con il procedimento monitorio sia sommario ed eventuale in quanto soggetto a verifica in caso di opposizione, è evidente che lo stesso deve riguardare, prima di ogni altra cosa, l’esistenza e la validità del rapporto giuridico sul quale si fonda l’effetto dedotto e che costituisce il presupposto logico-giuridico della pronuncia finale (cd. punto pregiudiziale, che dà luogo al giudicato cd. implicito).

Questo principio, ricorrente nella giurisprudenza di legittimità con riferimento al giudicato derivante dalla sentenza (cfr., da ultimo, Cass., 28 settembre 1994, n. 7890 e Cass., 13 febbraio 1993, n. 1811), è stato espresso da questa Corte anche in relazione al decreto ingiuntivo. In più occasioni, infatti, è stato affermato che il giudicato derivante dal decreto ingiuntivo non opposto produce l’effetto di rendere indiscutibile il rapporto giuridico dedotto (Cass., 22 maggio 1987, n. 4647) e che, per conseguenza, è impedito al giudice, in un successivo giudizio, di procedere a un nuovo accertamento del rapporto giuridico che aveva formato oggetto di esame nel procedimento monitorio, dal momento che l’efficacia del decreto ingiuntivo divenuto esecutivo “si estende a tutte le relative questioni, impedendo che in un successivo giudizio avente per oggetto una domanda fondata sullo stesso rapporto si proceda a nuova esame” (Cass., 10 febbraio 1972, n. 349, sopra indicata). E, sulla base di questi principi, è stato asserito che la pronuncia di condanna al pagamento di una somma di danaro, anche se contenuta in un decreto ingiuntivo, deve necessariamente fondarsi sul compiuto accertamento del dedotto rapporto obbligatorio, con efficacia preclusiva piena in relazione ai soggetti e all’esistenza dei fatti che ne costituiscono il fondamento (Cass., 7 ottobre 1967, n. 2326, sopra indicata, in motivazione).

Nella specie, pacifico essendo che con il precedente decreto divenuto esecutivo per mancata opposizione era stato ingiunto al Bertoldo di pagare all’INPS le somme di danaro corrispondenti ai contributi previdenziali omessi nel periodo dal 1° gennaio 1981 al 31 luglio 1985, legittimamente da parte dello stesso INPS è stato richiesto un secondo decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento delle sanzioni civili relative alle medesime omissioni (v., in ordine alla possibilità che ha il creditore di chiedere in via ordinaria o per mezzo di altro decreto ingiuntivo gli accessori del credito oggetto di un precedente decreto, Cass., 2 aprile 1987, n. 3188, sopra indicata).

D’altra parte, come bene ha affermato il Tribunale, le sanzioni civili costituiscono veri e propri mezzi di rafforzamento dell’obbligazione contributiva e sono disposte dalla legge, come conseguenza automatica dell’inadempimento, allo scopo di risarcire in maniera predeterminata il danno cagionato all’ente assicuratore (v., fra le tante sentenze, Cass., 14 aprile 1994, n. 3476 e Cass., 17 marzo 1992, n. 3239). Di tal che, trovando le due distinte domande proposte dall’INPS la loro fonte nel medesimo fatto generatore (il mancato pagamento dei contributi previdenziali), non può essere sindacata la decisione impugnata nella parte in cui è stato asserito che, attesa l’efficacia preclusive del precedente giudicato, non poteva essere più contestato il rapporto giuridico inerente sia al credito principale che alle sanzioni civili. Il che equivale ad asserire, contrariamente a quanto pretende il ricorrente, che non può essere più rimessa in discussione l’efficacia dei mezzi di prova – già valutati e ritenuti sufficienti nel precedente procedimento – diretti a dimostrare l’esistenza del rapporto obbligatorio e l’inadempimento del debitore e, quindi, idonei a fondare tanto la richiesta di pagamento dei contributi omessi quanto la domanda inerente agli accessori, salva, ovviamente, la possibilità che aveva l’obbligato, come pure bene ha osservato il Tribunale, “di contestare le condizioni specifiche per l’applicabilità di dette sanzioni e l’entità delle stesse”

(Cass. civ., 20.4.96, n. 3757).

In conclusione, possiamo ritenere oramai acquisita l’affermazione a tenore della quale il decreto di ingiunzione passa in giudicato.

Ora, se al decreto ingiuntivo è applicabile il giudicato, si deve convenire che sul credito portato da un decreto ingiuntivo non opposto si deve applicare la regola per cui la relativa statuizione di merito copra dedotto e deducibile, con ciò significando le eccezioni che il debitore, resosi opponente, avrebbe potuto esperire nel giudizio di opposizione al decreto stesso.

In altre parole, come precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, il giudicato che scende sul decreto ingiuntivo copre il dedotto e il deducibile non dedotto in sede di opposizione:

12. Il dispositivo della sentenza impugnata è conforme al diritto anche nella parte in cui ha accolto l’opposizione senza lasciare fermo il decreto di ingiunzione.

Invero, è presente nella giurisprudenza della Corte, espresso da non poche decisioni, l’indirizzo secondo il quale il decreto ingiuntivo deve essere revocato nel giudizio di opposizione, in caso di cessazione della materia del contendere, soltanto quando risulti la fondatezza dei motivi dell’opposizione medesima, con riferimento alla data di emissione di quel provvedimento, sicché, qualora il debito si estingua per sopravvenuto adempimento (ipotesi praticamente coincidente con quanto si è avverato nel caso di specie), e sia da escludere l’indicata fondatezza, deve negarsi la revoca del decreto e devono porsi a carico dell’ingiunto le spese con esso liquidate, oltre le spese del giudizio di opposizione secondo il criterio della soccombenza virtuale (Cass. 12521/1998, 4804/1992, 6121/1983).

Ma di gran lunga più persuasivo, oltre che prevalente, è l’opposto indirizzo, secondo il quale il fatto sopravvenuto (sia esso considerato come estintivo del fondamento della pretesa azionata, ovvero come carenza sopravvenuta di interesse), se idoneo a precludere una decisione sul merito della pretesa, necessariamente travolge anche la pronunzia (di merito e suscettibile di passare in cosa giudicata) resa nella fase monitoria (Cass., sez. un., 7448/1993 e Cass. 1690/1989, 1690/1992, 9490/1995, 13027/95, 5336/1997).

Infatti, l’oggetto del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo non è limitato alla verifica delle condizioni di ammissibilità e di validità del decreto, ma si estende all’accertamento dei fatti costitutivi, modificativi ed estintivi del diritto in contestazione con riferimento alla situazione esistente al momento della sentenza, sicché anche quando risulti fondata un’eccezione di pagamento solo parziale del debito in un momento posteriore all’emissione del decreto, si deve revocare in toto il decreto opposto. Del resto, l’indirizzo dal quale ci si discosta è costretto a precisare che resta in ogni caso salva l’opponibilità dell’avvenuto pagamento, se il creditore, ancorché soddisfatto, si avvalga del decreto non revocato come titolo esecutivo, dimostrando così l’incongruità e il contrasto con il principio di economicità di una soluzione che lasci persistere formalmente un titolo esecutivo per la realizzazione di un diritto che più non esiste

(Cass. civ., 10.4.00, n. 4531).

Tale concetto, tuttavia, non può essere dilatato fino a comprendere questioni esterne al rapporto giuridico sostanziale fondante il portato dal decreto ingiuntivo e sulle quali il giudice non abbia avuto modo di pronunciarsi:

Con l’unico motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 647, 34 e 324 c.p.c. e 2909 c.c; omessa motivazione su punto decisivo della controversia, assumendo che la normativa richiamata attribuisce al decreto ingiuntivo non opposto, come alla sentenza, efficacia di cosa giudicata sostanziale, in relazione al diritto accertato, ai soggetti, all’oggetto e ai presupposti, così impedendo che in un successivo giudizio avente ad oggetto una domanda fondata sullo stesso rapporto se ne rinnovi l’esame. Lamenta che la Corte del merito abbia erroneamente interpretato la normativa sulla cosa giudicata e sui relativi effetti preclusivi sul piano processuale.

La controricorrente eccepisce preliminarmente che non essendo stata impugnata la motivazione ed il dispositivo della sentenza, questa è passata in giudicato.

L’eccezione è infondata, perché la. ricorrente ha impugnato la sentenza deducendo fondamentalmente violazione e falsa applicazione di legge, oltre che un vizio di motivazione, chiedendo la cassazione della sentenza.

Il ricorso è tuttavia infondato, sotto entrambi i profili dell’unico motivo, rivolto a contestare l’assunto della sentenza impugnata, secondo cui i decreti ingiuntivi definitivi, per mancata opposizione, non hanno efficacia di giudicato sostanziale in ordine alla legittimazione passiva della USL 53 di Salerno, rispetto alle pretese di credito fatte valere nel presente giudizio.

Se non è controverso, in punto di diritto, quanto deduce la ricorrente con la prima prospettazione della censura, e cioé che il decreto ingiuntivo non opposto sia provvedimento idoneo ad acquistare, in difetto di opposizione, autorità di cosa giudicata, sia sulla regolarità formale del titolo che sulla esistenza del credito (Cass. 11641/1997; 3757/1996; 4547/1987), tanto in ordine all’oggetto che ai soggetti, così che la sua efficacia si estende a tutte le questioni relative, impedendo che in un successivo giudizio, avente ad oggetto una domanda fondata sullo stesso rapporto, se ne proceda a nuovo esame (cfr.. Cass. 1994/1997; 7891/1995), è però altrettanto pacifico che l’ambito della sua estensione si determina in funzione di tutto ciò che è stato oggetto di contrasto reale tra le parti e sulla base di ciò che il giudice ha ritenuto certo e sempreché quell’accertamento sia necessariamente ed inscindibilmente legato alla statuizione finale (Cass. 11228/1997; 6532/1995; 1460/1995).

Conseguentemente non può condividersi l’assunto che, ritraendo le pretese di credito ragione dal medesimo rapporto corrente tra le stesse parti già fatto valere con i ricorsi per ingiunzione, accolti con i decreti non opposti, anche quelle pretese debbano trovare il proprio regolamento nella disciplina di quei decreti, in forza del dedotto giudicato, e ciò sia per il diverso arco temporale che essi hanno riguardato – come appresso si vedrà e come bene ha evidenziato la sentenza impugnata – sia per la specificità della causa che la Corte di merito ha valutato nella presente controversia, che non corrisponde a quella stessa posta a base delle ingiunzioni non opposte.

É ius receptum che il giudicato è ancorato non solo alla identità soggettiva ma anche a quella oggettiva tra rapporto definito e rapporto da definire e si forma sia sulle statuizioni contenute in dispositivo che sugli accertamenti risultanti dalla motivazione, in ordine a fatti o rapporti giuridici controversi – questioni in senso lato – o anche non controversi (Cass. 5968/1995), purché non si tratti di affermazioni incidenter tantum; nonché sulle questioni che di quelle decise con la pronunzia dispositiva costituiscono la premessa necessaria ed indefettibile o il fondamento logico – giuridico (Cass. 11228/1997; 12905/1997; 501/1996). Sicché, quando del rapporto controverso mutino alcuni elementi, come il dato temporale, che sulla sua evoluzione abbia inciso, per effetto della successione di norme che ne abbiano trasformato il regime o per effetto della cessazione di quelle che a tempo determinato hanno operato, ovvero dalle situazioni giuridiche che da esso derivino si prospettino variazioni qualitative, in ordine alla legittimazione, attiva o passiva che sia, il pregresso giudicato cessa di operare, essendo venuta meno la originaria causa petendi, fatta valere su basi fattuali e giuridiche diverse, rispetto a quelle attuali (Cass. 12084/1990, 8358/1998; 4686/1997; 9744/1992), essa corrispondendo non tanto ad un generico rapporto obbligatorio, che ne è alla base, quanto al fatto o all’atto da cui si afferma che esso sia sorto, non essendo sufficiente la mera affermazione che taluno è debitore, – come mostra di ritenere la ricorrente – potendo più fatti ed atti creare altrettanti e distinti rapporti obbligatori, mentre solo con la precisazione del fatto costitutivo di ciascuno di essi si indica su che cosa la pretesa dell’attore esattamente si fonda, con la conseguenza che, in materia obbligatoria, il giudicato trova un limite in tale fatto costitutivo, che del diritto finisce per essere il segno distintivo

(Cass. civ., 19.4.00, n. 5092).

2 – La soluzione proposta dal Tribunale di Monza, 25.7.15

Applicando questi principi, dobbiamo concludere che, se per avventura un utente del credito bancario si sia reso inadempiente e, ricevuto il decreto ingiuntivo, non lo abbia opposto, lasciando così perimere il termine utile al fine di esperire il relativo giudizio di opposizione, le questioni relative ad anatocismo, usura e costo del credito non sono più proponibili, siccome esse ben potevano essere dedotte dal debitore in sede di opposizione al decreto ingiuntivo.

In altre parole, possiamo concludere che dette questioni rientrano nel deducibile del decreto ingiuntivo.

Ora, questa conclusione urta la sensibilità di molti pratici del diritto, per la ingiustizia sostanziale che essa viene a veicolare in danno di molte persone, che talora subiscono esecuzioni immobiliari per crediti gonfiati da pratiche illegittime perpetrate dall’istituto bancario creditore.

In altra sede[1] mi sono occupato del problema, offrendo una ricostruzione della questione che fa leva sul concetto della revocazione ex art. 395 c.p.c.

Nel momento in cui la banca applica interessi che sono divenuti usurari, oppure interessi anatocistici, o ancora commissioni di massimo scoperto in modo illegittimo, oppure pratichi i c.d. giochi valuta, essa deve dirsi in dolo. Detto dolo, che può essere unilaterale, potrebbe essere visto sia come dolo penale, ossia come coscienza e volontà di praticare usura e/o appropriazione indebita, sia come dolo revocatorio, utile a superare il giudicato sceso sul decreto di ingiunzione.

In questa sede, posso solo aggiungere che, di recente, un giudice di merito ha ritenuto che la banca possa essere condannata per colpa grave, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., ogni volta in cui essa abbia agito o resistito in giudizio applicando principi pacificamente affermati dalla giurisprudenza, come, in quel caso, la nullità delle clausole, contenute nei contratti bancari, che rinviino agli usi piazza (T. Pescara, 23.7.15).

Analogo principio potrebbe essere applicato, ricorrendone i presupposti, per avvalorare il dolo revocatorio della banca che abbia violato regole e principi pacificamente affermati dalla giurisprudenza, applicando in modo palesemente illegittimo interessi anatocistici o divenuti usurari, ad esempio.

* * *

Di recente, si è occupata del problema in questione una decisione di merito, la quale ha compiuto un percorso argomentativo che, a detta dello scrivente, può dirsi inappagante.

La sentenza richiama la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile al decreto ingiuntivo l’istituto del giudicato, per ricordare come vi sia un precedente di merito (T. Pordenone, 7.3.12). secondo il quale non sarebbe coperta dal deducibile l’eccezione di usurarietà degli interessi. Ciò in quanto l’ordinamento non tollererebbe di dare corso a una pretesa creditoria usuraria, ancorché su di essa sia sceso il giudicato. Ciò sarebbe motivato anche dal fatto che, in presenza di usura sopravvenuta, la sopravvenienza della natura usuraria degli interessi rispetto al momento di formazione del giudicato sceso sul decreto ingiuntivo farebbe salvo l’insegnamento tradizionale per cui il giudicato si estende al dedotto e al deducibile: l’eccezione di usura sopravvenuta, in quanto formatasi in epoca successiva al giudicato, non avrebbe potuto essere proposta in sede di opposizione a decreto ingiuntivo (T. Reggio Calabria, 4.2.04).

La decisione in commento conclude con il richiamo della decisione a Sezioni Unite (n. 61 del 7.1.14) sul principio di persistenza del titolo esecutivo nel corso del giudizio di esecuzione, in quanto essa, laddove afferma la non necessarietà della sopravvivenza del titolo esecutivo del creditore procedente, ammette che l’esecuzione sia salva nel caso in cui vi sia almeno un valido titolo esecutivo portato da un creditore intervenuto, ossia da altro partecipante al giudizio di esecuzione, avente i medesimi poteri del procedente (laddove, beninteso, si tratti di intervenuto dotato di titolo esecutivo e non di creditore privo di titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 499, comma 3, c.p.c.).

Tale richiamo è motivato dall’osservazione in base a cui nel caso di specie si doveva abbassare il credito bancario per i periodi in cui esso era sfociato in usura, rimanendo per contro scevro dalle censure mosse dal debitore in sede di opposizione all’esecuzione un credito ulteriore, come tale idoneo a giustificare e a proseguire l’esecuzione.

* * *

La soluzione adottata dal Tribunale di Monza sembra non tenere conto che la banca ben potrebbe applicare commissioni indebite, interessi anatocistici e interessi divenuti usurari già in sede di calcolo della pretesa creditoria, ossia prima del deposito del ricorso per decreto ingiuntivo.

In un caso del genere, le relative doglianze rientrano a pieno diritto nel concetto di deducibile ed esse non potrebbero essere fatte valere nel giudizio di opposizione all’esecuzione intentato dal debitore bancario.

Né è pacifico il principio, qualificato come tale dalla decisione del Tribunale di Pordenone, secondo cui l’ordinamento si opporrebbe ad apprestare la propria tutela a un decreto ingiuntivo passato in giudicato portante un credito usurario.

Ciò che significherebbe affermare che l’eccezione di usurarietà esulerebbe dal deducibile del giudicato, siccome fondata su norma penale.

Nelle parole della sentenza citata:

L’unico profilo ancora deducibile in questa sede – nei limiti di cui si dirà oltre – è quello relativo alla lamentata pretesa di interessi usurari, posto che secondo consolidata giurisprudenza, la rilevanza penale della condotta consente di ritenere proprio del nostro ordinamento un principio assoluto che impone di non dar corso alla dazione di interessi usurari, neppure sulla base di un titolo passato in giudicato

(T. Pordenone, 7.3.12, cit.).

La conseguenza che il Tribunale di Pordenone trae, seguito da quello di Monza, consiste nella inesigibilità parziale del credito da interesse, nella misura in cui essi superano il tasso soglia. A tale conclusione era già pervenuto il T. Padova, 10.8.01, citato dal Tribunale di Pordenone.

In contrario, deve rilevarsi: i) che il principio che sottrae dal deducibile le eccezioni fondate su norma penale sembra tutt’altro che consolidato, venendo anzi affermato dalla sentenza del T. Pordenone, che viene citata al proposito; ii) che l’unico spiraglio può essere ravvisato nella usurarietà che si sia verificata dopo il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo, poiché – in un caso del genere – si esulerebbe dal concetto di deducibile, in quanto al tempo del giudizio di opposizione gli interessi non avevano ancora superato il tasso soglia.

Concludendo, sembra che la ricostruzione teorica prospettata dal Tribunale di Monza sia quanto meno controvertibile, fondandosi su principi che, allo stato attuale, non possono essere qualificati come sicuri e dotati di riconoscimento generale, da parte della dottrina e della giurisprudenza, ed anzi in aperto contrasto con l’insegnamento oggi assolutamente dominante.

Sembra che la decisione, spinta da ragioni di equità sostanziale, abbia compiuto quella che Gadamer e Mengoni definivano una precomprensione dell’interprete, ossia abbia previamente stabilito il punto cui intendeva approdare, a ciò indotta da ragioni equitative, per poi costruire a posteriori il sentiero argomentativo per giungere a quel risultato, pur apprezzabile sul piano morale.

[1] Mi permetto di rinviare al mio Banche inseguitrici. Equitalia, creditori e tutela della prima casa e del patrimonio. Strumenti e strategie di tutela (titolo provvisorio), Maggioli, 2015 (in corso di pubblicazione).

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